Interesse privato del curatore: necessaria una sua concreta attività (anche a danno del singolo creditore)
09 Novembre 2023
Massime La condotta di "prendere interesse" richiamata dall'art. 334 d.lgs. n. 14/2019 con riferimento al delitto di interesse privato del curatore ricorre quando questi, nello svolgimento del suo incarico, anche mediante il compimento di atti formalmente e sostanzialmente legittimi, sfrutti il suo ufficio per un interesse privato, funzionalizzando un qualsiasi atto della procedura al conseguimento di un fine ad essa estraneo, occorrendo però anche che l'interesse perseguito sia non solo incoerente con la finalità propria ed esclusiva dell'amministrazione fallimentare, ma con questa confliggente, rimanendo fuori dall'area dell'illecito penale le ipotesi in cui si realizzi una mera coincidenza tra i vantaggi privati e gli interessi dell'ufficio o in cui l'interesse del pubblico ufficiale non risulti, in concreto, rivolto a perseguire un vantaggio personale che si ponga in contrasto con le finalità della procedura concorsuale o dell'amministrazione straordinaria.
Ai fini della sussistenza del delitto di interesse privato del curatore rileva anche il contrasto fra gli interessi di costui e la posizione del singolo creditore, in quanto, pur non avendo il curatore un potere di rappresentanza dei creditori e dovendo agire con le azioni c.d. di massa, dirette ad ottenere, nell'interesse del ceto creditorio, la ricostruzione del patrimonio del debitore, ha comunque come suo specifico compito quello di tutelare il singolo creditore, nella sua dimensione individuale, attraverso ogni specifico adempimento necessario, all'interno della gestione collettiva dei rapporti, ad assicurare a quest'ultimo, la massima soddisfazione possibile. Il caso In sede di merito era adottato nei confronti di un curatore un sequestro preventivo in relazione ad una contestazione del reato di interesse privato del curatore. Le contestazioni riguardavano la cessione di crediti insinuati nello stato passivo di procedure fallimentari o riconosciuti e inseriti nel passivo di una procedura di concordato preventivo omologata, trasferiti in favore di società riconducibili agli indagati ad un prezzo inferiore a quello poi corrisposto all'interno della procedura in favore del cessionario. In estrema sintesi, secondo la prospettazione accusatoria, l’indagato, unitamente ad altri soggetti a lui legati anche da vincoli parentali, aveva realizzato un sofisticato sistema criminoso finalizzato alla cessione a basso costo di crediti deteriorati in favore di società a loro stessi riconducibili, utilizzando informazioni privilegiate che avrebbe avuto in ragione del munus pubblico ricoperto e nascondendo il conflitto di interessi in cui egli versava. In sede di ricorso per cassazione, per quanto di interesse in questa sede, la difesa lamentava in primo luogo che i crediti della cui cessione si parlava non facevano capo alla procedura bensì erano crediti vantati da terzi nei confronti della massa ed in secondo luogo faceva perno sulla circostanza che il provvedimento cautelare aveva rinvenuto un conflitto tra l'interesse (privato) del curatore e quello dei singoli creditori ceduti, conflitto che quand’anche sussistente sarebbe stato irrilevante, posto che il curatore non provvede alla tutela dei singoli ma amministra il patrimonio dell'impresa fallita nell'interesse della massa dei creditori. Viceversa, secondo la prospettazione difensiva, le condotte contestate, essendo state poste in essere nel rispetto degli stati passivi esecutivi e dei piani di riparto approvati, lungi dall'essere lesive degli interessi della massa, avrebbero, al contrario, realizzato le specifiche finalità della procedura fallimentare, tanto più che la cessione dei crediti sarebbe intervenuta dopo la liquidazione dell'attivo e avendo chiaramente informato i creditori ceduti delle attività di vendita poste in essere e delle conseguenti disponibilità acquisite. Inoltre, le condotte poste in essere dal ricorrente, sebbene (in ipotesi accusatoria) vantaggiose e lucrative per le società da