Il danno da straining è risarcibile se viene accertato

Ilaria Leverone
31 Ottobre 2023

Lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all'art. 2087 c.c., sicché, se viene accertato lo straining e non il mobbing, la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta.

Infatti, la reiterazione, l'intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma è chiaro che nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale (quali l'integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale e la partecipazione alla vita sociale e politica del lavoratore) può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore di lavoro a dover dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza.

Un lavoratore ha chiamato in causa il datore di lavoro lamentando di essere stato demansionato nonché sottoposto a mobbing dalla propria capoufficio. Dopo il rigetto di tutte le domande in primo grado, la Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha accertato il diritto del lavoratore al superiore inquadramento e ha condannato il datore di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive, negando la fondatezza della domanda di risarcimento dei danni, contrattuali ed extracontrattuali, conseguenti al mobbing. In Cassazione, il lavoratore ha eccepito la violazione dell'art. 2087 c.c. poiché le condotte vessatorie perpetrate in suo danno, accertate dai giudici di merito, non erano però state sussunte nello straining, che non era stato considerato quale fattispecie autonoma rispetto al mobbing. Inoltre, la sentenza veniva criticata per non aver ritenuto compatibile lo straining con condotte uniche e prive di reiterazione.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassando con rinvio alla Corte d'Appello per la quantificazione del danno. Secondo i Giudici, la Corte territoriale – che aveva accertato i singoli fatti mobbizzanti (demansionamento, totale stato di inattività ed emarginazione, trasferimento persecutorio e pressioni per accettare la mobilità) aveva errato nell'escludere il mobbing per mancata prova della reiterazione. Infatti, dall'istruttoria era emerso che la responsabile dell'ufficio intratteneva rapporti stressogeni con tutti i dipendenti ma in particolare con il ricorrente, nei cui confronti aveva messo in atto una condotta che la stessa Corte aveva qualificato come “stressante modalità di controllo”, che tra l'altro aveva causato il litigio all'esito del quale il lavoratore aveva avuto un attacco ischemico. Ciò nonostante, la Corte territoriale aveva escluso l'illiceità della condotta, trattandosi di un episodio isolato che, quindi, esulava dalla sistematicità di un comportamento vessatorio, persecutorio o discriminatorio reiterato e protratto nel tempo. Ebbene, la Corte di Cassazione ha invece affermato la vetustà di questo orientamento, privilegiando quello secondo cui, al di là della qualificazione come mobbing o straining, ciò che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ai sensi dell'art. 2087 c.c. da cui sia derivata una lesione degli interessi del lavoratore protetti dalla Costituzione (la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale e la partecipazione alla vita sociale e politica).

A corollario, la Cassazione ha sottolineato il valore dirimente dell'ambiente lavorativo stressogeno, che deve essere considerato quale fatto ingiusto suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali prospettate come vessatorie, anche se apparentemente lecite o solo episodiche, poiché la tutela della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell'art, 2087 c.c.

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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