Le delibere assembleari nelle procedure di regolazione della crisi

24 Novembre 2023

L’autore si sofferma sul rapporto tra amministratori e soci nell’ambito delle procedure di regolazione della crisi, analizzando i poteri esercitabili dai soci a tutela della loro posizione, qualora compromessa dall’introduzione di invise modifiche statutarie inserite nei piani di risanamento. 

Premessa

Con l'ultima versione del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (CCII) – mediante introduzione degli art. 120-bis e segg. CCII – è stata affidata in via esclusiva all'organo amministrativo la decisione di accedere agli strumenti di regolazione della crisi e di determinare il contenuto del piano, anche con cambiamenti dello statuto della società, aumenti e riduzioni di capitale, con limitazione o esclusione del diritto di opzione, modificazioni dei diritti di partecipazione dei soci, oltreché operazioni straordinarie quali fusioni, scissioni e trasformazioni.  Si tratta di una scelta che è perfettamente coerente con l'impianto del Codice che, già nella sua prima versione, aveva conferito agli amministratori il compito di predisporre adeguati assetti amministrativi finalizzati a rilevare tempestivamente la crisi ed a predisporre tutte le misure necessarie per il suo superamento.

Come correttamente sottolineato in dottrina (A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Ristrutturazioni Aziendali 22 settembre 2022) la disciplina dell'art. 120-bis e segg. CCII rappresenta il frutto del bilanciamento tra due contrapposti ed ugualmente importanti interessi: da un lato, evitare il rischio “di un comportamento opportunistico dei soci, che si traduca in uno scambio tra l'esercizio dei diritti sociali nell'interesse dei creditori e l'estrazione dal piano, a loro beneficio – e nonostante la sostanziale perdita della proprietà della società – di risorse altrimenti destinate ai creditori”; dall'altro, evitare che “i soci (o alcuni di loro) vengano in realtà sacrificati dallo strumento di regolazione della crisi in maniera eccedente rispetto a quanto sarebbe in astratto imposto dall'entità del patrimonio sociale o comunque rispetto a quanto sarebbe veramente necessario per dare la giusta soddisfazione ai creditori sociali (specie qualora la regolazione della crisi diventi occasione anche per “regolare i conti” all'interno della compagine sociale)”.

Il sistema concorsuale, agli artt. 120-bis e segg., quindi, detta regole che attribuiscono larghissimi poteri agli amministratori e nello stesso tempo conferiscono, nell'ambito della complessiva disciplina della procedura di regolazione della crisi aperta su iniziativa degli amministratori, alcuni poteri ai soci, inidonei, però, a compensare la francamente eccessiva preponderanza attribuita all'organo amministrativo, normalmente assai più responsabile della crisi di quanto non lo possano essere i soci in quanto tali.  

Tuttavia, il complesso tema del rapporto tra amministratori e soci nell'ambito delle procedure concorsuali non può essere esaminato con esclusivo riferimento alla disciplina degli art. 120-bis  - 120-quinquies CCII e della altre disposizioni del codice della crisi, essendo assolutamente indispensabile verificare anche quale sia la disciplina societaria che può influire sulle vicende concorsuali e, pertanto, nella sostanza, il diritto commerciale della crisi in concreto applicabile (per una disamina della vasta materia, cfr. L. Lambertini e F. Platania (a cura di), Il diritto commerciale della crisi, , Milano, 2023).

Il Codice della crisi e la disciplina societaria

Il primo aspetto, che appare necessario sottolineare, riguarda il fatto che le disposizioni del Codice della crisi sono modellate in modo quasi esclusivo sulle società per azioni, mentre la disciplina concorsuale trova di fatto prevalente applicazione (data la struttura economica del nostro Paese) alle società a responsabilità limitata ed alle società di persone (peraltro, quasi completamente dimenticate). Ciò impone un esame differenziato della disciplina dei poteri dei soci in pendenza delle procedure concorsuali in ragione dei diversi tipi di società.

Ciò premesso, si deve anche ricordare che tutti gli strumenti di regolazione della crisi disciplinati dal Codice non sospendono in modo generalizzato l'applicazione della disciplina societaria ordinaria. È noto che solo nel concordato preventivo si ha uno spossessamento attenuato ed una parziale limitazione dell'azione degli organi sociali, mentre per tutte le altre procedure l'attività degli amministratori, dell'assemblea, dei soci e dell'organo di controllo è retta dalle regole ordinarie.

Le norme per l'accesso agli strumenti di regolazione della crisi dettate dall'art. 120-bis CCII, ancorché inserite nell'ambito della disciplina del concordato preventivo, non operano, però, solo con riferimento a questa procedura, ma sono applicabili a tutti gli strumenti di regolazione della crisi (Rossi, op. cit.) con esclusione della liquidazione giudiziaria, per la quale il dovere di richiederla tempestivamente in proprio mal si concilierebbe con i tempi occorrenti per l'assunzione e la pubblicazione della relativa delibera (su questo punto, però, Rossi, op. cit. è più dubbioso). Pertanto, le procedure sulla formazione della delibera (valevoli sia nel caso di amministrazione unipersonale sia nel caso di amministrazione plurisoggettiva) e di informazione dei soci riguardano anche il piano attestato di risanamento, gli accordi di ristrutturazione, la transazione fiscale, la convenzione di moratoria (compresa la forma assai particolare prevista dall'art. 25-undecies, comma 2,  CCII qualora richiesta da società), il piano di ristrutturazione soggetto ad omologa ed anche il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, ancorché la prodromica fase della composizione negoziata rientri, invece, nell'ambito degli ordinari poteri amministrativi, non essendo questa qualificabile come procedura diretta alla regolazione della crisi.