lui amministrate, non solo non avrebbero leso alcun interesse della procedura, ma, essendo state poste in essere nella fase successiva all’omologa del concordato preventivo, sarebbero state poste in essere al di fuori delle sue specifiche attribuzioni di commissario liquidatore, limitate, nella fase post-omologa, alla sola verifica del corretto adempimento delle obbligazioni assunte. La questione Il delitto di interesse privato del curatore negli atti del fallimento di cui all'art. 334 d.lgs. n. 14 del 2019 (CCII) – in precedenza disciplinato dall'art. 228 l. fall. – punisce il curatore fallimentare che “prenda interesse privato in qualsiasi atto del fallimento, direttamente o per interposta persona”. La legge, dunque, punisce la interessenza che il curatore assume all'interno del fallimento da lui gestito, mentre lo stesso soggetto va assolutamente esente da sanzione quando si interessi privatisticamente di qualsiasi atto di altro fallimento, anche nei casi, in realtà tutt'altro che infrequenti, in cui il curatore fallimentare può influenzare in maniera rilevante lo svolgimento dell'altra e diversa procedura. La fattispecie tutela l'interesse al regolare sviluppo della procedura fallimentare, all'integrità dell'azione del curatore ed alla dignità di tale organo dell'ufficio fallimentare, ovvero, come sintetizzato da alcuni, il prestigio dell'amministrazione della giustizia e della pubblica amministrazione (nel senso che si tratti di una fattispecie a carattere plurioffensivo, Cass. pen, sez. V, 13 aprile 1994, n. 4173). Peraltro, è anche rinvenibile una ulteriore ragione idonea a giustificare la presenza della previsione in commento nella disciplina penale del diritto fallimentare, ragione attinente non tanto all'oggetto di tutela, quanto alle modalità con cui assicurare la stessa onde evitare che qualsiasi comportamento delittuoso tenuto dal curatore o dai soggetti allo stesso assimilati possa andare esente da sanzione. Come sostenuto dalla Corte costituzionale, “l'autonoma fattispecie incriminatrice di interesse privato del curatore fallimentare e delle figure assimilate trova ragionevole giustificazione nella necessità di assoggettare alla sanzione penale condotte non suscettibili di rigida schematizzazione formale; pertanto, tali norme non violano l'art. 3 cost., nella parte in cui, a tutela della correttezza delle procedure concorsuali, impongono di sanzionare penalmente condotte che sfuggirebbero alla previsione dell'attuale normativa generale, per l'assenza dell'ivi prescritta violazione diretta di norme di legge o regolamento” (C. cost., 18 marzo 199 n. 69). La legge richiede che il curatore prenda interesse privato in un “atto del fallimento”. Nonostante la lettera della legge, è certo che l'atto verso cui deve rivolgersi il comportamento illecito del curatore non deve essere necessariamente contenuto nei limiti temporali della vicenda fallimentare, potendo esso porsi anche al di fuori della chiusura della procedura concorsuale predetta: la locuzione legislativa deve essere intesa nel senso che la presa di interesse deve avvenire in relazione ad “atti degli organi del fallimento, dal che consegue che, fino a quando [gli stessi organi] sono in funzione, permane il presupposto per l'applicabilità dell'art. 228 legge fallimentare” (NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano 1955, 335): è il caso, ad esempio degli atti propri della fase del concordato post-fallimentare (SANDRELLI, I reati della legge fallimentare diversi dalla bancarotta, Milano 1990, 98). In secondo luogo, va evidenziato come la dizione di “atti del fallimento” non sta ad indicare, come penalmente rilevanti, solo le condotte che interessino gli atti della curatela, giacché è opinione pacifica che l'interessenza del curatore possa riguardare atti di qualsiasi organo della procedura concorsuale. Il curatore, dunque, sarà chiamato a rispondere, ai sensi dell'art. 334 in commento, tutte le volte che avrà realizzato un privato interesse in un atto comunque afferente alla procedura fallimentare, direttamente posto in essere o di pertinenza del