Responsabilità sanitaria, obbligo informativo e mancato consenso: il danno risarcibile (con o senza danno alla salute)
03 Novembre 2023
Una paziente conveniva in giudizio i due medici che la avevano avuto in cura, chiedendo che fossero entrambi condannati in solido al risarcimento dei danni da lei subiti a causa della negligenza ed imperizia nella cura della patologia dermatologica dalla quale ella era stata colpita. A sostegno della domanda, la ex paziente esponeva di essersi sottoposta ad un intervento chirurgico ambulatoriale per l'asportazione di una cisti del cuoio capelluto, senza che in quella circostanza il medico la avvisasse della necessità di compiere un esame istologico dei tessuti. Verificatasi alcuni mesi dopo una recidiva, la donna si era rivolta al secondo medico, il quale l'aveva sottoposta ad una nuova analoga asportazione, anche questa volta senza indicazione della necessità di un esame istologico dei tessuti, nonostante in questa occasione vi fosse stato un abbondante sanguinamento. Ricomparse successivamente ulteriori cisti nel medesimo punto, la paziente aveva deciso di rivolgersi ad un diverso istituto medico dove le era stata compiuta la diagnosi di dermatofibrosarcoma protuberans, con obbligo di ulteriori cure e demolizione di ampia sezione del cuoio capelluto e relativa ricostruzione. Sulla base di questo svolgimento dei fatti, la donna chiedeva la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni conseguenti all'omesso espletamento di un esame istologico dei tessuti con evidente ritardo nella diagnosi della malattia tumorale dalla quale era stata colpita. Il Tribunale, dopo aver disposto l'espletamento di due CTU, accoglieva parzialmente la domanda nei confronti di un dottore ma la pronuncia veniva impugnata e la Corte di appello competente, dal proprio canto, accoglieva la domanda della danneggiata solo in relazione alla violazione del principio del consenso informato condannando i medici al pagamento di una somma non elevata a favore della danneggiata. Quest'ultima ricorreva in Cassazione. La Suprema Corte, in prima battuta, rammenta come il problema del diritto al consenso informato e delle conseguenze giuridiche della sua violazione, come anche quello della sua diversità rispetto al diritto ad ottenere un trattamento terapeutico corretto, ha formato oggetto di numerose pronunce. La giurisprudenza della Suprema Corte ha già da tempo affermato che in tema di responsabilità professionale del medico, l'inadempimento dell'obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo ai fini risarcitori, anche in assenza di un danno alla salute oppure in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all'informazione, tutte le volte in cui siano configurabili a carico del paziente conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale alla autodeterminazione se stesso considerato, sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi. La Suprema Corte menziona parimenti che le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto alla autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli (e dunque senza un consenso legittimamente prestato) devono essere debitamente allegate dal paziente sul quale grava l'onere di provare il fatto positivo del rifiuto, che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva. D'altra parte, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all'autodeterminazione in ordine al trattamento medico proposto. La violazione da parte del medico del dovere di informare il paziente può causare due diversi tipi di danni:
La Suprema Corte ricorda anche l'ipotesi in cui esiste il consenso presunto, ossia allorquando può presumersi che, se correttamente informato, il paziente avrebbe comunque prestato il suo consenso. In questo caso, gli Ermellini asseriscono che laddove non vi sia alcun danno derivante dall'intervento, non è dovuto alcun risarcimento. Se invece ricorrono il consenso presunto e il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente oppure colposa del medico nell'esecuzione della prestazione sanitaria, il danno da lesione del diritto costituzionalmente tutelato all'autodeterminazione risarcibile, qualora il paziente alleghi e provi che dalla omessa , inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente. In conclusione, nell'applicare tutti questi principi al caso di specie, la Suprema Corte ritiene che la Corte di appello abbia errato per non aver correttamente applicato il detto orientamento giurisprudenziale in materia nel caso specifico. Infatti, dal contenuto del ricorso, che ricostruisce la vicenda giudiziaria, si evince che anche nel primo grado non risulta che la paziente abbia lamentato una vera e propria lesione del diritto alla autodeterminazione, dato che la stessa ricorrente principale ha osservato che nessuno dei due medici curanti le aveva chiesto prima del trattamento chirurgico il consenso informato e che, al contrario, nessuno l'aveva avvertita dell'opportunità di un previo esame istologico di un frammento della neoformazione. In altri termini, dall'esame dal ricorso è emerso come la domanda risarcitoria non fosse rivolta a censurare l'operato tecnico dei due professionisti ma che la doglianza si collocasse in un momento successivo, perché la paziente contesta che ha alla duplice escissione chirurgica non siano state fatte seguire le dovute indagini istologiche e le conseguenti indicazioni terapeutiche. Tuttavia, non viene prospettato neppure dall'attrice che, in presenza di un'adeguata informazione, la stessa avrebbe rifiutato di sottoporsi ai due interventi ed, anzi, in considerazione della situazione del consenso della paziente all'intervento deve ritenersi presunto, anche perché non è dato sapere quale altra strada si sarebbe potuto intraprendere che non fosse la asportazione. Perciò la Suprema Corte trae la conclusione che non è corretta l'affermazione della Corte di appello secondo cui la mancata acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario avrebbe leso il diritto della donna a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura ed ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui veniva sottoposta, nel senso che l'errore in questione, qualora fosse riconosciuto, costituirebbe non una lesione del diritto alla autodeterminazione quanto piuttosto una forma di non corretta esecuzione della prestazione terapeutica. Per questi motivi la Corte ha accolto solo parzialmente il ricorso principale, delegando il giudice di rinvio, alla luce del riesame dell'intera vicenda e degli orientamenti della Corte, a stabilire se vi sia stato o meno una lesione del diritto della paziente all'autodeterminazione, nei termini fissati dalla giurisprudenza menzionata dagli Ermellini. (Fonte: Diritto e Giustizia) |