Malgrado l'applicazione generalizzata della disciplina dell'art. 120-bis CCII a tutte le procedure diverse dalla liquidazione (nei limiti della compatibilità), il potere di prevedere, sia pure ai fini del buon esito della ristrutturazione, qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, va, invece, escluso in relazione a quelle che non prevedono un intervento del tribunale. Infatti, come specificato dall'art. 120-quinquies CCII, la riduzione e l'aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano sono disposte dal provvedimento di omologazione, ancorché necessitino, per essere introdotte nello statuto (e quindi rese pubbliche nel registro delle imprese), di una delibera (presa dagli amministratori) per atto pubblico sottoposta anche al controllo di legalità di un notaio (per una disamina delle questioni generali inerenti il controllo notarile delle delibere assembleari cfr. G. Lazoppina, Il controllo notarile sulle delibere modificative dello statuto e dell'atto costitutivo di società di capitali, in  questo IUS - Crisi d'Impresa, 3 ottobre 2023); da ciò si deduce che le modifiche possono essere disposte solo nelle procedure di concordato preventivo (con continuità aziendale diretta o liquidatorio), di accordo di ristrutturazione dei debiti, di piano di ristrutturazione soggetto ad omologa e concordato semplificato, posto che, per tutte le altre misure di risanamento, non è prevista l'adozione di un provvedimento del giudice.

Tale limitazione è collegabile alla circostanza che solo per le procedure ricordate gli artt. 48 e 25-sexies CCII attribuiscono ad ogni interessato e, quindi, anche ai soci, la facoltà di proporre opposizione per segnalare l'eventuale abuso commesso ai loro danni, apparendo necessario bilanciare il potere degli amministratori con quello di opposizione dei soci. Tuttavia, è lecito supporre che assai difficilmente i tribunali saranno disponibili a rigettare l'istanza di omologazione pur in presenza di un distorto esercizio dei poteri per timore di compromettere, per ragioni di esclusiva tutela dei soci, il percorso di risanamento già favorevolmente vagliato dai creditori.  

E, in effetti, il legislatore ha inteso affidare la tutela della posizione dei soci attraverso soprattutto un altro istituto, tipicamente concorsuale, ma applicabile solo al concordato preventivo, prevedendo che i soci rappresentanti almeno il dieci per cento del capitale possano presentare proposte concorrenti ai sensi dell'art. 90 CCII, affidando, pertanto, ai creditori la decisione di scegliere, fra le varie opzioni proposte, quale sia preferibile per il risanamento dell'impresa. Non è inutile precisare in proposito che per l'iniziativa dei soci non valgono le preclusioni previste dall'art. 90, comma 4, CCII per le quali la proposta concorrente non è ammissibile se nella relazione di cui all'articolo 87, comma 3, CCII il professionista indipendente abbia attestato che il piano del debitore assicuri il pagamento di almeno il trenta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari o il venti per cento nel caso in cui il debitore abbia utilmente avviato la composizione negoziata ai sensi dell'art. 13 CCII. Infatti, le preclusioni tendono a tutelare il debitore da possibili incursioni di terzi idonee a sottrargli il controllo dell'azienda, ma le proposte concorrenti dei soci devono, nella sostanza, essere considerate pur sempre proposte della società debitrice e non vi può, dunque, essere motivo di limitarne la presentazione (anche tenuto conto della particolare funzione di tutela della posizione dei soci che riveste).

Anche la concreta efficacia di tale strumento, però, appare molto dubbia: sicuramente rare saranno le proposte concorrenti (da qualunque parte provengano) perché i soggetti diversi dagli amministratori non dispongono quasi mai delle informazioni sufficienti; la sola via per formulare una proposta concorrente seria è di procedere, semmai, alla presentazione di una proposta meramente parassitaria di quella avanzata dagli amministratori, con lievi varianti, non incidenti significativamente sulla portata economica (tanto da non richiedere neppure una nuova attestazione) e che presenti solo delle modifiche di altra natura  (A. Rossi, Il contenuto delle proposte concorrenti nel concordato preventivo, in Crisi d'Impresa e Fallimento, 23 novembre 2015).

I poteri dell'assemblea

Orbene, una proposta concorrente di tipo parassitario potrebbe essere quella che, fermo l'intero impianto ipotizzato per la soddisfazione dei creditori, prevedesse l'esercizio di una azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o dei sindaci il cui ricavato fosse destinato ad incrementare l'attivo disponibile. Com'è noto, l'azione può essere esercitata dal liquidatore nel concordato in liquidazione, ma non nel concordato in continuità (persino se indiretta) se non è inserita nel piano (M. Fabiani, L'azione dei creditori sociali nella s.r.l. dopo il Codice della crisi, in Diritto della crisi, 31 dicembre 2020).

