Brevi riflessioni sulle ordinanze decisorie nel processo civile

Vito Amendolagine
22 Novembre 2023

Le ordinanze decisorie, introdotte dall'art. 3 del d.lgs. n. 149/2022, sono uno strumento che consente al tribunale di emettere provvedimenti provvisori, di accoglimento o di rigetto della domanda, ma non idonei al giudicato, sebbene dotati di efficacia esecutiva.

Introduzione 

L'art. 3 del d.lgs. n. 149/2022 ha introdotto nel codice di rito gli artt. 183-ter – ordinanza di accoglimento della domanda – e 183-quater c.p.c. – ordinanza di rigetto della domanda – meglio note in dottrina come ordinanze decisorie, una delle novità della riforma, fortemente volute dal legislatore delegato in attuazione del comma 5, lett. o), p) e q) della legge delega per finalità acceleratorie e di semplificazione della decisione.

Tali ordinanze sono uno strumento che consente al tribunale quale giudice di prima istanza – non anche quando esso opera come giudice dell'impugnazione – di emettere provvedimenti provvisori, di accoglimento o di rigetto della domanda, ma non idonei al giudicato, sebbene dotati di efficacia esecutiva, il cui intento è quello di realizzare una selezione nel giudizio di primo grado delle controversie di competenza del tribunale, aventi ad oggetto diritti disponibili, manifestamente fondate od infondate.

Il tratto comune delle ordinanze decisorie è ravvisabile nel fatto che non sono pronunciate d'ufficio ma richiedono sempre l'istanza di parte e sono reclamabili ai sensi dell'art. 669 terdecies c.p.c.

La ragione afferente la reclamabilità del provvedimento si evince dall'attitudine a definire il giudizio sia nei casi in cui l'ordinanza non venga impugnata, sia qualora il reclamo venga respinto, atteso che qualora l'ordinanza di accoglimento non venga impugnata ovvero qualora il reclamo venga respinto, essa non è ulteriormente impugnabile.

Qualora, invece, il reclamo venga accolto, il giudizio prosegue dinanzi ad un magistrato diverso da quello che ha emesso l'ordinanza reclamata, avendo quest'ultimo già manifestato il proprio libero convincimento.

Inoltre con l'ordinanza ex artt. 183-ter o quater c.p.c. il giudice deve liquidare anche le spese di lite.

La legittimazione alla presentazione dell'istanza

In base al tenore dell'art. 183-ter c.p.c. l'istanza di parte può riguardare sia l'attore sia il convenuto, ovvero, anche il terzo chiamato od interventore nel giudizio che abbiano interesse ad una celere definizione del giudizio, mentre in ordine al diritto quest'ultimo deve essere disponibile, ragione per cui tale strumento decisorio non è ammissibile a priori soltanto se trattasi di diritti non rientranti nella disponibilità delle parti.

Tale conclusione consente dunque di ritenere che l'ordinanza in parola possa riguardare sia obbligazioni pecuniarie sia di facere o non facere, ovvero di consegna e finanche obblighi indirettamente coercibili exart. 614-bis c.p.c.

Quid juris invece per quanto attiene la tempistica processuale in cui può essere avanzata la relativa istanza?

Al riguardo, la littera legis appare fugare ogni dubbio: nel corso del giudizio di primo grado, dunque tanto nell'atto introduttivo – citazione o ricorso ovvero comparsa o memoria di costituzione od intervento – quanto con una separata istanza anche ad istruttoria già in corso od ultimata.

I presupposti per l'accoglimento dell'istanza sono sempre gli stessi, ovvero la contestuale prova dei fatti costitutivi della domanda e la manifesta infondatezza delle difese della controparte.

Ciò significa che a paralizzare l'accoglimento della richiesta è la non ricorrenza nella controversia deputata alla cognizione del giudice del duplice requisito sopra evidenziato anche in caso di pluralità di domande, atteso che in quest'ultima ipotesi l'ordinanza può essere pronunciata solo se tali presupposti ricorrono per tutte.

L'ordinanza di accoglimento della domanda

L'art. 183-ter c.p.c. prevede che nelle controversie di competenza del tribunale aventi ad oggetto diritti disponibili il giudice, su istanza di parte, nel corso del giudizio di primo grado può pronunciare ordinanza di accoglimento della domanda quando i fatti costitutivi sono provati e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate.