tribunale, del giudice delegato, dell'assemblea o del comitato dei creditori: per cui, ad esempio, il curatore risponderà del reato ove solleciti ed ottenga dal tribunale fallimentare la estensione del fallimento ad un terzo, al solo fine di realizzare un privato interesse, ovvero con il medesimo fine agisca sul comitato o sull'assemblea dei creditori (Cass. pen, sez. V, 22 maggio 1994, n. 4173). La formula normativa richiede chiaramente che la condotta illecita del curatore venga posta in essere con riferimento ad un atto del fallimento, non essendo sufficiente quindi che il soggetto tenga un semplice comportamento materiale espressione di un proprio intento criminoso, se tale volontà non si estrinsechi comunque nel compimento di un atto della procedura. Tuttavia, la dottrina ritiene che tale affermazione non vada intesa in maniera particolarmente rigida, dovendo riconoscersi la natura di atto del fallimento ad “ogni espressione della volontà degli organi della procedura, finalizzata ad uno scopo processualmente rilevante: non dunque soltanto atti connotati da formalità o atti esplicitamente previsti dalla normativa fallimentare, bensì tutta quella serie di manifestazioni della volontà in sé perfetta che vedano il curatore [punto di] riferimento istituzionale ed organico e [siano diretti al perseguimento degli scopi] della procedura” (SANDRELLI, I reati della legge fallimentare, cit., 99). Volendo esemplificare, si deve riconoscere che la condotta del curatore può riguardare la formulazione di una istanza, anche orale, al giudice delegato – come ad esempio la richiesta di estensione della procedura a terzi o di esercizio di azioni giudiziali ecc. -, ovvero può consistere nella formulazione di un parere; l'atto può essere interno alla procedura – come ad esempio l'attribuzione di un incarico di valutazione di un cespite ad un determinato perito estimatore, legato al curatore da vincoli di parentela o amicizia – o efficace verso l'esterno, ed in proposito va riconosciuto che possono assumere rilevanza penale anche atti a contenuto e natura negoziale, siano essi di ordinaria o straordinaria amministrazione, con l'unica eccezione, su cui si tornerà in seguito, degli atti in relazione al cui compimento e contenuto il curatore sia privo di ogni discrezionalità. Alcuni autori riconoscono la natura di “atti del fallimento” anche agli atti svolti dal curatore non direttamente quale organo della procedura, ma come parte nei procedimenti contenziosi scaturiti dall'attività della procedura. Questa tesi è sostenuta considerando che tali attività sono conseguenti ad atti degli organi fallimentari, ed in particolare all'autorizzazione del giudice delegato e in relazione al fatto che la loro definizione influisce in maniera diretta e rilevante sulla procedura concorsuale. Per la sussistenza del delitto, è necessario solo che il curatore “prenda interesse” in qualche atto del fallimento, non invece che l'atto stesso presenti vizi e patologie di qualche tipo, giacché “il reato di interesse privato del curatore negli atti del fallimento può configurarsi anche in relazione ad atti formalmente e sostanzialmente legittimi, quando il curatore abbia associato il suo privato interesse alle finalità pubbliche degli atti medesimi... essendo all'uopo sufficiente che il curatore esplichi una concreta attività volta a realizzare, attraverso l'ufficio della curatela fallimentare, un interesse non ricollegabile alla finalità propria ed esclusiva della gestione fallimentare (nella specie: il curatore patrocinò, in un giudizio di sfratto dai locali di proprietà del fallito, gli interessi del conduttore, al quale fece vendere, in pendenza del giudizio, esprimendo, nella sua qualità, parere favorevole, i locali medesimi)” (Cass. pen, sez. V, 12 aprile 1984, n. 3298). Il punto più delicato nell'esame della fattispecie criminosa in esame attiene alla esatta definizione della nozione di “interesse privato”, ed alla individuazione delle modalità con cui deve estrinsecarsi la condotta di “prendere interesse in atti del fallimento”. Quanto alla nozione di “interesse