Proprio questo esempio induce a ipotizzare che nulla può ostare a che i soci, pendendo il procedimento di omologa, chiedano la convocazione dell'assemblea per deliberare l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori da esercitarsi anche dopo l'eventuale omologazione della proposta concordataria (sulla invalidità delle clausole di esonero di responsabilità a favore degli amministratori, F. Piccione, Esonero da responsabilità degli amministratori nel trasferimento di partecipazioni societarie, in IUS - Società, 25 settembre 2023).

A ciò non è di ostacolo la previsione dell'art. 120-bis, comma 4, CCII che dispone che, dall'iscrizione della decisione nel registro delle imprese e fino alla omologazione, la revoca degli amministratori sia inefficace se non ricorre una giusta causa. Solo la revoca degli amministratori è inefficace se non approvata dal tribunale delle imprese (anche se deliberata con il voto favorevole di soci che rappresentano più del 20% del capitale ai sensi dell'art. 2393, comma 5, c.c.), ma nessuna norma del Codice della crisi limita l'esercizio dei poteri assembleari in tema di azione di responsabilità.

In realtà, risulta in generale poco studiato, per le società, il tema dell'individuazione dei poteri della assemblea in pendenza di concordato preventivo (vedasi, però, F. Viola, Il ruolo dell´assemblea dei soci nelle società in concordato preventivo, in Orizzonti del Diritto Commerciale, 1/2022).

A tal proposito vanno richiamati l'art. 46 CCII (per la fase che segue la proposizione della domanda, anche in bianco, e precedente al decreto di ammissione) per il quale il debitore può compiere gli atti urgenti di straordinaria amministrazione solo previa autorizzazione del tribunale, pena revoca del decreto di ammissione, e l'art. 94 CCII per il quale i mutui, anche sotto forma cambiaria, le transazioni, i compromessi, le alienazioni di beni immobili e di partecipazioni societarie di controllo, le concessioni di ipoteche o di pegno, le fideiussioni, le rinunzie alle liti, le ricognizioni di diritti di terzi, le cancellazioni di ipoteche, le restituzioni di pegni, le accettazioni di eredità e di donazioni e in genere gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, compiuti senza l'autorizzazione del giudice delegato, sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al concordato.

Premesso che l'indicazione contenuta nell'art. 94 CCII non ha certamente carattere tassativo, sono stati considerati atti di straordinaria amministrazione tutti quelli aventi l'idoneità ad incidere in modo negativo sul patrimonio destinato alla soddisfazione dei creditori (Cass. civ., sez. I, 29 maggio 2019, n. 14713, che sottolinea che tale interpretazione è in qualche modo confortata dalla previsione contenuta nell'art. 94, comma 4, che rimette al tribunale la facoltà di determinare un limite di valore degli atti al di sotto del quale non è dovuta l'autorizzazione; per una ricostruzione della questione, cfr. P. Bosticco, Dubbi e incertezze sull'autorizzazione al compimento di atti di straordinaria amministrazione nel nuovo preconcordato, in IUS - Crisi d'impresa, 8 Agosto 2013).

All'approfondimento del tema non contribuiscono i pochissimi precedenti giurisprudenziali emessi in occasione di delibere assembleari in pendenza di concordato, rinvenendosene solo uno, piuttosto remoto, sulla modifica statutaria concernente il cambiamento della denominazione sociale e lo scioglimento della società (considerati peraltro non soggetti ad alcuna autorizzazione: App. Milano 10 novembre 1987, in Diritto Fallimentare e delle società commerciali, 1988,38).

In ogni caso, sembra assolutamente condivisibile porre il discrimen tra atti sottoposti ad autorizzazione ed atti liberi, nella capacità o meno di incidere sulla soddisfazione dei creditori e sul patrimonio sociale.

Ebbene, le delibere dell'assemblea dei soci, anche se comportanti modifiche statutarie solo in taluni casi, hanno effettivamente capacità di incidere sul patrimonio della società debitrice e conseguentemente sul grado di soddisfazione dei creditori: certamente tra queste rientrano le operazioni straordinarie di fusione, scissione e trasformazione, che sono quelle espressamente ricordate dall'art. 120-bis CCII e persino regolate in deroga al codice civile; ma altre delibere, pure dirette a modificare in profondità lo statuto della società debitrice, non hanno di per sé sole alcuna idoneità ad incidere sulla soddisfazione dei creditori avendo influenza solo sulla struttura della società debitrice; la delibera di autorizzazione all'esercizio dell'azione di responsabilità (diretta ad esempio ad ottenere il risarcimento dei danni patiti dalla società in conseguenza dell'insufficiente cura degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili volti all'emersione tempestiva della crisi), di cui prima si è ipotizzata l'approvazione da parte dell'assemblea dei soci in pendenza del procedimento di omologazione, certamente esula da quelle per le quali la società debba ottenere una qualsiasi autorizzazione, tanto più che essa potrebbe svolgere addirittura un'importante funzione di conformazione ed integrazione del piano permettendo l'incremento del patrimonio societario destinato al soddisfacimento dei creditori, sottraendo gli amministratori all'impunità che conseguirebbe loro dall'approvazione della proposta da essi stessa elaborata.

Il contenuto delle delibere. L'approvazione del bilancio

Ma anche altre possono essere le delibere che l'assemblea (anche ordinaria) dei soci può assumere o non assumere con effetti sulla procedura concordataria.

