Turbolenze giuridiche Alitalia nella tratta Milano-Roma. Divergenze interpretative in tema di trasferimento di azienda in amministrazione straordinaria

15 Novembre 2023

Lo scritto affronta il tema della deroga alla continuità dei rapporti di lavoro in caso di trasferimento di azienda e quindi della possibilità che non tutti i dipendenti proseguano il rapporto presso l'impresa cessionaria, con riferimento alle procedure liquidatorie di amministrazione straordinaria ed al caso Alitalia, rispetto al quale i Tribunali di Milano e di Roma hanno assunto posizioni contrapposte, nel senso che, per il primo, l'art. 56-co. 3-bis, d.lgs. 270/1999 consentirebbe un tale effetto derogatorio all'art. 2122 c.c., mentre per il Tribunale di Roma ciò non sarebbe possibile, pena il contrasto con la Direttiva 2001/23/CE.

La questione

La vicenda del trasferimento del personale dell'amministrazione straordinaria Alitalia – così riassumendo i termini della questione che vede susseguirsi anche denominazioni mano a mano diverse della ex compagnia di bandiera – pone al centro del dibattito giuridico il tema della relazione tra procedure di insolvenza, trasferimento di azienda e regime della prosecuzione dei rapporti di lavoro già in essere con il cedente.

Si tratta di tema molto articolato in ragione dell'intersecarsi di questioni di fondo (portata dei principi eurounitari di cui alla Direttiva 2011/23/CE), con una normativa interna a dire poco ingarbugliata, nel contesto di orientamenti della Corte di Giustizia solo apparentemente chiari ed in realtà evolutisi in modo più consapevole – a parere di chi scrive – solo nei tempi più recenti.

Il tema specifico è quello del regime del trasferimento del personale, in occasione della cessione di azienda, da parte di un'impresa ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria.

Il diritto eurounitario ed interno, come è noto, in caso di trasferimento di azienda prevedono la continuità presso il cessionario dei rapporti di lavoro già esistenti presso il cedente (art. 2112 c.c.; art. 4 della Direttiva cit.).

In presenza di aziende in crisi, il diritto interno è ammesso a derogare a tale regola, in estrema sintesi e senza poter qui svolgere ulteriori approfondimenti, nel senso anche di escludere in toto la continuità dei rapporti di lavoro, in presenza di procedure di insolvenza a carattere liquidatorio (art. 5, par. 1 della Direttiva cit.) o di ammettere, in caso di procedure di insolvenza di carattere non liquidatorio, pur nella continuità dei rapporti, la modifica delle condizioni di lavoro o deroghe al regime della solidarietà del cessionario (art. 5 par. 2).

Sintetizzando al massimo, nel diritto interno si hanno, nel regime antecedente al Codice della Crisi e che qui rileva:

  • l'art. 47 della l. n. 428/1990 secondo cui, nel caso di imprese “per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività” possono essere stabilite in sede di confronto sindacale, ferma la continuità dei rapporti, modifiche alle condizioni di lavoro (co. 4-bis), mentre, “nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata” (co. 5), possono anche aversi deroghe, stabilite sindacalmente, alla prosecuzione dei rapporti di lavoro;
  • l'art. 56, co. 3-bis, d.lgs. n. 270/1999 secondo cui “le operazioni di cui ai commi 1 e 2”, ovverosia attuative dei diversi programmi che possono caratterizzare l'amministrazione straordinaria, “effettuate in attuazione dell'articolo 27, comma 2, lettere a) e b-bis)” e cioè in relazione a programmi di cessione delle aziende o dei beni, “in vista della liquidazione dei beni del cedente, non costituiscono comunque trasferimento di azienda, di ramo o di parti dell'azienda agli effetti previsti dall'articolo 2112 del codice civile”;
  • l'art. 5, co. 2-ter, d.l. n. 347/2003, conv. con mod. in l. n. 39/2004, secondo cui, con riferimento ad imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali o che gestiscono almeno uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale, nell'ambito delle consultazioni sindacali “ovvero esaurite le stesse infruttuosamente”, il Commissario e il cessionario possono “definire i contenuti di uno o più rami d'azienda, anche non preesistenti, con individuazione di quei lavoratori che passano alle dipendenze del cessionario”.