privato”, la dottrina attribuisce alla formulazione letterale in parola un significato assai lato, tale da assicurare un ampio margine per l'applicazione della disposizione incriminatrice. In primo luogo, si esclude che possa assumere rilievo, per l'attribuzione di un significato penale alla condotta del curatore, la natura, patrimoniale o meno, del vantaggio avuto di mira dall'agente, potendo lo stesso agire anche per il soddisfacimento di bisogni non aventi contenuto economico, ad esempio, per il solo intento di danneggiare terzi soggetti (SANTORIELLO, I reati del curatore, Padova 2002, 182). In secondo luogo, dottrina e giurisprudenza ritengono applicabile l'art. 228 l. fall. tanto ai casi in cui il curatore profitti dell'ufficio nel suo personale interesse, quanto nei casi in cui si serva della sua carica per avvantaggiare terze persone, proprio perché la nozione legislativa in parola sarebbe diretta a sanzionare ogni ingerenza profittatrice del soggetto per finalità di carattere privato. Assai più complessa, invece, è la definizione della condotta di “prendere interesse in atti del fallimento”. E' evidente che il delitto in esame conosce una pluralità di modalità di realizzazione, non descrivendo la norma alcuna precisa articolazione del comportamento del soggetto agente, ma richiedendo solo che venga tenuta, da parte del curatore e soggetti a lui assimilati, una condotta mediante la quale costui sfrutti il suo ufficio per un interesse privato, ingerendosi in qualsiasi atto della procedura, ovvero agendo in modo che l'atto stesso sia volto al conseguimento di un fine estraneo alla pubblica amministrazione. Tuttavia, pur considerando che il delitto in parola si presenta come reato a fattispecie multipla, può da subito sottolinearsi come la norma non si accontenti della semplice esistenza in capo al curatore di un interesse al compimento dell'atto del fallimento, ma richieda che lo stesso “prenda un interesse”, essendo necessario non solo che il curatore sia meramente consapevole di un contrasto fra interessi facenti a lui capo ed i doveri inerenti il suo ufficio pubblico, ma che eserciti concretamente un'attività finalizzata al soddisfacimento dei propri desiderata: in sostanza, non basta la semplice esistenza di un interesse privato, ancorché incompatibile con quello pubblico, ma occorre che l'interesse privato del soggetto agente si estrinsechi e si manifesti in una concreta attività diretta a realizzare l'interesse stesso (Cass. pen, sez. V, 22 febbraio 1980, n. 2668). Il profilo più delicato di discussione riguarda tuttavia la possibilità di riconoscere la rilevanza penale della condotta del curatore anche laddove questi abbia perseguito sì un proprio interesse, ma senza porsi in contrasto con gli interessi della procedura, di modo che il perseguimento del primo è coinciso con il raggiungimento dei secondi, senza che all'amministrazione fallimentare sia derivato alcun danno. La posizione assolutamente prevalente, tanto in dottrina (SOANA, I reati fallimentari, Milano 2021, 436) che in giurisprudenza, è nel senso che per la sussistenza del reato del curatore fallimentare non è sufficiente la mera coincidenza o coesistenza di un interesse privato convergente o compatibile con l'interesse pubblico, né, tantomeno, la mera violazione di un obbligo di astensione, ma, consistendo la presa di interesse in una effettiva ingerenza profittatrice, è necessaria la strumentalizzazione dell'atto pubblico ad un fine privato, contrario o confliggente con l'interesse della procedura concorsuale, traendosi argomento a sostegno di tale conclusione anche dal confronto tra le disposizioni di cui agli artt. 2631 e 2637 c.c.. (si veda anche C. cost., 18 marzo 1999, n. 69). Da ultimo, con riferimento alla condotta di presa di interesse in atti del fallimento, va notato come in base alla dizione letterale dell'art. 334 d.lgs. n. 14 del 2019, la condotta punibile può essere realizzata anche con atti simulati nonché mediante l'interposizione di altra persona. La simulazione può essere assoluta - come allorquando vengano simulati inesistenti atti