In base al tenore della norma qui considerata, si evince che il giudice competente dinanzi al quale è possibile chiedere l'emanazione di tale tipologia di ordinanza è soltanto il tribunale monocratico o collegiale, in qualità di giudice di prime cure – non anche in qualità di giudice dell'impugnazione – e che lo stesso giudicante decide sulla richiesta presentata dalla parte interessata.

Non è dunque possibile che il tribunale si pronunci d'ufficio se manca una richiesta ad hoc della parte istante.

Ciò premesso, la struttura dell'art. 183-ter c.p.c. consente che la relativa ordinanza possa essere pronunciata dal giudice già all'esito dell'udienza ex art. 183 c.p.c. del giudizio a cognizione ordinaria, per effetto da un lato, della ricostruzione dei fatti e relativa esposizione in diritto emergente dall'atto introduttivo del giudizio e, dall'altro, delle difese contenute nell'atto di costituzione della parte evocata in iure.

L'ordinanza di rigetto della domanda

L'art. 183-quater c.p.c. riguarda l'eventualità in cui nelle controversie di competenza del tribunale che abbiano ad oggetto diritti disponibili, la domanda risulti manifestamente infondata, ovvero risulti omesso o comunque emerga l'assoluta incertezza del requisito di cui all'art. 163, comma 3, n. 3) c.p.c., e la relativa nullità non sia stata sanata oppure se, emesso l'ordine di rinnovazione della citazione o di integrazione della domanda, persista la mancanza dell'esposizione dei fatti di cui al n. 4), comma 3 del predetto art. 163 c.p.c. con la precisazione che nell'ipotesi di pluralità di domande l'ordinanza può essere pronunciata solo se tali presupposti ricorrano per tutte.

L'introduzione dell'art. 183-quater c.p.c. risolve dunque i problemi interpretativi in ordine alle conseguenze della mancata integrazione dell'atto di citazione nullo per vizi afferenti l'editio actionis, introducendo un apposito strumento, l'ordinanza di rigetto della domanda, utilizzabile in caso di mancata sanatoria dei suddetti vizi.

Ciò significa che il legislatore delegato potrebbe avere scelto un regime diverso rispetto al passato per le nullità dell'atto di citazione, correlate ai nn. 3 e 4 dell'art. 163, comma 3, c.p.c.

Infatti in caso di mancata rinnovazione dell'atto di citazione per i vizi della vocatio in ius, l'art. 164, comma 2, c.p.c. prevede espressamente, quali conseguenze, la cancellazione della causa dal ruolo e l'estinzione ex art. 307, comma 3, c.p.c.

Nel periodo anteriore alla riforma, nulla era invece previsto con riferimento agli effetti dell'omessa rinnovazione, ovvero della mancata integrazione ai sensi dell'art. 164, comma 4, c.p.c.

In particolare, secondo il prevalente orientamento emerso in dottrina, il giudice dovrebbe ordinare, in caso di omessa rinnovazione, la cancellazione della causa dal ruolo, con la conseguente estinzione del processo, mentre secondo altro orientamento la soluzione sarebbe l'estinzione, senza la previa cancellazione, per effetto della diretta applicazione dell'art. 307, comma 3, c.p.c.

Nel caso di mancata integrazione della citazione, altra parte della dottrina propende per la conclusione del giudizio con una pronuncia di nullità della domanda.

Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il termine concesso dal giudice per la rinnovazione della citazione affetta da nullità ex art. 164 c.p.c. ha natura perentoria, sicché, in caso di mancata rinnovazione, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex art. 307, comma 3, c.p.c., comporta la contemporanea ed automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte (Cass. civ, sez. VI-3, 5 novembre 2021, n. 32207).

Nelle fattispecie anzidette, il tribunale, su istanza di parte, nel corso del giudizio di primo grado, all'esito dell'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., può pronunciare ordinanza di rigetto della domanda.

In ordine al dato temporale, come previsto dall'art. 183-ter c.p.c. anche l'art. 183-quater c.p.c. prevede dunque che tale ordinanza possa essere pronunciata non prima dell'udienza di trattazione e, successivamente – dunque anche ad istruttoria pendente – nel corso del giudizio di primo grado.

L'ordinanza di rigetto di cui all'art. 183-quater c.p.c. ha la finalità di contrastare le domande palesemente infondate, evitando l'inutile impiego della risorsa giudiziaria.