Il caso

I Tribunali delle due maggiori città italiane, investiti della questione in riferimento all'ultima operazione di salvataggio Alitalia, hanno fornito sul tema centrale di cui sopra soluzioni diametralmente in contrasto tra loro (su tale contrasto, v. anche L. Imberti, Trasferimento d'azienda in crisi e possibili deroghe all'art. 2112 c.c., in Lavoro Dir. Europa, 2023). Per fluidità del ragionamento si tralasciano altri profili di particolarità della vicenda, che però non rilevano per il ragionamento che qui interessa.

Il caso concreto riguarda una società, appunto Alitalia (nella versione denomina Alitalia SAI), per la quale è stata aperta nel 2017 l'amministrazione straordinaria con programmi sempre finalizzati alla cessione (art. 27, co. 2, lett. a e lett. b, d.lgs. n. 270/1999).

Un primo tentativo di cessione vi fu nel 2020, ma non andò a buon fine.

Attraverso varie proroghe dei termini, si è quindi giunti ad una cessione nell'ottobre 2021 ad Alitalia ITA, senza previo accordo sindacale, perché le trattative in tal senso non hanno avuto buon esito ed un'intesa è stata raggiunta solo in seguito e con effetto essenzialmente sul regime delle nuove assunzioni da parte del cessionario, ma anche quest'ultimo profilo può essere qui tralasciato, perché appunto successivo alla cessione degli assets produttivi.

Entrambi i giudici di merito non dubitano che quella attuata fosse una sostanziale cessione di azienda, con argomenti convergenti e condivisibili.

Su tali presupposti, il tema diviene dunque quello della necessità di applicare l'art. 2112 c.c. ad un trasferimento di azienda verificatosi in esito ad un'amministrazione straordinaria basata su un programma di cessione.

Infatti, il Tribunale di Roma, sez. lav., con sentenza 26 luglio 2023, n. 6205, ritenendo che l'art. 2112 c.c. debba trovare piena applicazione, ha dichiarato il diritto dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto presso la cessionaria Alitalia ITA, con condanna della stessa al pagamento delle retribuzioni maturate; analoghe domande sono state invece rigettate dal Tribunale di Milano, sez. lav., con sentenza 1° giugno 2023, n. 1227.

Le soluzioni giuridiche

Le turbolenze interpretative Milano-Roma

Il tema di fondo su cui si segna la divergenza tra i due Tribunali riguarda il significato da attribuire all'art. 56, co. 3-bis, cit. e se sia compatibile con la disciplina eurounitaria una lettura della norma nel senso che essa consenta, alle condizioni da essa desumibili, una deroga anche totale alla disciplina dell'art. 2112 c.c. 

Il Tribunale di Roma evidenzia come la Corte di Giustizia, nelle diverse pronunce succedutesi nel tempo, abbia posto un'equazione tra natura liquidatoria della procedura e continuità dell'esercizio aziendale.

Del recepimento di tale equazione si avrebbe riscontro anche nelle modifiche apportate all'art. 47 l. n. 428/1990, in esito alla condanna dell'Italia per infrazione ad opera di Corte di Giustizia 11 giugno 2009, Commissione vs Italia, in quanto la norma interna sarebbe stata in quel frangente più rigorosamente perimetrata “escludendo dalla deroga tutte le situazioni in cui non si verifichi la continuazione o la mancata cessazione dell'attività”. In proposito si deve tuttavia osservare che la pronuncia della Corte di Giustizia riguardava l'idoneità dell'accertamento dello stato di crisi ai fini dell'accesso alla Cassa Integrazione, ai sensi dell'art. 2, co. 5, lett. c) l. n. 675/1977, a consentire le deroghe all'art. 2112 c.c. in caso di trasferimento di azienda, e non dunque in via diretta l'amministrazione straordinaria e le procedure liquidatorie attuate all'interno di essa. Inoltre, l'art. 47, co. 5, l. n. 428/1990, anche prima delle modifiche apportate dal d.l. n. 135/2009, conv. con mod. in l. n. 166/2009, prevedeva che la deroga alla continuità dei rapporti nell'amministrazione straordinaria potesse aversi solo in caso di cessazione o mancata prosecuzione dell'esercizio aziendale e sul punto di tale delimitazione - propria (solo) dell'amministrazione straordinaria si era anche già avuto l'avallo della S.C. (Cass. 21 marzo 2001, n. 4073).

Ma non sono questi i punti più importanti, che emergono invece da quello su cui si va a dire.

