L'impugnazione degli atti abnormi del giudice dell'esecuzione
Paolo Cagliari
03 Novembre 2023
In una fattispecie in cui il giudice dell’esecuzione aveva emesso un provvedimento con cui era stato ordinato il pagamento di somme a soggetti terzi, estranei al processo esecutivo, la Corte di cassazione individua nell’opposizione agli atti esecutivi lo strumento mediante il quale impugnare i cosiddetti atti abnormi, delineando i presupposti e le condizioni per la sua proposizione.
Le impugnazioni nel processo esecutivo
Il processo esecutivo, deputato non all’accertamento di diritti ma alla loro attuazione coattiva, in quanto trovino evidenza e siano consacrati in un provvedimento giurisdizionale o in un titolo cui la legge attribuisce efficacia esecutiva, è caratterizzato da un proprio sistema di rimedi impugnatori, disciplinato dagli artt. 615 e seguenti c.p.c.: si tratta dell’opposizione all’esecuzione, dell’opposizione agli atti esecutivi e dell’opposizione di terzo.
Ciascuna delle suddette opposizioni ha un proprio oggetto, specificamente individuato:
- l’opposizione all’esecuzione è diretta a contestare il diritto di procedere a esecuzione forzata;
- l’opposizione agli atti esecutivi è lo strumento attraverso il quale proporre le contestazioni inerenti alla regolarità formale (ovvero alla legalità e alla legittimità) degli atti nei quali si articola il processo esecutivo o che ne precedono l’avvio;
- l’opposizione di terzo consente di fare rilevare l’illegittimità dell’esecuzione che si svolga in danno di un soggetto, diverso dal debitore, che vanti sul bene pignorato un diritto prevalente sui creditori.
Il sistema rimediale apprestato dal legislatore in ambito esecutivo è caratterizzato dalla tassatività: non è quindi possibile proporre opposizioni diverse da quelle tipicamente disciplinate, né avvalersi di altri strumenti di impugnazione pure previsti dall’ordinamento processuale.
Il processo esecutivo, infatti, assolvendo alla funzione di soddisfare l’interesse del creditore a ottenere celermente, attraverso l’intervento del giudice, quanto dovuto dal debitore esecutato e da questi non spontaneamente adempiuto, è stato strutturato dal legislatore in modo tale da assicurare la sicurezza e la stabilità dei suoi esiti, a salvaguardia dell’affidamento qualificato che i soggetti che vi prendono parte legittimamente nutrono e che solo un sistema chiuso di rimedi per l’emersione dei vizi della procedura esecutiva può garantire efficacemente.
L'opposizione agli atti esecutivi e gli atti impugnabili
L'opposizione agli atti esecutivi, come detto, ha la funzione di consentire il controllo circa la regolarità dello svolgimento del processo esecutivo.
Assumendo la presenza di vizi che inficiano la validità di un atto compiuto da una delle parti del processo esecutivo o dal giudice dell'esecuzione (identificandosi in ciò la causa petendi dell'opposizione), l'opponente ne chiede la revoca, l'annullamento o la modifica (identificandosi in ciò il petitum dell'opposizione).
La legittimazione a proporre l'opposizione agli atti esecutivi non appartiene soltanto al creditore procedente, agli altri creditori partecipanti all'esecuzione, al debitore esecutato e al terzo assoggettato all'esecuzione, ma, più in generale, a tutti coloro che, quantunque non rivestano la posizione di parti del processo esecutivo, siano potenzialmente destinatari dell'atto che si afferma essere illegittimo, in quanto incidente sulla loro sfera giuridica, con conseguente interesse a chiederne la rimozione: così, per esempio, la giurisprudenza ha affermato che è legittimato all'opposizione l'offerente non aggiudicatario (Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2009, n. 6186) e il comproprietario non debitore del bene indiviso pignorato (Cass. civ., sez. III, 2 agosto 1997, n. 7169).
L'ampiezza del rimedio impugnatorio dell'opposizione agli atti esecutivi si apprezza anche dal punto di vista oggettivo: si ritiene, infatti, che con essa possano e debbano essere contestati non solo gli atti che precedono l'avvio dell'esecuzione forzata, in quanto a esso propedeutici (si tratta, più precisamente, delle invalidità che attengono alla formazione o alla notifica del titolo esecutivo e del precetto), o quelli nei quali si articola il processo esecutivo, ma pure i cosiddetti atti abnormi, ossia difformi dal modello legale o adottati dal giudice dell'esecuzione in assenza di un correlativo potere attribuitogli dalla legge processuale.