Come previsto per l'ordinanza di accoglimento della domanda emessa ai sensi dell'art. 183-ter c.p.c. anche l'ordinanza di rigetto della domanda ex art. 183 quater c.p.c. è reclamabile ai sensi dell'art.669-terdecies c.p.c. e non acquista l'efficacia di giudicato ai sensi dell'art. 2909 c.c., né la sua autorità può essere invocata in altri processi.

Infatti con l'emissione dell'ordinanza il giudice adito si spoglia della causa, ponendo fine alla lite, senza però che ciò impedisca ad altro giudice adito successivamente di conoscere della stessa questione giuridica e di pronunciarsi su di essa, anche in maniera difforme. 

In questo modo potrebbe verificarsi che dopo il rigetto della domanda con provvedimento reso ex art. 183-quater c.p.c. altro giudice adito successivamente dalla stessa parte interessata, decida diversamente, ritenendola invece meritevole di accoglimento ex art. 183-ter c.p.c.

Con la stessa ordinanza il giudice liquida le spese di lite, fermo restando che anche detta ordinanza se non è reclamata o se il reclamo è respinto, è idonea a definire il giudizio e non è ulteriormente impugnabile, mentre in caso di accoglimento del reclamo, il giudizio prosegue davanti a un magistrato diverso da quello che ha emesso l'ordinanza reclamata.

Le possibili criticità derivanti dall'applicazione delle ordinanze decisorie

Una prima criticità è stata evidenziata in dottrina, in ordine alla dubbia applicabilità dell'ordinanza ex art. 183-ter c.p.c. al rito semplificato di cognizione, atteso il riferimento testuale dell'art. 183-ter c.p.c. per la sua pronuncia all'esito dell'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., ed analoga considerazione vale anche per quella di rigetto della domanda ex art. 183-quater c.p.c.

Ciò consente di evincere la potenziale limitata fruibilità della misura di cui si discorre, di fatto esclusa non solo per i procedimenti dinanzi al giudice di pace – i cui tempi di risoluzione delle controversie sono destinati ad allungarsi per effetto dell'aumento della competenza – ma anche per tutti i giudizi in cui il tribunale quale giudice di prima istanza non opera in tale veste, basti pensare ai giudizi di appello avverso le sentenze del giudice di pace ed inoltre per tutte le fattispecie rientranti nella competenza del tribunale ma comportanti la decisione su diritti indisponibili delle parti, come ad esempio in materia di persone, famiglia e minori e, per taluni aspetti, anche del diritto del lavoro. 

Inoltre, a ben vedere, anche per questioni riguardanti i diritti disponibili come ad esempio in materia di diritti reali, appare evidente come ragioni di mera opportunità sul piano tecnico-giuridico possano sconsigliare il ricorso a tale strumento decisorio, in quanto non dotato della necessaria stabilità propria del giudicato e della relativa autorità spendibile in altri processi.

Valga per tutti l'esperimento dell'azione ex art. 2932 c.c. o l'azione per l'accertamento dell'usucapione, la cui definizione e relativa trascrizione del provvedimento definitivo nei registri immobiliari postula l'esistenza del giudicato che invece è preclusa nelle ordinanze decisorie.

Infatti se è vero che l'ordinanza di accoglimento costituisce un titolo esecutivo giudiziale, che definisce il giudizio di merito, ciò non impedirà al debitore di dedurre ammissibilmente a fondamento della causa petendi e del connesso petitum in un nuovo giudizio di merito anche le stesse difese ed eccezioni già valutate come manifestamente infondate nel processo definito con l'ordinanza medesima, proprio perché il relativo accertamento è stato espresso sulla scorta di una prima valutazione sommaria, allo stato degli atti, senza alcuna istruttoria, e, senza che tale accertamento sommario sia idoneo a stabilizzarsi, fatta salva, altresì l'introduzione di fatti sopravvenuti od anche anteriori rispetto alla pronuncia dell'ordinanza, laddove non valutati dallo stesso giudice che ebbe a pronunciare la relativa ordinanza di accoglimento.

Va poi considerato che è altresì dubbia la possibilità che l'ordinanza resa ex art. 183-ter c.p.c. sia idonea a consentire l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale, per effetto non solo del tenore della norma quanto agli effetti del provvedimento da essa disciplinato, quanto per la mancanza di una prescrizione ad hoc come quella prevista per il provvedimento pronunciato ai sensi dell'art. 641 c.p.c.