Il Tribunale di Roma, ritenendo che appunto la Corte di Giustizia ponga un nesso logico tra natura non liquidatoria delle procedure e prosecuzione dell'attività aziendale, ne desume che l'art. 56 co. 3-bis, che consente la deroga massima all'art. 2112 c.c. e quindi permetterebbe anche di non far transitare il personale dal cedente al cessionario, pur richiamando le operazioni di cui ai precedenti commi 1 e 2 dello stesso art. 56, andrebbe inteso come da riferire solo all'ipotesi di cui al comma 1 lett. b), ovverosia al caso di piani “per la eventuale liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa”, ponendosi altrimenti in contrasto con il diritto eurounitario.

Il Tribunale di Milano, al contrario, ritiene invece che “la finalità liquidatoria è compatibile con la cessione di un compendio attivo che prosegua nella nuova realtà imprenditoriale” e pertanto conclude che l'art. 56 co. 3-bis, proprio perché concernente una procedura finalizzata alla liquidazione, sia compatibile con il diritto eurounitario e consenta come tale la deroga massima all'art. 2112 c.c.

Osservazioni

Alle radici del contrasto: natura liquidatoria e continuazione di esercizio aziendale

Il contrasto si radica, sul piano interpretativo, su una diversa lettura che i due giudici danno delle sentenze della Corte di Giustizia.

Sul piano descrittivo, ad avviso di chi scrive, non vi è dubbio che la natura “liquidatoria” di una procedura di insolvenza e la “continuità” dell'esercizio di impresa si collochino su piani diversi e non si escludano l'un l'altra ed il punto fu ben colto da alcuni acuti interpreti della prima ora (v. R. Foglia, Trasferimento di azienda, amministrazione straordinaria e sorte dei rapporti di lavoro secondo il diritto comunitario, in AA.VV., Le trasformazioni aziendali in vista del Mercato europeo: legge e contratto collettivo, supplemento a Not. giur. lav., 1992, 160).

La natura “liquidatoria” attiene ai vincoli che caratterizzano, nell'an e nel quomodo, la cessione nell'ambito di una procedura sotto controllo pubblico e che inevitabilmente realizzano deviazioni rispetto ad una logica di mercato. Non serve molto per spiegare che, se una vendita va comunque fatta, e magari secondo modalità non libere, essa soffre inevitabilmente degli opportunismi di chi potrebbe acquistare. Infatti, mentre il cedente perde, in misura maggiore o minore a seconda del grado di eteroregolazione della cessione, spazi di autonomia negoziale, il cessionario li mantiene e – nei limiti in cui l'importanza per lui dell'acquisto glielo consenta – può legittimamente assumere atteggiamenti di attesa o sfruttare al massimo le debolezze della controparte.

Della compatibilità tra “liquidazione” e “continuità” è esempio lampante il caso dell'esercizio di impresa in ambito di liquidazione giudiziale (già fallimento). Che si tratti di procedura liquidatoria nessuno può dubitare, così come della condizione di costrizione in cui la curatela opera, non essendo munita di capitale di sostegno all'esercizio economico ed avendo di regola grandi difficoltà all'accesso al credito; per non dire dell'improponibilità del rischio di perdite nella gestione giudiziale svolta nell'interesse dei creditori. Nella maggior parte dei casi, il curatore può operare in esercizio di impresa nei limiti in cui sussista la capacità dell'azienda di sostentare da sé il proprio esercizio, in un equilibrio difficilmente sostenibile per lungo tempo, sicché le fragilità del cedente, di cui si è detto, sono in re ipsa

Non vi è dunque alcuna ragione perché una cessione di tal fatta non rientri nell'ambito delle procedure liquidatorie.

Deve anzi dirsi che l'argomentare del Tribunale di Roma sul fatto che la cessione finale degli assets Alitalia sia “esito tanto incerto e discutibile”, per essere avvenuta in esito “ad una procedura protrattasi per quattro anni e mezzo” e per il “corrispettivo di un euro” suscita qualche perplessità, in quanto si potrebbe viceversa riflettere sul fatto che, in condizioni di mercato estreme, non è per nulla impossibile che, alla fine, proprio per l'inutile durata pluriennale della procedura, ci si debba accontentare di collocare comunque un'azienda per non perdere il fatto in sé della sua esistenza e di un certo numero di posti di lavoro che si possono in tal modo assicurare. Di un'azienda vanno infatti considerati non solo i valori dei beni che la compongono, ma l'intero andamento del going concern che non è detto dia un risultato positivo, tanto è vero che si viene da una procedura di insolvenza che evidentemente non può essere nata dal nulla.