attestanti requisiti per la nomina a perito o coadiutore - o relativa – interessando cioè la qualificazione giuridica del negozio effettivamente posto in essere -, nonché riguardare l'aspetto soggettivo, cioè l'identità delle persone interessate al negozio - come nel caso si presenti come appartenente a terzi estranei la partecipazione in una società di pertinenza del curatore, e resasi cessionaria dei cespiti fallimentari. Quanto alla interposizione, si ritiene che essa possa essere tanto reale – nel senso di sottendere un negozio indiretto che veda beneficiario e parte il curatore, che invece non compare nell'atto contrattuale che interessa la procedura fallimentare – che fittizia, laddove cioè la persona che entra in contatto con il fallimento non sia che una “testa di legno” del curatore, vero soggetto interessato alla conclusione del negozio ed effettivo intestatario degli effetti giuridici dello stesso. Quanto alla possibile responsabilità dei terzi che concorrano con il curatore nel tenere le suddette condotte di simulazione o interposizione, ovvero che in qualche modo collaborino con il soggetto attivo nella realizzazione del comportamento vietato, dopo alcune perplessità la dottrina si esprime unanimemente in senso positivo, ed analoga posizione è assunta dalla giurisprudenza che, ad esempio, con riferimento alla posizione del commissario giudiziale, sostiene che “possono concorrere nel reato di interesse privato del commissario, in qualità di istigatori, i debitori, i consulenti e l'assuntore occulto del concordato che trattano una "cessio bonorum" in frode ai creditori” (Cass. pen, sez. V, 22 novembre 1993, n. 10590). In dottrina, si discute della possibile rilevanza penale degli atti compiuti dal curatore fallimentare in adempimento di un preciso obbligo di legge, nonché delle attività tenute dal medesimo soggetto a seguito di apposita autorizzazione del giudice delegato. In ordine agli atti assolutamente vincolati, la cui adozione sfugge a qualunque decisione discrezionale del curatore – si pensi, ad esempio, alla declaratoria di inefficacia in base all'art. 64 della legge fallimentare degli atti a titolo gratuito – la posizione della dottrina prevalente è nel senso di ritenere gli stessi penalmente irrilevanti o, meglio, di considerarli inidonei a realizzare la condotta vietata dalla legge. Tale opinione si fonda sulla considerazione che, mediante l'assunzione di tali atti, quale che sia l'interesse privato che in essi prenda il curatore, comunque si darebbe esecuzione ad un preciso obbligo di legge, di modo che, al più, vi sarebbe una coincidenza fra interesse privato del curatore ed obiettivi propri della procedura, con conseguente irrilevanza penale della condotta tenuta dall'organo fallimentare. Assolutamente diversa, invece, è la risposta che viene fornita con riferimento a quelle attività che il curatore ponga in essere dietro autorizzazione del giudice delegato. Infatti, nella dottrina prevalente, a prescindere dalle ipotesi di concorso del giudice delegato nell'illecito penale, nonché dalle circostanze in cui tale organo giurisdizionale rilasci la propria autorizzazione sulla base di una rappresentazione mendace dei fatti resagli dal curatore, nelle quali ovviamente non vi è dubbio di sorta circa la sussistenza del delitto in esame, si ritiene che “raramente si verificherà un caso di adempimento del dovere, da parte del curatore, scriminante ex art. 51 c.p.” (CADOPPI, Reati dal curatore e dei suoi ausiliari, in Commentario Scialoja-Branca, a cura di F. BRICOLA, F. GALGANO, G. SANTINI, Bologna - Roma 1984, 134). Tale asserzione si fonda sulla considerazione che, laddove l'autorizzazione del giudice delegato ponga il curatore addirittura nella condizione di violare la legge penale, nulla potrebbe esimere quest'ultimo soggetto dal dovere di sindacare la legittimità dell'ordine. Nei casi in esame, dunque, nonostante la natura vincolata ovvero appositamente autorizzata dell'attività da tenere, il curatore, laddove sia consapevole di essere portatore di interessi contrastanti con quelli che invece dovrebbe