Tali criticità indurrebbero a pensare che il giudice non possa pronunciare il provvedimento in fieri ogni qual volta la tutela del diritto dedotto in giudizio richieda la pronuncia di un provvedimento idoneo al giudicato, perchè in tale ipotesi, le esigenze di tutela della parte non potrebbero essere soddisfatte dalla pronuncia di un'ordinanza priva di efficacia di giudicato.

Dubbi residuano anche in punto di ammissibilità delle ordinanze ex artt. 183-ter e 183-quater c.p.c. per talune controversie concernenti diritti rientranti nella disponibilità delle parti il cui contenzioso è strutturato in una duplice fase processuale sebbene dinanzi al medesimo giudice di prime cure.

Si tratta principalmente dell'opposizione a decreto ingiuntivo e dell'impugnazione di delibere assembleari condominiali.

In realtà, nonostante alcune voci contrarie, non si ravvisano particolari ragioni ostative all'ammissibilità dei rimedi decisori di cui si discorre anche per tali controversie, laddove si consideri che il tribunale giudica sempre in qualità di giudice di primo grado e non di appello per entrambe le tipologie di controversie, rilevando l'impugnazione in senso squisitamente tecnico-procedurale e non con riferimento al grado di giudizio.  

Semmai le possibili criticità andrebbero scrutate altrove, con riferimento alla sorte del giudizio di merito e delle relative ordinanze decisorie tanto se di accoglimento della domanda quanto nell'ipotesi del suo rigetto.

In particolare, occorre chiedersi cosa accade al giudizio di opposizione qualora su istanza dell'opposto, all'esito dell'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., viene emessa dal giudice ordinanza ex art. 183-quater c.p.c. di rigetto dell'opposizione quando questa è manifestamente infondata e, tale provvedimento venga successivamente confermato in sede di reclamo?

Analoga quaestio si profila nel caso inverso, con riferimento al decreto ingiuntivo precedentemente emesso, ovvero, se l'opponente chiede al giudice l'emissione di ordinanza ex art. 183-ter c.p.c. risultando provati i fatti costitutivi dell'opposizione e le difese della controparte appaiano invece manifestamente infondate, e tale provvedimento venga successivamente confermato dal giudice del reclamo.

In entrambe le ipotesi, le ordinanze decisorie non hanno efficacia di giudicato, né autorità spendibile in altro processo, laddove successivamente azionato dalla parte interessata, fosse anche quella precedentemente sconfitta.

Tuttavia, non vi è chi non veda come nella prima ipotesi l'opposizione a decreto ingiuntivo iniziata con il giudizio a cognizione piena si chiuderebbe definitivamente – non essendo riproponibile una volta decorso il termine di quaranta giorni dalla notifica del decreto ingiuntivo – con l'emissione di un'ordinanza al termine di una cognizione sommaria, la quale, sebbene non idonea al giudicato, di fatto, in tale ipotesi, implicitamente produrrebbe proprio tale conseguenza.

Una situazione analoga potrebbe verificarsi anche nel caso in cui per effetto dell'accoglimento dell'opposizione il decreto ingiuntivo già emesso venga revocato e contestualmente accolta anche la domanda riconvenzionale proposta dall'opponente.

La differenza è che in quest'ultima ipotesi il ricorso monitorio è riproponibile dalla parte interessata, laddove non sia intervenuta medio tempore la prescrizione del proprio credito.

Ulteriori criticità potrebbero verificarsi anche con riferimento all'ipotesi della richiesta di chiamata di terzo in garanzia la cui esigenza derivi dall'attività difensiva svolta nel giudizio di opposizione.

Conseguenze non dissimili da quelle concernenti la prima ipotesi sopra evidenziata – riferita all'accoglimento delle ragioni sottostanti l'istanza di emissione dell'ordinanza ex art. 183-quater c.p.c. concernenti l'opposizione a decreto ingiuntivo – potrebbero verificarsi con riferimento all'impugnazione di una delibera condominiale ex art. 1137 c.c.