Di conseguenza, viene da interrogarsi se l'ingessatura che impone una cessione a rime obbligate ex art. 2112 c.c. porti ad un esito favorevole per il mondo del lavoro. Di ciò ci si permette almeno di dubitare, perché può essere che quel mondo si trovi invece lasciato a sé stesso o ai rimedi assistenziali, se l'operatore di mercato, a fronte di rigidità eccessive, preferisca non stare al gioco ed attendere il totale disgregarsi dell'azienda per evitare di farsi carico dei costi di prosecuzione di essa, aspettando di competere solo ex post sugli assets di interesse.

Ciò per dire che l'approccio al tema, in sé complesso, deve svilupparsi tenendo conto che non si tratta di contrapposizione tra un'impresa cedente che tenta di fare uso profittevole dell'azienda, ma di una procedura di insolvenza, come tale strutturalmente destinata ad operare in condizioni di estrema debolezza, sicché può essere che alle volte quanto si possa fare sia solo salvare il salvabile, in una logica che ha da essere complessiva, di sistema, e non solo di diritti individuali.

Quello che si manifesta e che prescinde dalle particolarità della vicenda Alitalia è piuttosto un dato di esperienza, derivante dall'avere chi scrive vissuto dal lato della procedura - come giudice fallimentare – vicende di minori dimensioni, ma per certi versi analoghe, in cui l'equilibrio tra la perdita totale di tutto e la salvaguardia di qualcosa è sempre assai difficile e precario e spesso ci si deve ragionevolmente limitare a quello che si può ottenere nelle condizioni contingenti in cui si opera. Senza assolutismi, ci mancherebbe, perché sono noti casi in cui le procedure hanno avuto capacità notevoli di utilizzare a proprio favore il mercato, come nel noto caso San Raffaele di qualche anno addietro (Trib. Milano 28 ottobre 2011, in Il Fallimento, 2012, 78 ss., con nota di G.B. Nardecchia), ma non sempre ci sono le condizioni concrete perché ciò accada e l'approccio giudiziario, specie si direbbe del giudice dei diritti individuali che entrano in contatto con la procedura, si ritiene debba avere presente questa prospettiva.

Sul piano giuridico – che però è assolutamente contiguo alle considerazioni che si sono appena fatte - l'interpretazione soffre comunque – e di ciò va dato atto - dell'avere la Corte di Giustizia, nel tempo, più volte sovrapposto il tema della continuità di esercizio di azienda con quello della natura liquidatoria della procedura di insolvenza (sul tema sia consentito rinviare a R. Bellè, Il trasferimento di azienda e i rapporti di lavoro, in Il Fallimento, 2023, 1221, ss.).

Al punto che lo stesso legislatore del Codice della Crisi, addirittura nel caso di esercizio di impresa nella liquidazione giudiziale, non consente ora, stante il tenore testuale del novellato art. 47, co. 5, l. n. 428/1990, di fruire delle deroghe massime di diritto interno nella disciplina. Con effetto non condivisibile e probabilmente da ascrivere ad un mancato aggiornamento, nel periodo della vacatio legis e nonostante i correttivi apportati, all'evoluzione interpretativa medio tempore avutasi e di cui si va a dire.

Infatti, la Corte eurounitaria (Corte di Giustizia 28 aprile 2022, Federatie Nederlandse) ha recentemente affrancato il proprio ragionamento da tale equivoco di fondo, affermando, per un verso, che non è liquidatoria una procedura che “mira al proseguimento dell'attività quando mira a salvaguardare l'operatività dell'impresa o delle sue unità economicamente redditizie” e per altro verso che resta invece liquidatoria, nonostante la prosecuzione dell'attività, la procedura in cui il trasferimento dell'azienda abbia “l'obiettivo principale di soddisfare al meglio l'insieme dei creditori”.

Vale a dire che non è la “continuità” di esercizio aziendale il tratto dirimente, ma quella di “impresa”.

Sicché gli altri obiettivi propri di un trasferimento che, pur nella continuità, resti “liquidatorio”, sono del tutto legittimi e non ostano alle deroghe massime di cui all'art. 5, par. 1, della Direttiva.