Può accadere, infatti, che nel corso della procedura di omologazione del concordato preventivo scadano i termini per l'approvazione del bilancio di esercizio non sussistendo deroghe all'obbligo degli amministratori di predisporre e sottoporre all'assemblea dei soci il documento contabile. Va, anzi, sottolineato, anche se la circostanza non sembra essere stata ancora evidenziata con sufficienza dalla dottrina, che l'approvazione di un bilancio (anche straordinario), chiuso in epoca prossima ma precedente all'omologazione, risulta addirittura doverosa alla luce del disposto dell'art. 120-quater CCII che, ponendo dei limiti all'assegnazione di valore ai soci, ha imposto un raffronto tra l'effettivo valore della partecipazione in epoca antecedente all'omologazione (con computo delle perdite accumulate dalla società fino a quel momento) con quello successivo (una volta iscritta in bilancio la sopravvenienza prodotta dall'esdebitazione prodotta dal concordato). Sebbene l'approssimativa ed un po' confusa formulazione dell'art. 120-quater CCII sembri considerare solo gli eventuali apporti effettuati dai soci in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto ( G. Scognamiglio, F. Viola, I soci nella ristrutturazione dell'impresa, in Il nuovo diritto delle società, 1163, 7/2022), resta pur sempre evidente che, ai fini del calcolo del vantaggio, debba essere tenuto in considerazione il valore residuo che le partecipazioni avevano al netto delle perdite e delle sopravvenienze passive formatesi antecedentemente all'omologa.  

Quindi, l'esatta determinazione del valore delle partecipazioni rappresenta un fondamentale elemento di valutazione per la posizione dei soci, poiché, tanto più alto è il valore attribuibile alla partecipazione dei soci in epoca antecedente all'omologazione sulla base di un bilancio di esercizio regolarmente approvato (ancorché di natura straordinaria), tanto minori saranno i rischi di incorrere nei limiti previsti dall'art. 120-quater CCII di attribuzione di vantaggi ai soci.

Se, dunque, rimane indiscutibilmente intatto l'obbligo degli amministratori di redigere un progetto di bilancio, rimane altrettanto inconcusso il diritto dei soci di approvare o respingere il bilancio loro proposto.

Orbene, il rifiuto di approvare il bilancio, altreché rappresentare una causa di scioglimento della società (per quelle di persone v. Trib. Milano 16 novembre 2018, in Giurisprudenza delle Imprese; per le società di capitali v. Trib. Brescia 24 giugno 2011) potrebbe avere effetti assai gravi sulla proposta concordataria (se in continuità aziendale diretta), poiché manifesterebbe un'evidente difficoltà della società debitrice a mantenere gli impegni previsti nel piano, potendosi fortemente dubitare che possa essere attribuito al commissario giudiziale il potere surrogatorio, ai sensi dell'art. 118 CCII, di approvare bilanci, posto che ciò non rappresenta certamente un adempimento connesso con l'esecuzione del piano.

Le operazioni sul capitale

È sicuro, poi, che l'assemblea dei soci possa procedere ad operazioni sul capitale.

Lo dimostra in modo evidente il ricordato art. 120-quater, comma 2, CCII, che espressamente prevede che i “conferimenti” effettuati dai soci ai fini della ristrutturazione (e quindi anche prima dell'omologazione) debbano essere calcolati in detrazione nella valutazione dei vantaggi loro attribuiti dal piano omologato.

Va premesso che l'eventuale soppressione del diritto di opzione opera solo e soltanto a seguito dell'omologazione della proposta, con l'effetto che, fino a quando ciò non sia avvenuto, l'assemblea dei soci ben può provvedere all'assunzione di tutte le delibere nel rispetto delle regole ordinarie.

Ebbene, malgrado il piano possa prevedere (dopo l'omologa) a favore dei creditori o di terzi, aumenti di capitale con soppressione del diritto di opzione dei soci, nulla può escludere che a tutela della propria posizione i soci (di S.p.A.) deliberino, pendente il procedimento di omologa, non solo un aumento di capitale loro riservato ai sensi dell'art. 2441 c.c., mediante emissione di azioni dello stesso tipo di quelle già emesse, ma anche di nuove azioni dotate eventualmente di voto plurimo, per ridurre il peso dei nuovi soci nella compagine sociale post omologa. Attualmente (ma è stato presentato il disegno di legge 674 del 21 aprile 2023, che tende ad ampliare le potenzialità dello strumento, cfr. I. Costanzi, Azioni a voto plurimo: le proposte del ddl a sostegno della competitività del mercato dei capitali, in GFL, Memento Più, 3 luglio  2023) l'art. 2351 c.c. prevede (per le sole S.p.A.) la possibilità di emettere azioni di categoria speciale che attribuiscano al massimo tre voti per ciascuna azione.

Si tratta, però, di comprendere se una tale modifica del capitale debba o meno costituire, ai sensi dell'art. 94 CCII, atto straordinario in quanto idoneo a modificare in qualche misura il grado di soddisfazione dei creditori.

