Naspi e trasferimento del lavoratore: in caso di rifiuto, le conseguenti dimissioni involontarie consentono l’accesso alla prestazione di sostegno al reddito

06 Dicembre 2023

Il contributo analizza una recente decisione con cui il Tribunale di Torino ha stabilito che il provvedimento datoriale con cui il datore di lavoro dispone il trasferimento del lavoratore a una sede aziendale ubicata a oltre 50 km dalla sua residenza  e/o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici costituisce una notevole modifica delle condizioni dell'impiego, con la conseguenza che l'eventuale decisione del lavoratore di dimettersi o di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro integra una ipotesi di perdita involontaria del lavoro, con conseguente diritto a percepire la Naspi. In questo modo il Tribunale di Torino, da un lato, respinge la prassi INPS secondo cui il lavoratore che si dimette per giusta causa deve dimostrare, per ottenere la Naspi, di volersi difendere in giudizio e, dall'altro, pare prospettare la possibilità di accesso all'indennità di disoccupazione in tutte le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro per volontà del dipendente conseguenti al trasferimento.

Massima

L'indennità di disoccupazione Naspi spetta in tutte le ipotesi in cui il lavoratore decide di cessare il rapporto di lavoro a causa di notevoli variazioni delle condizioni di lavoro disposte dal datore di lavoro e, dunque, in caso di trasferimento a una sede aziendale ubicata a oltre 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici, la Naspi spetta sia in caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sia in caso di dimissioni per giusta causa, restando esclusa, in quest'ultima ipotesi, la necessità che il lavoratore provi l'illegittimità del trasferimento.

Il caso

il rifiuto dell'Inps di riconoscere la Naspi in caso di dimissioni successive al trasferimento

La decisione assunta dal Tribunale di Torino trae origine dal contenzioso insorto tra una lavoratrice e l'INPS con riferimento al diritto della prima a percepire l'indennità di disoccupazione Naspi introdotta dagli artt. 1 e ss. del D.lgs. 22/2015.

In particolare, la lavoratrice aveva deciso di dimettersi per giusta causa dal rapporto di lavoro dopo aver ricevuto dal datore di lavoro la comunicazione di trasferimento dall'unità produttiva di Torino a quella di Trieste. Ritenendo di non poter dare seguito alla modifica della sede di lavoro disposta dal datore di lavoro la lavoratrice si era dimessa per giusta causa e aveva, dunque, presentato domanda di accesso alla Naspi. Domanda, tuttavia, rigettata dall'INPS in data 11 maggio 2022 con la seguente motivazione: “la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni non dà diritto alla concessione del trattamento in oggetto” e, successivamente, in sede di riesame, con la seguente ulteriore motivazione: “in caso di trasferimento a più di 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in più di 80 minuti con i mezzi pubblici, la cessazione deve avvenire per risoluzione consensuale per poter accedere alla Naspi. In caso di dimissioni giusta causa è necessario che il lavoratore provi che il trasferimento non sia sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.

Di fronte al diniego dell'INPS la lavoratrice decideva, dunque, di adire il Tribunale di Torino al fine di accertare il proprio diritto ad accedere alla prestazione di sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria.

Le questioni

Il diritto alla Naspi in caso di dimissioni successive al trasferimento

Le questioni giuridiche poste al vaglio del Tribunale piemontese sono, a ben vedere, due.

Innanzitutto è pacifico che, nel caso di specie, la lavoratrice si è dimessa non già con dimissioni volontarie ma con dimissioni per giusta causa che, per espressa previsione normativa, danno diritto all'indennità di disoccupazione Naspi. L'art. 1, comma 2, del D.lgs. 22/2015 dispone, infatti, che “La NASpI è riconosciuta anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dall'articolo 1, comma 40, della legge n. 92 del 2012”.

Occorre, dunque, chiedersi se è corretto, da parte dell'INPS, richiedere, in caso di dimissioni per giusta causa del lavoratore, ai fini del riconoscimento della Naspi, un requisito ulteriore, ossia, come precisato dall'Istituto in sede di riesame “che il lavoratore provi che il trasferimento non sia sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Come abbiamo visto, infatti, la disposizione normativa si limita a prevedere il diritto alla Naspi anche ai lavoratori che rassegnano le dimissioni per giusta causa, senza richiedere alcun onere di provare la reale sussistenza della giusta causa di dimissioni.

La questione nasce, in effetti, da un orientamento diffusosi nella prassi Inps secondo il quale “in presenza di dimissioni che il lavoratore asserisce avvenute per giusta causa, a seguito di trasferimento ad altra sede dell'azienda è ammesso l'accesso alla prestazione NASpI a condizione che il trasferimento non sia sorretto da “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” previste dall'art.2103 c.c.”. Secondo tale orientamento, dunque, “Qualora, pertanto, ricorra tale fattispecie … se il lavoratore dichiara che si è dimesso per giusta causa dovrà corredare la domanda con una documentazione (dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui agli articoli 38 e 47 del D.P.R n. 445/2000) da cui risulti almeno la sua volontà di “difendersi in giudizio” nei confronti del comportamento illecito del datore di lavoro (allegazione di diffide, esposti, denunce, citazioni, ricorsi d'urgenza ex articolo 700 c.p.c., sentenze ecc. contro il datore di lavoro, nonché ogni altro documento idoneo), impegnandosi a comunicare l'esito della controversia giudiziale o extragiudiziale” concludendo che “Laddove l'esito della lite dovesse escludere la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, si dovrà procedere al recupero di quanto pagato a titolo di indennità di disoccupazione, così come avviene nel caso di reintegra del lavoratore nel posto di lavoro successiva a un licenziamento illegittimo che ha dato luogo al pagamento dell'indennità di disoccupazione” (cfr. INPS, Messaggio 26 gennaio 2018, n.369 che richiama, sul punto, Circolare INPS n. 163 del 2003).