“Altri” obiettivi - si è detto – perché, mentre uno di tali obiettivi può essere la salvaguardia dei diritti dei creditori, non è detto che ciò possa sempre essere, perché talora i valori aziendali nel loro insieme possono essere negativi, sicché il fine per l'amministrazione straordinaria potrebbe essere la salvaguardia dell'azienda come bene comune e come modo per salvaguardare l'occupazione possibile. Su ciò, pur brevemente, si tornerà anche in prosieguo.

Ora vi è invece da osservare che, ancor prima della Corte di Giustizia, la Corte di Cassazione, in due significativi arresti, ha ben colto la distinzione tra procedure “liquidatorie” e “continuità”.

Ciò è accaduto quando Cass. 6 dicembre 2019, n. 31946 ha ritenuto che fronte dell'impossibilità per l'impresa cedente in concordato preventivo di continuare essa l'attività, “la procedura concorsuale che interessa la stessa ha necessariamente un fine liquidatorio”

Ma ciò è stato confermato quando Cass. 14 settembre 2021, n. 24691 ha ritenuto che nell'ipotesi di trasferimento di imprese o parti di esse il cui cedente sia oggetto di una procedura fallimentare, ai fini dell'operatività degli effetti previsti dall'art. 47, comma 5, della l. n. 428 del 1990 - ovverosia dell'esclusione dei lavoratori eccedentari dal passaggio presso il cessionario - non occorre il requisito della cessazione dell'attività di impresa”

Volendo far convergere – come anticipato - il piano giuridico con quello delle dinamiche di mercato, sembra a chi scrive potersi dire che la già richiamata sottoposizione a procedure di cessione vincolate nell'an e/o nel quomodo, sotto controllo pubblico, sia in sé ragione che giustifichi la flessibilizzazione sul piano del trasferimento del personale; flessibilizzazione che non significa “liberi tutti”, ma che assicura almeno la possibilità di trattare, per chi cede, con qualche strumento in più, proprio per non fallire l'obiettivo ultimo, cui l'amministrazione straordinaria non è estranea, di salvare l'occupazione nella misura più elevata possibile e di mantenere in vita un azienda di grosse dimensioni, la quale può costituire, in sé, bene – per quanto indirettamente – di utilità comune.

La specialità della disciplina

Le considerazioni che precedono consentono di tirare le fila sul nodo cruciale.

Una prima differenza è segnata dalla liquidatorietà in senso tecnico, che deriva dal vincolo nell'an ed eventualmente dall'utilizzazione di strumenti necessariamente eccentrici rispetto ad una trattativa di mercato.

L'altro passaggio giuridicamente cruciale è dato dalla liquidatorietà in senso funzionale, che è ciò su cui fa a ben vedere leva l'evolversi della giurisprudenza eurounitaria, ovverosia il non essere la cessione un modo per consentire all'impresa di riorganizzarsi, riducendo attraverso il trasferimento ad altri, le proprie attività produttive e di proseguire l'attività, ma il modo – se del caso insieme ad altre cessioni di un programma più complesso – per trasmettere definitivamente il testimone dell'esercizio dell'attività economica organizzata (sulla nozione di procedure liquidatorie si fa ancora rinvio a R. Bellè, Il trasferimento di azienda, cit.).

Al ricorrere di tali caratteristiche, la liquidatorietà consente di derogare anche in toto all'art. 2112 c.c., senza che ne possano derivare – ad avviso di chi scrive – dubbi di compatibilità eurounitaria.

Non vi quindi alcuna necessità di limitare il rinvio dell'art. 56, co. 3-bis, ai soli casi di cui al precedente comma 1 lett. b), tra l'altro in contrasto con la lettera della norma che non prevede una tale limitazione.

L'art. 56-co. 3-bis, che esprime quella deroga totale, è norma di pessima formulazione, non vi è dubbio, perché non si può dire che non sia trasferimento di azienda ciò che nei fatti lo è; ma sul punto il Tribunale di Milano, riecheggiando una dottrina (R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento dell'azienda - Art. 2112, in Commentario al Codice Civile fondato e già diretto da P. Schlesinger, 2021, 249) ha risolto precisando trattarsi di norma non di fattispecie, ma di disciplina.