La questione è complessa e probabilmente è difficile trovare una soluzione valevole per tutte le circostanze.  Se, infatti, appare evidente che l'attribuzione di voto plurimo potrebbe alterare gli equilibri societari ipotizzati come funzionali all'esecuzione del piano (ma occorrerebbe una molto approfondita motivazione  per sostenere tale tesi), è anche vero che ciò non è di per sé solo sufficiente per ritenere compromessa in qualche modo l'idoneità del piano a dare soddisfazione ai creditori; se è ragionevole pensare che l'attribuzione a taluni soggetti della capacità di influire sulle decisioni sociali possa, in taluni casi, rappresentare un potente strumento per rendere particolarmente efficiente la gestione sociale (soprattutto in ipotesi di continuità aziendale diretta) è anche vero che se l'entità del pacchetto azionario a disposizione dei singoli soggetti beneficiari dell'aumento di capitale sia sostanzialmente modesta, il mantenimento del controllo societario in capo ai soci originali non pregiudica il soddisfacimento proposto con il piano; in altre parole, se i nuovi soci, comunque, fossero singolarmente destinatari di quote di minoranza inidonee a garantire l'esercizio di potere di controllo sulle decisioni dell'assemblea, essi rimarrebbero sostanzialmente impregiudicati dal mantenimento del controllo da parte dei vecchi soci attraverso l'esercizio di voto multiplo acquisito con nuovi conferimenti.

Inoltre, sembra opportuno distinguere il caso in cui l'aumento di capitale sia effettuato attraverso la conversione in equity dei crediti ovvero attraverso un aumento di capitale semplicemente riservato a terzi.

Nel primo caso, varrebbero le considerazioni superiori, essendo l'interesse dei creditori diretto fondamentalmente al reale recupero di redditività della società di cui sono diventati (obtorto collo) soci, piuttosto che a realizzare un investimento strategico. Nell'ipotesi, invece, in cui l'aumento di capitale fosse destinato a soggetti diversi dai creditori, l'aumento di capitale eseguito dai soci rappresenterebbe uno strumento di rafforzamento delle prospettive di successo del piano permettendo l'acquisizione di ulteriori mezzi altrimenti non sicuramente reperibili e che si affiancherebbero a quelli acquisibili, in base al piano, dall'aumento di capitale riservato a terzi. E, anzi, ancora di più sarebbe preferibile un rinnovato impegno dei soci (sia pure compensato dalla conservazione del potere di controllo sull'assemblea) rispetto alla rigorosa esecuzione del piano che presenta ovviamente margini di maggiore aleatorietà.  Inoltre, i creditori, non assegnatari di capitale, non subirebbero nessun pregiudizio effettivo dal mantenimento del controllo in capo ai soci originari (a meno che i nuovi soci in realtà non fossero di loro espressione diretta od indiretta) potendo, anzi, contare su una maggiore consistenza patrimoniale della debitrice.

Ed infine, anche a considerare la delibera di aumento del capitale con emissione di azioni a voto multiplo assoggettata all'autorizzazione del giudice delegato quale atto di straordinaria amministrazione, per quale motivo un'eventuale richiesta (che dovrebbe pur sempre provenire dagli amministratori  prima dell'iscrizione nel registro delle imprese, ma dopo l'assunzione della relativa delibera, come accade per quelle che sono eccezionalmente sottoposte ad autorizzazione) dovrebbe essere respinta? L'interesse dei creditori è prevalentemente ( se non unicamente) quello di essere soddisfatti nella misura indicata nel piano e non quello di vedere mutata la compagine sociale (interesse che, invece, potrebbero avere gli amministratori a caccia di nuovi consensi); quindi, anche nell'ipotesi in cui l'aumento fosse destinato a soggetti diversi dai creditori, non esisterebbero ragioni per dare prevalenza ad un piano che prevedesse un significativo cambiamento della compagine sociale a meno che (ma è una questione di fatto, da valutare in relazione alla singola proposta) i nuovi soci, per ragioni varie non rappresentino un indispensabile e non surrogabile strumento di buon esito del concordato che possa anche fare venire meno l'opportunità del nuovo apporto garantito dai soci.    

V'è poi da considerare che vi potrebbero essere altre circostanze per cui l'aumento di capitale disposto dai soci sarebbe addirittura uno strumento indispensabile proprio per il buon esito della procedura.

Occorre, infatti, osservare che nell'ipotesi di concordato che prevedesse il pagamento dei debiti per mezzo dei flussi finanziari derivanti dalla continuità diretta (considerata dal legislatore, com'è noto, la forma ordinaria del concordato preventivo), è assai probabile che per effetto delle regole che presiedono l'iscrizione contabile dei debiti e che vietano, invece, quella di utili solo futuri e prospettici, al momento dell'omologazione, la società non possa disporre di un patrimonio netto positivo in ragione dell'insufficienza del bonus concordatario a coprire integralmente le ancora assai elevate (e non coperte patrimonialmente) perdite pregresse (pur a fronte di una parziale conversione in equity di crediti); per evitare che la società entri in istato di scioglimento (per la cessazione dell'effetto protettivo dell'art. 89 CCII) nello stesso momento in cui il concordato venisse omologato, la società dovrebbe avere garantito un capitale idoneo a neutralizzare le perdite ancora contabilizzate (e non coperte da utili solo prospettici); quindi, un aumento di capitale a sostegno della continuità aziendale, anche se a fronte dell'attribuzione di azioni a voto rafforzato, costituirebbe, a ben guardare, uno strumento di rafforzamento della proposta concordataria a tutto vantaggio degli stessi creditori e di incentivo ai vecchi soci, disposti a sottoscrivere nuovo capitale, a contribuire alle sorti del risanamento.