La seconda questione giuridica è la seguente: a fronte di un trasferimento a una sede ubicata a oltre 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici il dipendente ha diritto alla Naspi solo se risolve consensualmente il rapporto di lavoro o anche se si dimette?

Le soluzioni giuridiche

Il diritto alla Naspi in ogni ipotesi di notevole variazione delle condizioni di impiego

Il Tribunale di Torino accerta il diritto della lavoratrice a percepire la Naspi sulla base di una serie di argomentazioni.

Innanzitutto, il giudice –  richiamando quanto stabilito dall'INPS nel messaggio INPS n. 369 del 26 gennaio 2018 con riferimento alla risoluzione consensuale per rifiuto del lavoratore di accettare il trasferimento a una sede ubicata a oltre 50 km dalla sua residenza e/o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici – evidenzia che, nella fattispecie posta al suo vaglio, al fine di accertare la sussistenza del requisito della perdita involontaria del lavoro, occorre verificare se la scelta di dimettersi sia frutto di una decisione spontanea e volontaria della lavoratrice, ovvero sia stata indotta dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro conseguenti al trasferimento ad altra sede imposto dal datore di lavoro.

Ebbene, sul punto il Tribunale osserva che l'Inps, con riferimento all'ipotesi della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, ammette e riconosce che subire un trasferimento ad altra sede distante oltre 50 km dalla sede abituale di lavoro o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici, impatti in misura rilevante sulle condizioni di vita personali, lavorative e familiari del lavoratore a tal punto da rendere la decisione di interrompere il rapporto di lavoro non volontaria. In questa ipotesi l'adesione del lavoratore alla proposta risolutiva del datore di lavoro è equiparata alle dimissioni per giusta causa come fosse intervenuta in presenza di una giusta causa di recesso. Per le medesime ragioni, secondo il giudice, la decisione del lavoratore di dimettersi dopo aver subito un trasferimento di tale natura, a prescindere dalla legittimità o meno della scelta organizzativa datoriale, deve ritenersi una scelta imputabile a terzi, non volontaria ed a cui consegue il diritto di percepire l'indennità NASPI.

Il giudice respinge, dunque, l'argomento formalistico secondo cui la Naspi spetterebbe solo se la cessazione del rapporto di lavoro è determinata dalla risoluzione consensuale e sarebbe, invece, esclusa quando l'effetto estintivo del rapporto deriva dalle dimissioni del lavoratore. Secondo il Tribunale, infatti, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, non essendoci alcuna differenza concettuale tra la dichiarazione di volontà con cui il lavoratore pone unilateralmente termine al rapporto di lavoro e la dichiarazione di volontà che confluisce, unitamente ad analoga dichiarazione del datore di lavoro, nell'accordo oggetto di risoluzione consensuale.

Osservazioni

La sostanziale identità tra dimissioni e risoluzione consensuale

La decisione assunta dal Tribunale di Torino appare corretta per un duplice ordine di ragioni.

Innanzitutto, nel caso di specie, la lavoratrice si è dimessa per giusta causa e ciò è di per sé sufficiente a determinate il diritto alla Naspi anche a prescindere dal fatto che la scelta era stata indotta dal trasferimento a una sede di lavoro ubicata a oltre 50 km dalla residenza della ricorrente. L'art. 3, comma 2, del D.lgs. 22/2015, infatti, stabilisce in modo inequivocabile che la Naspi spetta ai lavoratori che rassegnano le dimissioni per giusta causa e, alla luce del canone ermeneutico letterale, che riveste il primato nell'interpretazione della legge, non appare corretto porre a carico del lavoratore ulteriori oneri di allegazione circa la volontà di difendersi in giudizio o sulla sussistenza della giusta causa di dimissioni. L'Inps potrebbe, semmai, avere diritto alla ripetizione della prestazione erogata se venisse meno, ex post, il presupposto per cui è stata riconosciuta, ossia, se un giudice dovesse dichiarare insussistente la giusta causa di dimissioni.

Ma vi è di più. La decisione in commento appare prefigurare la possibilità di concedere la Naspi anche in caso di dimissioni volontarie determinate dal rifiuto del lavoratore di dare seguito al trasferimento ad altra sede dell'azienda distante più di 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici. Anche in questo caso, infatti, la decisione del lavoratore sarebbe il frutto di una notevole modifica delle condizioni di impiego e sarebbe, dunque, sussumibile nel concetto di perdita involontaria dell'occupazione.

Riferimenti bibliografici

P. Cingolo, Sussiste sempre il diritto alla Naspi in caso di dimissioni connesse al rifiuto di trasferimento in altra sede ubicata ad oltre 50 km dalla propria residenza, in Rivista Labor, 3 Agosto 2023.

F. Belmonte, Il lavoratore che si dimette per giusta causa, in conseguenza ad un provvedimento di trasferimento in altra sede distante più di 50 km dalla propria residenza, ha diritto alla NASpI, senza dover provare l'illegittimità del provvedimento datoriale, in lav. prev. oggi, 23 luglio 2023.

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