Poiché anche in ordine a tale controversia, si pone il problema della sorte del giudizio di impugnazione qualora su istanza del condominio costituitosi, all'esito dell'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., venga emessa dal giudice l'ordinanza ex art. 183-quater c.p.c. di rigetto dell'impugnazione quando questa è manifestamente infondata e, tale provvedimento venga successivamente confermato in sede di reclamo.

L'impugnazione alla delibera condominiale deve infatti essere proposta nel termine di decadenza previsto dall'art. 1137, comma 2, c.c. ragione per cui se nelle more del tempo occorrente per il conseguimento dell'ordinanza decisoria ex art. 183-quater c.p.c. – confermata in sede di reclamo – risulta spirato il relativo termine di decadenza, in questo caso l'azione non potrà essere riproposta dallo stesso condomino, verificandosi così un'altra ipotesi di giudicato di mero fatto, stante la preclusione dall'iniziare un'altra causa di impugnazione della stessa delibera assembleare.

Ma in tema di impugnazione della delibera condominiale esiste anche un altro problema sempre correlato all'applicazione dell'art. 183-quater c.p.c. laddove ante causam, il condomino abbia anche proposto ed ottenuto con ricorso cautelare la sospensione della stessa delibera assembleare, successivamente impugnata nel rispetto del termine di legge.

Nell'ipotesi innanzi considerata, è infatti evidente come l'accoglimento dell'istanza ex art. 183-quater c.p.c. confermata anche in sede di reclamo, non solo definirebbe – senza valore di giudicato – il giudizio di impugnazione autonomamente proposto dal medesimo condomino, ma spiegherebbe i relativi effetti anche sul precedente provvedimento cautelare ante causam, magari emesso da un giudice diverso da quello affidatario dell'impugnazione.

E ciò a prescindere dalla diversità dei requisiti richiesti per l'accoglimento dell'istanza ex art. 183-quater c.p.c. nel giudizio ordinario rispetto a quelli integranti il fumus ed il periculum posti a fondamento del ricorso cautelare ante causam.

In realtà, per la rimozione degli effetti del provvedimento cautelare – che non ha natura anticipatoria come può evincersi da quanto enunciato dall'art. 1137 c.c., laddove afferma chiaramente che la relativa istanza non sospende né interrompe il termine per la proposizione dell'impugnazione della deliberazione assembleare – stante il rinvio alla disciplina di cui al libro IV, titolo I, capo III, sezione I del codice di rito, occorrerà attivare nel contraddittorio delle parti l'apposito procedimento previsto per l'inefficacia del provvedimento cautelare dall'art. 669-novies c.p.c. anch'esso modificato dalla Cartabia.

Ebbene, nonostante la riforma abbia eliminato l'originaria struttura bifasica del procedimento, ciò non esonera la parte interessata, verificatasi una causa di inefficacia della misura cautelare, dal richiedere con ricorso la fissazione di un'apposita udienza per la trattazione della questione.

In base all'attuale disposizione dell'art. 669-novies c.p.c. il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare – il quale potrebbe anche essere diverso da quello della causa di merito – convocate le parti con decreto in calce al ricorso, dichiara con ordinanza avente efficacia esecutiva che il provvedimento è divenuto inefficace, disponendo i provvedimenti di ripristino. 

Tuttavia, la nuova formulazione dell'art. 669-novies c.p.c., nonostante abbia eliminato il riferimento alle contestazioni del resistente, non muta la natura contenziosa del procedimento, dovendo sempre il giudice valutare la fondatezza dei motivi di ricorso e la sussistenza di un'effettiva causa d'inefficacia, come del resto si evince dalla stessa ratio della norma sopra citata, laddove prevede l'instaurazione del contraddittorio prima di decidere sulla causa di inefficacia – alla stregua di quanto stabilito dall'art. 669-sexies c.p.c., anche in relazione ai motivi addotti dall'istante – atteso che, la controparte può comunque contestare l'esistenza dei presupposti legittimanti la richiesta di inefficacia della misura cautelare, depositando scritti difensivi all'udienza di comparizione, ovvero trascrivendoli direttamente a verbale.

A ciò aggiungasi che l'art. 669-novies c.p.c. nulla afferma in merito alla non impugnabilità del provvedimento dichiarativo dell'inefficacia, ovvero in tesi, del rigetto della relativa istanza, ragione per cui l'ordinanza, sia in caso di accoglimento che di rigetto, può essere impugnata con il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. 

E' dunque evidente come anche in tale ipotesi, si realizzerebbe una proliferazione del contenzioso civile. 

