Sulla riapertura del fallimento: compatibilità tra gli artt. 10 e 121 l. fall.

14 Novembre 2023

La Corte d’appello affronta il tema del presunto contrasto tra l’art. 121 l. fall., che consente la riapertura del fallimento entro cinque anni dal decreto di chiusura, e l’art. 10 l. fall., secondo il quale il fallimento può dichiararsi entro un anno dalla cancellazione della società dal registro delle imprese.

Massima

In caso di riapertura di fallimento è pacifico che non debba effettuarsi un nuovo vaglio dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, dato che la riapertura comporta un fenomeno di reviviscenza, e dunque di prosecuzione della procedura originaria (tant’è vero che non viene assegnato un nuovo numero di ruolo alla riapertura, e che proseguono quali “richiamati” gli organi della procedura originaria – art. 121, comma 2, n. 1 l. fall.).

Il caso

Il caso è quello di una società di capitali, il cui fallimento era stato chiuso ex art. 118, comma 1, n. 4 l. fall. per mancanza di attivo.

Entro il termine quinquennale previsto dall'art. 121 l. fall., un creditore ha allegato l'acquisizione all'attivo di un complesso immobiliare che, al momento della dichiarazione di fallimento e per la durata della procedura fallimentare, non era disponibile in quanto sottoposto a confisca. Si badi che la presenza della confisca non solo non introduce elementi “di ostacolo” all'istituto della riapertura del fallimento, ma, al contrario, rafforza le conclusioni cui perviene la Corte d'Appello, sulla base del richiamo al Codice Antimafia, di cui si dirà infra.

Ciò detto, su istanza di tale creditore, il Tribunale di Milano ha dichiarato la riapertura del fallimento. La sentenza è stata reclamata avanti alla Corte d'Appello dal socio unico della società.

La questione

Con la sentenza in oggetto, la Corte d'Appello di Milano torna su una fattispecie – quella della riapertura del fallimentoex art. 121 l. fall. – poco frequente nel mondo delle procedure concorsuali, ma non per questo meno meritevole di un'attenta riflessione sulla portata dell'istituto.

La Corte, esaminato il tema della riapertura del fallimento e i principi che regolano tale fattispecie, coglie l'occasione per evidenziare la continuità delle norme che regolano l'istituto, tra Legge fallimentare e Codice della Crisi.

La soluzione giuridica

Nella sentenza emessa all'esito del giudizio di reclamo, la Corte d'Appello ha chiarito che, in caso di riapertura della procedura fallimentare, “non debba effettuarsi un nuovo vaglio dei presupposti per la dichiarazione di fallimento – in continuità con una pronuncia di legittimità sul punto (v. Cass. civ., sez. I, 20 settembre 2017, n. 21846) – in quanto la riapertura comporta un fenomeno di “reviviscenza” e, dunque, di prosecuzione della procedura originaria. Prova è il fatto, tra l'altro, che la procedura conserva l'originario numero di ruolo e che anche gli organi vengono “richiamati in ufficio”.

Il principio che, ad avviso di chi scrive, è maggiormente significativo, è quello che risolve il (solo) presunto contrasto tra la riapertura del fallimento di una società oltre l'anno dalla cancellazione dal registro delle imprese e l'art. 10 l. fall.

Occorre considerare i seguenti aspetti.

Ai sensi dell'art. 10 l. fall., il fallimento è da dichiararsi entro un anno dalla cancellazione della società dal registro delle imprese.

Ai sensi dell'art. 118, comma 2, l. fall., nei casi di chiusura del fallimento ex art. 118, comma 1, n. 3 (quando è compiuta la ripartizione finale dell'attivo) e n. 4 l. fall. (per incapienza), il Curatore chiede la cancellazione della società dal registro delle imprese.

L'art. 121 l. fall. consente di far luogo alla riapertura del fallimento entro cinque anni dal decreto di chiusura di cui all'art. 118, comma 1, n. 3 e n. 4 l. fall.

Ciò posto, un motivo di reclamo poggiava proprio sulla presunta impossibilità di disporre la riapertura del fallimento di una società cancellata dal registro delle imprese, oltre un anno dalla cancellazione stessa.

Tale doglianza viene disattesa dalla Corte d'appello, che mette a fuoco la portata dell'art. 121 l. fall. raccordandola con quella dell'art. 10 l. fall. o, meglio, sottolineando come tali due norme rispondano a logiche tra loro ben distinte.

Andiamo con ordine.

Come detto, l'art. 118, comma 2, l. fall. prevede che, in caso di chiusura del fallimento per insufficienza di attivo ex art. 118 n. 3 e n. 4 l. fall., il Curatore debba procedere alla cancellazione della società dal registro imprese. Tale obbligo è stato introdotto per “esigenze di chiarezza e di pulizia” (per utilizzare le medesime espressioni della Corte d'Appello) e ciò in quanto la cancellazione della società dal registro imprese rappresenta l'esito “naturale” della chiusura della liquidazione fallimentare per compiuta esecuzione del riparto dell'attivo o per incapienza di attivo.