Ciò posto, si deve poi considerare che la norma è regolativa di una situazione assolutamente speciale, in cui l'esercizio di impresa è necessario per traghettare l'azienda o gli assets verso la cessione (art. 27, lett. a e b-bis dell'art., 27 dello stesso d.lgs. n. 270/1999), ma senza che vi siano dubbi sull'an della stessa, tralasciando qui considerazioni sul quomodo.

L'ipotesi di cui all'art. 47, co. 5, nel testo applicabile ratione temporis, e mantenuto anche nel vigore della Codice della Crisi (sub comma 5-ter), è quella della cessione di azienda inattiva, che consente la deroga anche totale all'art. 2112 c.c., in presenza di accordo sindacale.

L'ipotesi dell'art. 56-co. 3-bis riguarda invece la cessione di aziende attive e nell'ambito di un “programma” di cessione complessivo.

Le norme riguardano quindi due casi diversi e dunque l'uno non è deroga all'altro.

Ne vi sono da temere irrazionalità di sistema, a ben vedere.

Infatti, anche nell'ipotesi di cessione rientrante tout court nella disciplina dell'amministrazione straordinaria di cui all'art. 56, co. 3-bis, è necessario accordo sindacale, come si desume dal disposto generale dell'art. 63, co. 4, del medesimo d.lgs.

L'accordo non è invece previsto come condizionante nei casi che rientrano nell'art. 5, co. 2-ter, d.l. n. 347/2003 conv. con mod. in L. 39/2004, ove è consentito che, in caso di consultazione infruttuosa, siano il Commissario ed il cessionario a perimetrare l'ambito della prosecuzione dei rapporti di lavoro.

Ma qui a specialità (prosecuzione di esercizio vs cessazione di attività) si aggiunge specialità, data dal non trattarsi di aziende qualunque, ma operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali ovvero che gestiscono almeno uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale.

Anche il piano giuridico formale resta quindi munito di una sua possibile complessiva coerenza.

Quale futuro?

Sul piano giurisprudenziale, vi è da attendere un intervento della S.C. che sia chiarificatore sul punto.

Cass. 1° giugno 2020, n. 10414 e le altre successive che hanno fatto ad essa riferimento – citate, con posizionamenti opposti, dai due Tribunali in contrasto - pur analizzando l'art. 47, co. 5, l. n. 428/1990, non hanno preso posizione sul disposto dell'art. 56., co-3-bis cit.

Si può in proposito sperare che, allorquando tale norma – come anche l'art. 5, co. 2-ter, cit. - giunga all'esame di legittimità, sia confermato l'approccio “a tutto tondo” ai profili lavoristici dell'impresa in crisi, che già stato di Cass. 24691/2021 e Cass. 31946/2019 cit.

Vale a dire un approccio non ristretto al governo giuridico di una pluralità di situazioni individuali, ma di un fenomeno che va colto nella sua complessità economica (cessione al di fuori dal mercato) e sociale (il riguardare la cessione gli interessi dei creditori di un intero comparto convolto dalla crisi o, in casi estremi come quello qui in esame, gli interessi della collettività alla salvaguardia di un'azienda in quanto bene comune e con essa dei posti di lavoro).

Oltre a ciò, chi scrive ha già manifestato l'opinione per cui le idee personali rispetto a possibili interpretazioni o esiti del contenzioso valgono fin che valgono, essendo evidente che l'operatore, stante le indubbie incertezze normative e giurisprudenziali, si trova inevitabilmente in una situazione di imbarazzo e potrà essere portato ad evitare di assumere decisioni a rischio giuridico, con quanto di perdita che può così aversi rispetto all'interesse generale di cui si è appena detto.

Sarebbero quindi quanto mai auspicabili Interventi normativi, che si spera possano essere non solo semplificatori di un insieme di norme di difficilissimo coordinamento, ma che siano poi anche coraggiosamente governati.

Prima che, con il passare del tempo, l'amministrazione straordinaria, ma anche le altre procedure concorsuali, si confermino come contraenti rispetto ai quali il piano lavoristico nel trasferimento di azienda sia ragione in sé di rischio, con quanto di perdita ne deriva per i creditori o – lo si dice rispetto all'amministrazione straordinaria – per le linee di salvaguardia delle grandi aziende, intese come complesso organizzato di interesse sovraindividuale, che il legislatore e gli operatori cerchino di impostare.

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