Non va sottaciuto che la disciplina dell'art. 120-bis CCII potrebbe poi presentare aspetti di palese incostituzionalità in relazione alla posizione dei vecchi soci qualora, per effetto delle perdite, il capitale originale fosse integralmente perduto ed essi fossero privati del diritto di opzione.

Come più volte ribadito dalla Cassazione (a partire da Cass. 13 gennaio 1987, n. 133) allorquando risultasse perduto l'intero capitale a causa di perdite pregresse (circostanza oggettivamente piuttosto frequente tra le società di capitali che propongono ricorso per omologazione di concordato preventivo) l'unico legame ancora esistente tra i soci e la loro società è, appunto, il diritto di opzione. La giurisprudenza ha, dunque, precisato che in tal caso non sia possibile privare i soci del diritto di opzione nemmeno facendo leva sulla loro assenza nell'assemblea convocata ai sensi dell'art. 2447 c.c. per l'abbattimento e la contemporanea ricostruzione del capitale sociale. Orbene, non si vede perché, per il solo fatto che la società abbia domandato l'omologazione di un concordato, questa stessa regola non possa essere rigorosamente applicata a favore dei soci (ed a vantaggio dei creditori, come prima indicato). Pertanto, anche quando il piano prevedesse l'esclusione del diritto di opzione, ai soci che hanno visto perso il capitale da loro in precedenza sottoscritto dovrebbe essere garantito, in ogni caso, il diritto di sottoscrivere almeno una quota pari a quello originario, pena l'introduzione di un surrettizio potere di squeeze out che nelle opa ( in cui eccezionalmente è ammesso) è comunque subordinato al verificarsi di talune speciali condizioni (non essendo nemmeno vero che il diritto di opzione, pur quando il capitale sia perso, non abbia necessariamente alcun valore).

Merita anche di essere ricordata la speciale disciplina dettata per le S.r.l. dall'art. 2481-bis c.c., per il quale non è mai possibile prevedere la soppressione del diritto di opzione dei soci se il capitale è integralmente perso, mentre, in tutti i casi di soppressione del diritto di opzione, il socio che non abbia consentito alla decisione ha diritto di esercitare il recesso (che non è escluso dalla disciplina dell'art. 116 CCII, che limita la sospensione di tale diritto solo in relazione alle delibere di trasformazione, fusione e scissione).

Altre modifiche statutarie

Vi sono, inoltre, altre modifiche statutarie che possono essere decise nel corso della procedura di omologazione, tra cui, in particolare, quelle che determinano cambiamenti dei diritti attribuiti ai soci in tema di nomina degli organi amministrativi e di diritti corporativi, la cui introduzione potrebbe risultare particolarmente opportuna in occasione dell'apertura di procedure concorsuali.

Ricordato che l'art. 120-bis CCII attribuisce espressamente tale potere agli amministratori, in ogni caso, per le società a responsabilità limitata, l'art. 2468 c.c. prevede la possibilità che l'atto costitutivo attribuisca a singoli soci particolari poteri riguardanti l'amministrazione della società, mentre gli artt. 2437 e 2437-sexies c.c. per le S.p.A. e l'art. 26, comma 2, del d.l. n. 179/2012 per le PMI, permettono di introdurre ipotesi di riscatto delle quote (vedasi, Orientamento I.N.2 della Commissione Società del Consiglio Notarile delle Tre Venezie sulle quote che attribuiscono il diritto di riscatto o che sono assoggettate al riscatto.) e l'art 2473 c.c. ipotesi di recesso.

Muovendo dalla prima ipotesi, proprio le vicende societarie connesse alla crisi ben potrebbero indurre i soci ad inserire nello statuto clausole che attribuissero a taluni di essi particolari poteri amministrativi commisurati alla partecipazione sociale, anche allo scopo di neutralizzare il potere che potrebbero esercitare nuovi soci non necessariamente interessati ad una gestione prudente e prospettica della società, ma solo al pagamento rapido dei crediti concordatari.

Anche la previsione di inserimento nello statuto di ipotesi di riscatto di azioni o quote in realtà, lungi dal rappresentare uno strumento di contrapposizione nei confronti dei creditori assegnatari di partecipazioni nel capitale della debitrice, potrebbe al contrario costituire una soluzione gradita da questi ultimi, permettendo di aumentare il grado di soddisfazione attraverso la monetizzazione di una partecipazione altrimenti assai poco liquida, e nello stesso tempo consentire ai soci originari di recuperare, in caso di buon esito del concordato, il pieno controllo della società.   

Meritano anche di essere esaminate tutte quelle delibere incidenti sui diritti dei soci.

Lo statuto delle S.p.A., infatti, può prevedere l'inserimento di una o più cause di recesso ed anche l'introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni. Si tratta di strumenti tendenzialmente diretti a conservare la coesione tra i soci ed evitare (o favorire, nel caso di loro soppressione) l'ingresso di altri soggetti.

Non si vede perché non possano essere inseriti nell'ambito di società soggette a procedure concorsuali strumenti volti a permettere ai soci (nuovi o vecchi) di ampliare la loro partecipazione in caso di alienazione da parte di altri, eventualmente prevedendo procedure di determinazione obiettiva del valore di cessione.

