Dichiarazione fraudolenta: la responsabilità dei membri del c.d.a.

17 Novembre 2023

La Cassazione Penale interviene in un procedimento penale relativo all'utilizzo in dichiarazione di fatture soggettivamente inesistenti, facendo luce, in particolare, su quando possano rispondere in concorso anche i membri del c.d.a. che non abbiano sottoscritto la dichiarazione fraudolenta.

Massima

In tema di delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, nel caso di delitto deliberato e direttamente realizzato da singoli componenti del consiglio di amministrazione di una società di capitali nel cui ambito non sia stata conferita alcuna specifica delega, ciascuno degli altri amministratori risponde a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, ove sia ravvisabile una violazione dolosa dello specifico obbligo di vigilanza e di controllo sull'andamento della gestione societaria derivante dalla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 c.c.

Il caso

La sentenza in esame trae origine dal ricorso per Cassazione presentato dagli imputati, soci e amministratori di una società a responsabilità limitata, condannati dal Giudice dell'Udienza Preliminare del tribunale di Agrigento con sentenza confermata dalla Corte d'Appello di Palermo, in relazione al reato di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74/2000, per avere utilizzato fatture per operazioni soggettivamente inesistenti nella dichiarazione Iva relativa all'anno 2016.

Il nucleo della decisione della Corte d'Appello di Palermo consisteva nell'aver affermato la penale responsabilità degli imputati in ragione della violazione del dovere di vigilanza poiché gli stessi “in quanto titolari di poteri di amministrazione disgiunta, erano effettivamente coinvolti nelle scelte gestionali delle società di famiglia e, dunque, [avevano] partecipato a creare consapevolmente sinergicamente il meccanismo fraudolento di avvalersi della documentazione fiscale fittizia, sicché non è revocabile in dubbio la comune volontà di evadere le imposte”.

Con ricorso per Cassazione, gli imputati, consiglieri privi di delega alla sottoscrizione e presentazione delle dichiarazioni fiscali, inter alia lamentavano come la sentenza di secondo grado avesse dedotto la comune volontà di evadere le imposte senza, tuttavia, valutare l'effettivo contributo di ciascuno alla sottoscrizione della dichiarazione dei redditi oggetto del contestato reato di dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.

In particolare, secondo la difesa, non erano stati valutati (i) l'attribuzione di poteri disgiunti e (ii) il dovere di sottoscrizione della dichiarazione in capo ad uno soltanto degli amministratori, né, infine, (iii) l'effettiva consapevolezza di tutti gli imputati relativamente all'utilizzo delle fatture false nella dichiarazione Iva.

Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza impugnata in accoglimento del motivo proposto dagli imputati.

La questione

La questione attiene alla individuazione dei criteri di imputazione della responsabilità per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti agli amministratori di una società i quali non abbiano sottoscritto o presentato la dichiarazione.

Richiamando l'unico precedente in tema di responsabilità degli amministratori privi di deleghe esecutive per omesso impedimento di reati tributari (Cass. pen. 4 aprile 2021, n. 30689), la Corte di Cassazione ha ribadito che, nelle ipotesi di reati commessi da singoli amministratori di società di capitali, ciascun amministratore risponde a titolo di concorso per omesso impedimento del reato ex art. 40 cpv c.p. solo in caso di violazione dolosa dei doveri di vigilanza e controllo sul generale andamento della società che si ricavano dall'art. 2392 c.c.

Tale orientamento è coerente con il principio affermatosi nella giurisprudenza di legittimità con riferimento ai reati di bancarotta, secondo cui il concorso degli amministratori non esecutivi per i reati commessi dagli amministratori con deleghe è configurabile qualora si provi (i) l'effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento illecito  e (ii) che, nonostante l'effettiva conoscenza di tali fatti pregiudizievoli per la società o “segnali d'allarme”, l'amministratore non abbia esercitato i propri poteri impeditivi per evitare tale evento (cfr. ex multis, Cass. pen. Sez. V, 13 giugno 2022, n. 33582).

Come noto, infatti, in materia di responsabilità degli amministratori privi di deleghe con riferimento ai reati in materia di bancarotta, la giurisprudenza ha subito nel corso del tempo una notevole evoluzione sino all'affermazione del principio maggiormente garantistico, con la pronuncia in esame esteso anche all'ambito dei reati tributari.