Una situazione analoga potrebbe inoltre verificarsi per le controversie chiamate dinanzi al giudice delle locazioni, e segnatamente, quelle che a seguito della chiusura della fase sommaria per effetto dell'opposizione del conduttore, hanno inizio con il mutamento del rito ex art. 667 c.p.c.

Infatti ove il giudice ritenga accoglibile l'istanza del locatore ex art. 183-quater c.p.c. avverso le ragioni del conduttore quid juris per quanto attiene la sorte del giudizio di opposizione?

E' evidente come la conferma dell'ordinanza decisoria anche in sede di reclamo, renda di fatto inattuabile la riproposizione autonoma del giudizio di merito da parte del conduttore, in quanto legato alla sorte del processo bifasico iniziato dallo stesso locatore ex artt. 657 o 658 c.p.c. e successivamente proseguito in punto di merito previo mutamento del rito.

Conseguentemente, anche in ordine a tale situazione, in punto di mero fatto, si realizza una sorta di giudicato implicito sulla controversia, nonostante il dettato normativo escluda in capo all'odierna ordinanza emessa ex artt. 183-ter e quater c.p.c. sia l'efficacia propria del giudicato ex art. 2909 c.c. sia il riconoscimento dell'autorità spendibile in altro processo.  

Alle considerazioni che precedono, si aggiunge quella ulteriore derivante dal duplice rinvio alla generale reclamabilità dell'ordinanza decisoria ex art. 183 ter o quater c.p.c., per il cui procedimento in particolare si rinvia all'art. 669-terdecies c.p.c., emergendo palese la volontà del legislatore di attrarre tale tipologia di ordinanza nell'ambito di quelle governate dal rito cautelare uniforme, con la peculiarità del caso atteso che, in caso di reclamo, il collegio non dovrà stabilire se la domanda o la difesa sono fondate od infondate nel merito, bensì se le stesse sono o non sono manifestamente infondate.

Nell'eventualità in cui il reclamo venga accolto, inevitabilmente si verificherà un aumento del contenzioso civile necessario alla definizione anche del giudizio di merito a cognizione piena, ovviamente dinanzi ad un giudice diverso da quello che ha emesso l'ordinanza reclamata.

Infatti quid juris in merito alla possibilità per la parte interessata, una volta adottata dal giudice l'ordinanza di accoglimento della domanda – che non acquista l'autorità propria della res iudicata, così come del resto accade anche per i provvedimenti cautelari ex art. 669-octies c.p.c., tantè che neppure può essere invocata in altri processi – di intraprendere ugualmente l'azione civile?

Esiste anche la possibilità che l'istanza ex art. 183-ter c.p.c. venga rigettata da un giudice di prime cure per poi essere successivamente ripresentata dinanzi ad un altro giudice dello stesso tribunale il quale invece ritenga di accoglierla, in questo caso, con grave vulnus all'uso corretto della risorsa giudiziaria, in spregio al principio di economia processuale.

Un'ulteriore criticità deriva quindi dall'incertezza dei tempi occorrenti per la chiusura definitiva del processo civile, atteso il particolare status giuridico assunto dall'ordinanza che lo definisce in via provvisoria, in relazione al quale, si comprende allora il senso della provvisoria esecuzione del relativo provvedimento di accoglimento dell'istanza ex art. 183-ter c.p.c. adottato dal giudice.

La mancanza di reclamo od il suo rigetto rende definitiva l'ordinanza, non essendo ulteriormente impugnabile, ma ciò non vale ad attribuirle come si è già visto lo status di cosa giudicata, ragione per cui la stabilità del suddetto provvedimento non può neppure essere invocata in altri processi.

In tale ottica, esiste anche il rischio che, per effetto di continui accoglimenti di istanze di rigetto ex art. 183-quater c.p.c., l'attore si veda negato nel tempo il proprio diritto ad una decisione di merito a cognizione piena sulla domanda.

Alle considerazioni che precedono se ne aggiunge un'altra, suggerita da un'autorevole dottrina che, non ha mancato di osservare come il giudice non deve stabilire se la domanda è o non è fondata, ma valutare che non sia manifestamente infondata, e poiché la manifesta infondatezza è un concetto giuridico vago, emerge palese l'ovvia conclusione che sulle parti grava il rischio che la controversia possa definirsi sommariamente senza una reale cognizione piena della controversia.