L'enucleazione della categoria degli atti abnormi ha origini dogmatiche risalenti (Denti, In tema di provvedimenti giudiziali abnormi, in Giur. It., 1955, I, 2, 532, definiva abnorme il provvedimento giudiziale che abbia un contenuto diverso da quello stabilito dalle norme processuali che lo disciplinano o addirittura non previsto da alcuna norma; Jannuzzi, Impugnazione del provvedimento decisorio anomalo, in Giust. civ., 1959, 2182, individuava l'atto abnorme in quello che, allontanandosi dalla norma, risulta diverso dallo schema tipico in esso previsto) e ha condotto all'individuazione di vizi – anche di carattere formale – talmente gravi da potere determinare persino l'inesistenza giuridica dell'atto che ne risulta afflitto, intesa come carenza dei requisiti minimi indispensabili per fare assurgere quel determinato atto a fattispecie giuridica, in quanto viziato in modo assoluto e insanabile.
Proprio dell'impugnazione di un atto abnorme del giudice dell'esecuzione si è occupata la Corte di cassazione, con la sentenza n. 28562 del 13 ottobre 2023.
L'opposizione agli atti esecutivi avverso gli atti abnormi
Nel corso di un'espropriazione immobiliare, il giudice dell'esecuzione delegava a un notaio le operazioni di vendita ai sensi dell'art. 591-bis c.p.c.
Aggiudicato l'immobile, il professionista delegato, anziché riversare il prezzo di aggiudicazione sul libretto intestato alla procedura esecutiva, lo incassava personalmente, facendolo accreditare sul proprio conto bancario personale.
A distanza di diversi anni e dopo che il notaio era deceduto, il giudice dell'esecuzione emetteva un provvedimento con il quale ordinava ai suoi eredi di pagare l'importo corrispondente al prezzo di aggiudicazione, maggiorato degli interessi medio tempore maturati; gli eredi impugnavano il provvedimento con opposizione ex art. 617 c.p.c., che il Tribunale di Catania, pur rilevando che l'atto del giudice dell'esecuzione doveva effettivamente considerarsi abnorme, dichiarava inammissibile per carenza d'interesse, dal momento che la denunciata abnormità non era stata dedotta con il ricorso proposto al giudice dell'esecuzione, ma solamente nel corso della successiva fase di merito.
Di qui, il ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Catania.
I giudici di legittimità hanno confermato la qualificazione in termini di atto abnorme del provvedimento con cui il giudice dell'esecuzione aveva ordinato agli eredi del professionista delegato (soggetti certamente terzi rispetto al processo esecutivo) il pagamento di una somma di denaro.
Deve reputarsi pacifico, infatti, che il giudice dell'esecuzione, nell'ambito della giurisdizione demandatagli, pur avendo il potere di emettere condanne ovvero ingiunzioni (si pensi, per esempio, al decreto con cui, ai sensi dell'art. 177 disp. att. c.p.c., l'aggiudicatario decaduto per non avere versato tempestivamente il saldo prezzo viene condannato al pagamento della differenza tra il prezzo da lui offerto e quello effettivamente ottenuto a seguito della rinnovazione dell'esperimento di vendita), non può farlo al di fuori dei casi nei quali la legge lo prevede e, a maggior ragione, nei confronti di soggetti terzi estranei al processo esecutivo.
Un tanto è la conseguenza del fatto che, in linea generale e a eccezione dei casi tassativamente previsti (com'è a dirsi, per esempio, per l'accertamento dell'obbligo del terzo ai sensi del novellato art. 549 c.p.c.), il giudice dell'esecuzione non dispone di poteri di cognizione, propedeutici e funzionali all'emissione di statuizioni di condanna, ovvero di accertamento delle situazioni soggettive inerenti ai rapporti con soggetti estranei alla procedura esecutiva.
L'evidente illegittimità del provvedimento, d'altra parte, rende incontestabile la sussistenza di un interesse dei suoi destinatari a impugnarlo con l'opposizione agli atti esecutivi.
In linea di massima, l'interesse giuridicamente rilevante che, al pari di ogni domanda giudiziale, deve – ai sensi dell'art. 100 c.p.c. – caratterizzare l'opposizione ex art. 617 c.p.c. va individuato nell'esigenza di ottenere un risultato utile non conseguibile altrimenti.
Peraltro, proprio con riguardo allo strumento dell'opposizione agli atti esecutivi, in quanto diretto a censurare la difformità dell'atto dal modello legale, la giurisprudenza, sebbene con accenti diversi, sostiene che l'opponente non può limitarsi a lamentare l'inosservanza di una prescrizione di carattere formale, ma deve, altresì, indicare lo specifico e concreto pregiudizio che da tale violazione gliene è derivato, vuoi perché non esiste un interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria che possa considerarsi disgiunto da una concreta lesione del diritto che la regola processuale asseritamente violata mira a tutelare, vuoi perché, quand'anche la denunciata violazione vi sia stata, non può assumere rilievo quando l'atto viziato abbia comunque raggiunto lo scopo assegnatogli dalla legge (in questi termini, per esempio, Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2019, n. 3967 e Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2014, n. 14774).