Anche l'inserimento di una clausola simul stabunt simul cadent, accompagnata dalla previsione di sistemi di nomina degli amministratori che garantissero la nomina di consiglieri di amministrazione anche da parte dei soci originali, potrebbe giocare un ruolo di garanzia, dando strumenti di protezione da possibili colpi di mano di chi non necessariamente fosse interessato alle sorti della società debitrice.

È ovvio che le modifiche introdotte dalla società in pendenza della procedura di omologazione potrebbero giocare un ruolo negativo ai fini dell'approvazione del concordato, ma ciò non esclude di per sé che i creditori che potrebbero essere, comunque, attratti principalmente dalla proposta economica piuttosto che dalle modalità di controllo della società debitrice, esprimano un parere positivo; in ogni caso, nessuno potrebbe garantire l'approvazione dei creditori neppure del piano elaborato dagli amministratori.

Un tema che meriterebbe un approfondimento a parte è rappresentato dalla possibilità di introdurre nella proposta concordataria, o anche su iniziativa dei soci, modifiche statutarie aventi efficacia temporale limitata al periodo di esecuzione del concordato. Sebbene si sostenga prevalentemente che le delibere societarie rientrino tra gli atti “legittimi”, non sopportando termini o condizioni anche in ragione del regime pubblicitario connesso, non si può escludere in assoluto la legittimità di modifiche statutarie che cessino di avere efficacia una volta conclusa la procedura, come accade per quelle che delegano agli amministratori, per il tempo massimo di cinque anni, aumenti di capitali, emissione di azioni o obbligazioni (e, forse, sarebbe stato opportuno che tutte le modifiche statutarie introdotte dagli amministratori fossero state esclusivamente temporanee, per limitare la portata del potere attribuito agli amministratori).

Le vicende precedenti e successive all'omologa

Se nel corso della procedura l'assemblea proceda a modifiche statutarie, non può escludersi che l'organo amministrativo della società provveda, entro venti giorni prima della votazione, alla modifica della proposta originaria introducendo a sua volta ulteriori modifiche statutarie tendenti in qualche modo a neutralizzare quelle introdotte nel frattempo dai soci.

Non tutte le modifiche, però, possono considerarsi ammissibili; infatti, come espressamente previsto dall'art. 120-bis CCII, i cambiamenti dello statuto possono essere previsti nel piano solo se effettivamente funzionali al buon esito della ristrutturazione e non ad altri fini, con la conseguenza che anche quelle introdotte con modifiche alla proposta non potrebbero essere considerate ammissibili se intervenissero su questioni non collegate al soddisfacimento dei creditori.

In proposito occorre richiamare il disposto dell'art. 47 CCII che, in merito ai poteri riconosciuti al Tribunale in sede di apertura della procedura di concordato preventivo, distingue tra piani in continuità aziendale, per i quali l'autorità giudiziaria è chiamata a valutare la ritualità della proposta, e piani di liquidazione, per i quali invece è controllata l'ammissibilità. Sulla differenza tra giudizio di ritualità e giudizio di ammissibilità secondo le previsioni del codice della crisi, si segnala la pronuncia del Tribunale di Monza, 17 aprile 2023 (su questo Portale, 5 settembre 2023); sembra, però, incontestabile che il controllo circa la funzionalità delle modifiche alla riuscita del piano debba costituire un elemento comune sia al giudizio di ritualità sia, a maggior ragione, al giudizio di ammissibilità perché diretto ad evitare un uso distorto ed abusivo delle procedure concorsuali. Il potere attribuito agli amministratori di incidere addirittura sulla struttura amministrativa deve essere strettamente finalizzato al successo del risanamento proprio in ragione della sua evidente eccezionalità, che, prescindendo completamente dalla volontà diretta od indiretta dei soci, deve trovare effettivo fondamento nella superiore esigenza di superare la crisi che ha colpito la società. Ne consegue che modifiche dello statuto che rappresentino delle mere contromosse alle iniziative dei soci possono essere introdotte nel piano solo se effettivamente funzionali all'esecuzione del piano di risanamento.

In ogni caso, però, le modifiche allo statuto introdotte dai soci in pendenza della procedura sono immediatamente operative e, quindi, le eventuali modificazioni dello statuto disposte dal provvedimento di omologazione rappresentano mutamenti dello statuto vigente. Ciò è particolarmente importante, perché l'introduzione di talune modifiche produce, secondo le disposizioni del Codice della crisi, l'attribuzione ai soci dissenzienti del potere di recedere dalla società.

Il tema è, com'è evidente, particolarmente delicato.

L'art. 116, comma 5, CCII ha introdotto limitazioni all'esercizio del diritto di recesso al chiaro fine di evitare che la società in concordato debba anche sopportare i costi della liquidazione della quota del socio da corrispondere in prededuzione: tuttavia queste limitazioni, considerata la natura assolutamente eccezionale della norma, operano esclusivamente con riferimento alle delibere di trasformazione, fusione o scissione (le sole richiamate dall'art. 116, comma 1, CCII) e non per tutte le altre ipotesi di recesso pure contemplate variamente dal Codice civile.

In particolare, l'art. 2437 c.c. consente il recesso, tra l'altro, in ipotesi di eliminazione di una o più cause di recesso previste dalla legge o dallo statuto, la modifica dei criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso, modificazioni dello statuto concernenti diritti di voto o di partecipazione, nonché, salvo che lo statuto non disponga diversamente, l'introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni; per le società a responsabilità limitata, come già ricordato, è previsto altresì il recesso in caso di soppressione del diritto di opzione a favore del socio che non ha approvato la relativa delibera.