realizzare e perseguire quale pubblico ufficiale, deve astenersi dall'ufficio, presentando le sue dimissioni; ovviamente, laddove tali dimissioni non siano accettate dagli organi competenti, il curatore potrà proseguire liberamente nello svolgimento della sua funzione, essendo stato giudicato non rilevante dal tribunale fallimentare il contrasto di interessi da lui segnalato . Analogamente, in presenza di una situazione quale quella sopra descritta, il curatore, presentate le sue dimissioni, considerando che tale rinuncia all'incarico avrà effetto solo dal momento in cui il tribunale abbia provveduto alla nomina di un nuovo titolare dell'ufficio, potrà comunque procedere al compimento degli atti rispetto ai quali sia sussistente una situazione di conflitto di interessi, se sussistano ragioni di particolare urgenza, cioè nei casi in cui il ritardo nel compimento dell'atto determinerebbe un danno per la procedura. Si ricorda che del delitto di interesse privato in atti della procedura concorsuale possono rispondere anche il commissario giudiziale nel concordato preventivo (art. 341 d.lgs. n. 14/2019), il commissario liquidatore per la liquidazione coatta amministrativa (art. 343 d.lgs. n. 14/2019) ed il commissario straordinario per la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (art. 96 d.lgs. n. 270/1999). In particolare, la condotta di interesse privato tenuta dal commissario giudiziale non differisce in alcunché dal medesimo comportamento assunto dal curatore fallimentare, ma non si può trascurare la notevole discrezionalità di cui il commissario giudiziale gode nell'espletamento del suo incarico: mentre nella procedura fallimentare l'azienda decotta ha praticamente cessato il suo funzionamento, ed il curatore, salva la sporadica ipotesi dell'esercizio provvisorio dell'impresa, ha la funzione di provvedere alla liquidazione, a breve scadenza, del patrimonio del fallito, con la conversione in denaro di tutte le attività costituenti tale patrimonio, il commissario giudiziale provvede al governo di una impresa ancora funzionante, con un diversa intensità, che va dalla mera vigilanza alla vera e propria gestione; di conseguenza, la valutazione circa le modalità con cui devono raggiungersi gli obiettivi della procedura deve essere improntata ad una maggiore elasticità e con minore severità va giudicato il comportamento del commissario giudiziale che eventualmente soddisfi anche un proprio interesse contestualmente al corretto esercizio delle proprie funzioni. La decisione della Cassazione Il ricorso – nel caso di specie - è stato giudicato infondato. La decisione in commento ribadisce che la nozione di "prendere interesse" - che è alla base della fattispecie esaminata – ricorre quando il curatore, nello svolgimento del suo incarico, anche mediante il compimento di atti formalmente e sostanzialmente legittimi, sfrutti il suo ufficio per un interesse privato, funzionalizzando un qualsiasi atto della procedura al conseguimento di un fine ad essa estraneo. Non è, tuttavia, sufficiente la sola coerenza dell'atto rispetto all'interesse privato del curatore ma occorre, da un canto, che quest'ultimo abbia tenuto uno specifico comportamento (anche di sola acquiescenza) diretto a realizzare questo interesse e dall'altro, che l'interesse perseguito sia non solo incoerente con la finalità propria ed esclusiva dell'amministrazione fallimentare, ma con questa confliggente, rimanendo fuori dall'area dell'illecito penale le ipotesi in cui si realizzi una mera coincidenza tra i vantaggi privati e gli interessi dell'ufficio o in cui l'interesse del pubblico ufficiale non risulti, in concreto, rivolto a perseguire un vantaggio personale che si ponga in contrasto con le finalità della procedura concorsuale o dell'amministrazione straordinaria. Nel caso di specie, secondo la Cassazione, si sarebbe riscontrato un conflitto di interessi tra il creditore cedente il credito che vantava verso la procedura ed il curatore, avendo quest'ultimo un interesse (privatistico, ma pur sempre penalmente rilevante) a diminuire le somme che quel creditore