Nel caso di specie, tuttavia, era chiaro che, se il provvedimento di condanna illegittimamente emanato non fosse stato annullato o revocato, i suoi destinatari si sarebbero visti costretti a pagare quanto ordinato dal giudice dell'esecuzione, sicché, di fatto, l'interesse degli opponenti era da considerarsi in re ipsa.
L'impugnabilità dell'atto abnorme con l'opposizione agli atti esecutivi, del resto, era già stata affermata dalla giurisprudenza di legittimità: Cass. civ., sez. III, 7 febbraio 2013, n. 2968, per esempio, pur reputando inammissibile l'impugnazione proposta ai sensi dell'art. 617 c.p.c. avverso il provvedimento di mero rinvio dell'udienza adottato dal giudice dell'esecuzione, che, avendo funzione meramente preparatoria e di governo del processo esecutivo, è insuscettibile di incidere negativamente nella sfera giuridica degli interessati, ha nel contempo affermato che il rinvio sistematico ovvero a data incompatibile con le ragioni poste a suo fondamento – che si traduca in una sostanziale sospensione del processo esecutivo – configura atto abnorme del giudice dell'esecuzione, contestabile con l'opposizione agli atti esecutivi, sempre che la parte che la propone dimostri l'esistenza di un pregiudizio serio e attuale alle proprie ragioni.
In conclusione
Stante la tassatività dei rimedi impugnatori attivabili nell'ambito del processo esecutivo, non vi è dubbio che l'opposizione agli atti esecutivi sia l'unico strumento mediante il quale potere reagire avverso i provvedimenti del giudice dell'esecuzione che, per la loro eccentricità rispetto a quanto previsto dalla legge (per il loro contenuto, oppure per l'ambito o il contesto in cui vengono assunti), siano qualificabili come abnormi, trattandosi pur sempre di fare valere vizi che ineriscono alla forma o alla sostanza dell'atto e che, come tali, rientrano tra quelli tipicamente denunciabili proprio con l'opposizione ex art. 617 c.p.c.
Il ricorso a tale mezzo d'impugnazione non può essere precluso ai soggetti che non sono parti del processo esecutivo, a maggior ragione se non dispongono di altro strumento per paralizzare gli effetti pregiudizievoli che l'atto abnorme è in grado di produrre nei loro confronti e a loro danno.
Attenzione, però, a individuare correttamente fin da subito le ragioni di illegittimità del provvedimento censurato.
Tenuto conto della struttura bifasica delle opposizioni esecutive, che si articolano in una fase (lato sensu cautelare) deputata a svolgersi innanzi al giudice dell'esecuzione, investito del ricorso proposto dall'opponente, seguita da una fase di cognizione vera e propria, nell'ambito di un ordinario giudizio di merito introdotto a seguito dei provvedimenti assunti ai sensi dell'art. 618 c.p.c. (e necessariamente trattato da un magistrato diverso dal giudice dell'esecuzione, giusta quanto disposto dall'art. 186-bis disp. att. c.p.c.), i motivi di opposizione (vale a dire, la causa petendi della stessa) resteranno strettamente confinati a quelli individuati nel ricorso tempestivamente proposto nel termine perentorio di venti giorni stabilito dall'art. 617 c.p.c., come affermato chiaramente dalla Corte di cassazione.
Nel caso di specie, i ricorrenti si erano inizialmente limitati a contestare l'effettiva sussistenza dell'obbligazione di pagamento posta a loro carico, sostenendo che era maturata la prescrizione e che non potevano essere condannati in solido, stante la parziarietà dell'obbligazione che fa capo agli eredi per debiti del de cuius; solo nella successiva fase di merito erano state formulate doglianze circa l'abnormità dell'atto impugnato.
Le censure proposte, dunque, non possono essere modificate o implementate con l'atto introduttivo della fase di merito a cognizione piena, con conseguente impossibilità di accogliere l'opposizione per ragioni o motivi diversi da quelli posti a base del ricorso originario; ferma restando soltanto la possibilità, in presenza di nullità talmente radicali da impedire comunque la sanatoria dell'atto illegittimo per mancata opposizione, di ulteriori contestazioni, nelle sedi opportune, in ordine agli effetti che ne dovessero scaturire, ovvero di esercizio del potere di revoca da parte del giudice.
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Sommario
L'opposizione agli atti esecutivi e gli atti impugnabili
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