Conclusioni

Tirando le fila del discorso, muovendo dalla circostanza di fondo che ci troviamo di fronte a due provvedimenti resi in forma di ordinanza che si surrogano alla sentenza senza però accertare in modo stabile e definitivo il diritto vantato e senza consumare l'azione, e convenendo con l'analisi svolta dall'attenta dottrina formatasi a prima lettura degli artt. 183-ter e 183-quater c.p.c., tali disposizioni effettivamente sembrano portare più ombre che luci, almeno nell'ottica del raggiungimento degli ambiziosi obiettivi della riforma che ancora una volta – come del resto già accaduto per tutte le precedenti riforme della giustizia civile – rischiano seriamente di rimanere sulla carta.

In tale prospettiva depone l'osservazione sull'illusoria scommessa del legislatore che le parti si “accontentino” dell'assetto di interessi configurato dalle ordinanze di accoglimento o di rigetto della domanda, e che non vadano ad incardinare un nuovo giudizio civile per ottenere un accertamento con efficacia di giudicato sul rapporto controverso, specialmente laddove è la stessa natura della controversia a consigliare od imporre tale comportamento processuale.

In verità, al di là di ragionamenti dal sapore squisitamente accademico, sul piano pratico appare difficilmente controvertibile prefigurare uno scenario diverso da quello in cui, da un lato, per effetto della proposizione in massa di reclami ex art. 669-terdecies c.p.c. e, dall'altro, per effetto della porta aperta lasciata all'introduzione di un nuovo giudizio sulla medesima vicenda sostanziale ad opera della parte soccombente – od anche di quella vittoriosa laddove abbia ottenuto ragione in misura minore rispetto a quanto sperato nell'atto introduttivo – probabilmente andrà a determinarsi un consistente aumento del contenzioso civile, complice la duplicazione delle risorse giudiziarie impiegate per definire la stessa controversia, proprio ciò che incide negativamente sulla durata dei processi.

A tale considerazione si aggiunge quella ulteriore che se la tutela giurisdizionale dei diritti non deve necessariamente passare attraverso un processo a cognizione piena e condurre ad un accertamento incontrovertibile, in quanto il singolo utente della giustizia civile deve restare libero di accontentarsi anche di una tutela minore, fruibile attraverso altri rimedi giurisdizionali, tale scelta non può essere imposta alla controparte – tenuta ad attivarsi autonomamente con l'instaurazione di un nuovo giudizio per evitare di doverla accettare passivamente – soltanto per effetto dell'altrui iniziativa.

Come sostenuto in dottrina, evidente è infatti la contrazione del diritto alla difesa, laddove si consente al giudice di non portare al termine il processo accogliendo immediatamente la domanda ex art. 183-ter c.p.c., ed al diritto di azione, laddove si consente al giudice, all'esito dell'udienza ex art. 183-quater c.p.c., di rigettare la domanda.

Eppure la ricetta per risolvere efficacemente i mali della giustizia civile è semplice, ed è quella invocata da tutti coloro che usando il metro della ragione obiettiva, rifiutano inutili soluzioni facili e sbrigative, fondate di volta in volta unicamente sulla continua riscrittura delle regole processualcivilistiche, il cui fine non dichiarato è soltanto quello di accontentare osservatori sovranazionali dal cui umore dipende – in questo caso – il via libera all'ottenimento dei fondi del PNRR, attraverso un'ulteriore azione di “filtro” ideata dal legislatore delegato, questa volta operante fin dall'inizio del processo civile, demandata alle nuove ordinanze decisorie ex artt. 183-ter e quater c.p.c. sulla falsariga degli analoghi strumenti processuali già operanti in Appello ed in Cassazione, per effetto del relativo giudizio sommario fondato sulla manifesta fondatezza od infondatezza delle ragioni di una delle parti.

Del resto se è l'economia nazionale a risultare danneggiata dalla lentezza del processo civile, per effetto della perdita del suo appeal presso la comunità internazionale degli investitori, appare evidente come l'unica soluzione davvero plausibile sia quella di investire in misura adeguata consistenti risorse pubbliche di persone e mezzi nella giustizia civile, con la piena consapevolezza che le riforme a “costo zero” debbano ormai considerarsi come un'esperienza del tempo che fu.

Riferimenti

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