avrebbe potuto conseguire al fine di accrescere il proprio profitto personale derivante dall'operazione. Quanto alla tesi difensiva, secondo cui il contrasto di interessi fra la posizione del curatore ed il singolo creditore della massa fallimentare sarebbe penalmente irrilevante, atteso che la cura dell'interesse del singolo creditore sarebbe estranea alle funzioni tipiche del curatore, la sentenza in commento riconosce che il curatore non si sostituisce ai singoli creditori, ma amministra il patrimonio dell'impresa soggetto ad esecuzione concorsuale, recuperandolo alla sua propria funzione di garanzia delle obbligazioni assunte; non è titolare, quindi, di un potere di rappresentanza dei creditori, ma può al più agire con le azioni c.d. di massa, dirette ad ottenere, nell'interesse del ceto creditorio, la ricostruzione del patrimonio del debitore. Secondo la Cassazione, questa affermazione, tuttavia, non significa che l'interesse del singolo creditore sia indifferente all'interno dell'economia propria della procedura fallimentare, essendo essa stessa tesa, in ultimo, proprio all'accertamento e alla soddisfazione delle (singole) pretese creditorie attraverso la formazione dello stato passivo e la successiva ripartizione del ricavato; cosicché, seppur non abbia la rappresentanza dei creditori e non sia legittimato alla tutela del singolo, precipuo compito del curatore è anche quello della tutela del singolo creditore, nella sua dimensione individuale, attraverso ogni specifico adempimento necessario, all'interno della gestione collettiva dei rapporti, ad assicurare a quest'ultimo, la massima soddisfazione possibile. Considerazioni conclusive La rilevanza della sentenza della Cassazione emerge in relazione a due profili. In primo luogo, la decisione – aderendo all'impostazione del giudice delle leggi (C. cost., 18 marzo 1999, n. 69) – cerca di conferire al delitto di interesse privato del curatore una dimensione di reale offensività. Pur ribadendo che tale delitto è un reato di pericolo, per cui, accertato il conflitto tra l'interesse privato e quello della procedura, l'effettiva produzione di un danno per la massa dei creditori è circostanza irrilevante, la Cassazione comunque evidenzia come occorra che il curatore esplichi una concreta attività volta a realizzare attraverso l'ufficio un interesse non ricollegabile in via esclusiva alla finalità propria dell'amministratore fallimentare, con la conseguenza che per la sussistenza del delitto non è sufficiente la mera incompatibilità fra gli interessi del curatore e le funzioni da lui esercitate, ma è necessaria un'effettiva ingerenza profittatrice e cioè un concreto comportamento del curatore, posto in essere con la consapevolezza di associare un interesse privato ad un atto del fallimento, indipendentemente dalla legittimità o meno dell'atto e dal danno o vantaggio per l'amministrazione fallimentare. In secondo luogo, e si tratta di un profilo di novità, la Cassazione pare riconoscere la sussistenza del delitto di cui all'art. 334 d.lgs. n. 14/2019 non solo nel caso in cui il contrasto sussista fra la posizione del curatore e gli interessi della massa fallimentare, ma anche nell'ipotesi in cui il curatore agisca in pregiudizio di un singolo creditore, in quanto comunque le procedure fallimentari e le relativi discipline sono dirette a tutelare le singole posizioni dei creditori, di modo che è illecita e penalmente rilevante la condotta del curatore che, nel perseguire un beneficio facente capo alla sua persona, sacrifichi la posizione del singolo creditore. Si tratta di una conclusione decisamente innovativa. Quale rilevanza questa nuova impostazione avrà in futuro è difficile da prevedere posto che, nel progetto di riforma elaborato recentemente in sede di commissione ministeriale, i reati del curatore sono destinati a scomparire e le relative condotte delittuose vengono fatte rientrare nell'alveo dei delitti del pubblico ufficiale previsti dagli artt. 314 ss. c.p., conformemente alla natura pubblicistica di questo soggetto, quale esercente un'attività di natura giurisdizionale. |