In particolare, a seguito della riforma del diritto societario di cui al d. lgs. n. 6/2003, è stato ridefinito il contenuto dei doveri degli amministratori ai sensi dell'art. 2392 c.c.

Osservazioni

Nella prospettiva di un esercizio di sintesi, essendo il tema oggetto di specifici approfondimenti in dottrina, è possibile schematizzare tale sviluppo normativo e giurisprudenziale come segue:

(a) nella precedente formulazione, la disposizione di cui all'art. 2392 c.c. imponeva a tutti gli amministratori gli obblighi di (i) agire con la diligenza del mandatario, (ii) vigilare sul generale andamento della gestione e (iii) impedire fatti pregiudizievoli di cui fossero stati a conoscenza;

(aa) pertanto, la responsabilità dell'amministratore senza deleghe per non aver impedito l'evento dannoso ai sensi dell'art. 40 cpv c.p. - ovvero il reato commesso dagli amministratori esecutivi – discendeva pressoché automaticamente dall'inadempimento dei propri doveri di vigilanza. Con ciò determinandosi potenziali violazioni del principio di responsabilità per fatto proprio colpevole sancito dall'art. 27 Cost., come interpretato dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza n. 364/1988, caposaldo incontestato.

(b) a seguito della riforma, la disposizione di cui all'art. 2392 c.c. prevede che gli amministratori di una società non rispondano delle violazioni dei doveri ad essi imposti dalla legge o dallo statuto in relazione a fatti commessi da altri componenti del Consiglio di Amministrazione nell'esercizio “di attribuzioni del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori”;

(bb) pertanto, è in questi termini, afferma la Corte di Cassazione, che deve intendersi anche il limite massimo di estensione della responsabilità penale per fatti materialmente commessi dagli altri amministratori.

Inoltre, proprio con l'obiettivo di superare le forme di responsabilità oggettiva, la giurisprudenza ha elaborato la teoria dei c.d. segnali d'allarme, secondo cui, nell'ipotesi in parola dell'amministratore senza deleghe che non abbia impedito il reato di altri amministratori, per poter muovere un rimprovero almeno a titolo di dolo eventuale, occorre provare l'avvenuta percezione da parte del primo di elementi “perspicui e peculiari”, in grado cioè di destare un sospetto e tali da indurlo ad attivarsi per impedire la consumazione del reato.

Con riferimento al caso in esame, e dunque allo specifico ambito dei reati tributari dichiarativi, la Corte di Cassazione ha affermato che è ragionevole ritenere che gli amministratori che non abbiano sottoscritto la dichiarazione fiscale fraudolenta rispondono di concorso nel relativo reato “solo se abbiano avuto conoscenza dell'inserimento di tali documenti mendaci in contabilità”.

D'altra parte, precisa la Corte di Cassazione, tale conoscenza, sebbene dimostrabile attraverso il ricorso alla teoria dei segnali d'allarme, non può essere affermata attraverso “una spiegazione in chiave meramente presuntiva”.

In particolare, la sentenza in commento afferma come non possa essere a tal fine né (i) valorizzato il mero coinvolgimento dei ricorrenti nelle scelte gestionali della società, né (ii) l'importanza economica delle operazioni.

La partecipazione alla gestione, da un lato, non significa necessariamente coinvolgimento nelle specifiche operazioni economiche sottese alle fatture in contestazione; neppure l'importanza dell'importo può, di per sé, fondare un sospetto di fittizietà delle stesse.

Conclusioni

La sentenza in esame assume particolare interesse per la continuità che la stessa dà, con specifico riferimento alle fattispecie penali tributarie, alla applicazione del principio secondo cui l'affermazione della penale responsabilità del componente del Consiglio di Amministrazione che non abbia impedito il reato commesso da altro membro richiede la prova dell'effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di "segnali di allarme" inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento illecito.

Non trascurabile appare poi l'attenzione con cui la Corte di Cassazione ha precisato come tale prova (i) debba emergere a seguito della specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione e (ii) non possa essere desunta secondo un meccanismo di natura presuntiva della conoscenza da parte degli imputati.

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