L'art. 121 l. fall. prevede che, proprio nei casi previsti dai numeri n. 3 e 4 dell'art. 118, comma 1, l. fall., il Tribunale, entro cinque anni dal decreto di chiusura, su istanza del debitore o di qualunque creditore, può ordinare che il fallimento già chiuso sia riaperto, quando risulta che nel patrimonio del debitore esistano (in quanto siano state rinvenute, ovvero siano sopravvenute) attività in misura tale da rendere utile il provvedimento o quando il debitore offra garanzia di pagare almeno il dieci per cento ai creditori vecchi e nuovi.

Sostenere che la cancellazione della società dal registro delle imprese impedisca la riapertura del fallimento, implicherebbe svuotare di significato l'art. 121 l. fall. o, meglio, prendere atto che la riapertura del fallimento non si applica alle società, una volta decorso l'anno dalla cancellazione.

Pare di poter dire che tale soluzione non rappresenti l'intento del Legislatore.

D'altra parte, precludere la riapertura del fallimento di società, decorso l'anno, in forza del richiamo all'art. 10 l. fall., contrasterebbe con la ratio di tutela dei creditori, che rappresenta il fondamento stesso dell'art. 121 l. fall.

L'art. 10 l. fall. rappresenta dunque un presidio volto a far sì che un soggetto estinto non possa essere dichiarato fallito oltre un ragionevole orizzonte di tempo (individuato in un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese); ciò nel senso di assicurare “stabilità” (sempre per utilizzare il medesimo termine scelto dalla Corte d'Appello) al sistema nel suo complesso.

Fattispecie del tutto diversa è invece quella rappresentata dalla cancellazione della società per chiusura di un fallimento per mancanza di attivo: laddove, infatti, venisse preclusa la possibilità di riaprire il fallimento oltre un anno dalla cancellazione della società, in caso di rinvenimento di attivo, di tale situazione beneficerebbero i soci, a tutto svantaggio, invece, dei creditori rimasti insoddisfatti nel fallimento chiuso. Tale situazione sarebbe evidentemente paradossale e sovvertirebbe la ratio stessa sottesa all'istituto della riapertura del fallimento, volta alla salvaguardia (sempre entro un ragionevole arco di tempo, individuato in cinque anni) delle ragioni di creditori rimasti insoddisfatti (art. 118, comma 1, n. 4 l. fall.).

Analogo ragionamento vale ovviamente nel caso di rinvenimento di ulteriore attivo, a fronte di chiusura del fallimento per compiuta ripartizione finale dell'attivo (art. 118, comma 1, n. 3 l. fall.).

La Corte d'appello di Milano, in modo estremamente chiaro, afferma dunque che, se dovesse ritenersi che nessun bene, una volta chiuso il fallimento e cancellata la società dal registro delle imprese, possa poi essere attribuito alla società medesima, allora mai si potrebbero di fatto verificare le condizioni per la riapertura del fallimento di società.

A questo punto, le conclusioni della Corte d'Appello si fanno ancora più incisive: i beni sopravvenuti non vengono attributi ad un soggetto estinto (la società), bensì alla procedura concorsuale della società; procedura che dunque è protagonista di un fenomeno di reviviscenza. Ciò implica, peraltro, l'esclusione della operatività dei principi generali di successione di un soggetto estinto e dunque della possibilità che i beni possano essere attribuiti direttamente ai soci della società cancellata, anziché ai creditori, secondo il prevalente fine di tutelare proprio tali soggetti.

Osservazioni

Affrontando incidentalmente in questa sede l'argomento, si evidenzia che le conclusioni cui perviene la Corte d'Appello di Milano sono perfettamente coerenti con quanto previsto dal Codice Antimafia (d.lgs. n. 159/2011) e più in particolare con l'art. 63, comma 7, che prevede che, in caso di revoca del sequestro o della confisca (come nel caso di specie, che ha portato alla sentenza qui commentata), i beni vengono appresi dal fallimento e, nel caso in cui lo stesso risulti chiuso, si dispone la riapertura ex art. 121 l. fall.

Si rileva infine che la normativa della Legge fallimentare citata in questo articolo relativamente alla riapertura del fallimento è stata di fatto trasfusa nel Codice della risi, ciò in continuità tra passato e presente.

Le norme che, nel Codice della Crisi, regolano l'istituto della riapertura della liquidazione giudiziale (in luogo della riapertura del fallimento) sono gli artt. 237,238 e 239 CCII.

La sovrapponibilità delle norme in tema di riapertura previste dalla Legge Fallimentare (in caso di fallimento) e dal Codice della Crisi (in caso di liquidazione giudiziale), viene meno in due casi di seguito indicati.

Nell'incipit dell'art. 237, dove si evoca la pronuncia di esdebitazione come causa ostativa alla riapertura. In tal caso, infatti, il debitore risulta essere stato liberato nei confronti dei creditori ricompresi nel passivo della procedura e pertanto la riapertura della liquidazione giudiziale non risulterebbe avere alcuna utilità. La modifica introdotta con il Codice della Crisi, peraltro, amplia il novero dei soggetti che possono accedere al beneficio dell'esdebitazione estendendo lo stesso, tra l'altro, anche alle persone giuridiche.

Nella parte finale del primo comma della medesima norma, che non vede più, tra le condizioni per la riapertura, l'offerta di garanzie del debitore di pagare almeno il 10% dei creditori insoddisfatti.

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