Dunque, nei casi in cui fosse stato considerato ammissibile ed omologato il piano che prevedesse modifiche statutarie incidenti sui diritti indicati dall'art. 2437 c.c. (sia nel caso che modificassero lo statuto originario ovvero quello risultante da cambiamenti approvati nel corso della procedura), sorgerebbe il diritto al recesso ed anche il diritto a conseguire un importo determinato ai sensi dell'art. 2437-ter c.c. da pagarsi in prededuzione in applicazione dell'art. 6, lett. d), CCII.

Il diritto di recesso competerebbe, però, ai soli soci dissenzienti rispetto alle modifiche; nella normalità dei casi il dissenso si manifesta attraverso un voto contrario nell'assemblea che dispone la modifica statutaria; nell'ipotesi, invece, contemplata dalle disposizioni concorsuali, il dissenso va riferito al voto contrario espresso dai soci rispetto alla proposta, secondo quanto previsto dall'art. 120-ter CCII.

A ben guardare si tratta di un ulteriore ed opportuno contrappeso rispetto all'esuberante potere concesso dall'art. 120-bis agli amministratori, ma che può allo stesso tempo rappresentare una poison pill per le sorti del concordato in continuità diretta (perché per le ipotesi di continuità indiretta e di concordato in liquidazione il pagamento dei soci è assorbito nella procedura di liquidazione della società che consegue necessariamente alla cessione  del patrimonio o al trasferimento dell'azienda, senza alcun impatto sulle finanze del concordato), se l'entità degli importi da versare ai soci in conformità alle regole civilistiche risulti significativo.

Le società di persone

Una trattazione distinta meritano le società di persone.

Come già anticipato, il Codice della crisi sembra avere quasi completamente trascurato le società di persone che pure rappresentano una significativa realtà nel panorama imprenditoriale del nostro Paese.

Le norme in precedenza illustrate, modellate sul tipo della società per azioni (forse anche più che sul modello delle società a responsabilità limitata) non sono facilmente declinabili in relazione alle società di persone. Ad esempio, l'applicazione pedissequa della regola per cui l'organo amministrativo può procedere ad una qualsiasi modificazione dei patti sociali appare ostacolata dalla circostanza che nelle società di persone (con la sola eccezione delle operazioni di trasformazione, fusione e scissione per le quali è ammessa la delibera maggioritaria) le modifiche possono essere disposte solo all'unanimità (salvo diverse pattuizioni) e non è conseguentemente previsto il diritto di recesso in caso di mutamenti non voluti dei patti sociali.

Orbene, se è ragionevole pensare che le norme concorsuali abbiano la prevalenza su quelle che regolano ordinariamente la vita sociale, vi sono delle modifiche che non possono in nessun caso essere disposte dagli amministratori; si pensi alle ipotesi di trasformazioni, fusioni e scissioni che determinano l'assunzione della personale illimitata responsabilità per le obbligazioni sociali, che necessitano inderogabilmente dell'assenso dell'interessato. Probabilmente ammissibili sono, invece, quelle modifiche (specialmente in tema di amministrazione) che sono concretamente destinate a favorire l'attuazione del piano e che, quindi, risultano nella sostanza pur sempre favorevoli ai soci (se illimitatamente responsabili) in ragione dell'effetto esdebitatorio che ha sulla loro posizione l'omologazione della proposta.

Destinate poi ad operare anche durante la procedura sono, però, le regole che disciplinano lo scioglimento del rapporto limitatamente ad un socio. In questo caso il diritto al pagamento della quota (che è un'obbligazione sociale) entro sei mesi dal verificarsi dell'evento, grava in prededuzione sulle casse sociali trattandosi di obbligazione funzionale al mantenimento della continuità (mentre non determina il sorgere immediato dell'obbligo di corresponsione nel concordato liquidatorio, nel quale la questione va risolta nell'ambito della più vasta liquidazione societaria all'esito della procedura).

L'esigenza da cui è stata ispirata l'introduzione degli artt. 120-bis - 120-quinquies CCII, ovvero il bilanciamento degli interessi contrapposti dei soci e dei creditori, non trova, dunque, esclusiva risposta nella disciplina concorsuale (che, anzi, predispone strumenti oggettivamente poco efficaci e piuttosto onerosi), ma soprattutto nelle ordinarie norme del diritto commerciale che consentono ai soci, comunque, di intervenire attivamente nella predisposizione degli strumenti più utili al recupero di efficienza e redditività della società debitrice, permettendo di conformare la proposta formulata dagli amministratori alle aspettative dei soci ed anche di predisporre adeguate tutele rispetto a decisioni amministrative indirizzate a scopi diversi che non il buon fine della procedura.  

Ovviamente rimane ferma la necessità che sulle scelte in concreto operate dai soci, in appoggio od in contrasto con le scelte degli amministratori, intervenga l'apprezzamento dei creditori, che devono pur sempre approvare la proposta di concordato formulata complessivamente dalla debitrice, ma è importante sottolineare che la conferma della disponibilità dei soci a partecipare attivamente alle sorti della società, favorito dall'assunzione di diverse delibere, rappresenta un potente strumento di successo del risanamento, che è certamente interesse dei creditori agevolare.

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