Licenziamento per motivo “oggettivo” a seguito di rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell’orario di lavoro: il recente formante giurisprudenziale

06 Dicembre 2023

Il focus si propone di offrire una prima valutazione d'insieme di tre recenti ordinanze della Corte di cassazione, tutte inerenti allo specifico caso del licenziamento per motivo oggettivo, intimato a seguito del rifiuto di modificare l'orario di lavoro.

Considerato anche che, nelle pronunce in commento, vengono affrontate le diverse fattispecie del passaggio da tempopieno” a tempo “parziale” e viceversa nonché, in una di queste, la richiesta del datore di lavoro di variare la sola collocazione oraria del part-time in origine convenuto, si tenterà di evidenziare i tratti comuni dei principi da queste espressi, i quali sembrano deporre nel senso di un restringimento del potere datoriale di recesso, mediante un aggravamento delle ragioni produttive-organizzative e dell'obbligo di repêchage legittimanti lo stesso.

Orario di lavoro e consenso del lavoratore

L'esigenza di uno spaccato giurisprudenziale in tema di licenziamento per “motivo oggettivo”, anche nell'evenienza del rifiuto del lavoratore a trasformare il rapporto, da una esecuzione c.d. full-time della prestazione, a una part-time (e viceversa o, come si avrà modo di vedere, anche di modificare l'articolazione della stessa), sembra testimoniare la natura effettivamente “frammentaria” della fattispecie ex art. 3 l. 15 luglio 1966, n. 604 (così Trib. Ravenna, 7 gennaio 2021, R.G. 578/2020), la quale, specialmente in ragione di uno dei suoi elementi costitutivi, l'obbligo di repêchage (così come inteso dalle più prossima giurisprudenza delle Alte Corti; v., su questa Rivista, F. Avanzi, L'obbligo di repêchage nel licenziamento per “motivo oggettivo”: quale tutela per il lavoratore?), pare sempre più destinata - agli occhi dell'operatore di diritto - a una perpetua evoluzione di significato, con tutt'altro che infrequente necessità di “rimodularne” (con questa espressione, v. infra Cass., 9 maggio 2023, n. 12244) componenti e correlati oneri probatori, in funzione dei tratti peculiari afferenti al caso concreto, di volta in volta affrontato.

Tanto è vero, che la lettura - e riflessione - combinata di tre recenti ordinanze della Cassazione (tutte del 2023, ma con differenti estensori) e delle quali si propone il commento, sembra proprio mettere all'evidenza come, nella specifica situazione di esigenze d'impresa, “a monte”, implicanti variazioni dell'orario lavorativo, opposte dai lavoratori, “a valle”, le apparentemente consolidate direttrici giurisprudenziali in tema di ragioni organizzative/produttive, comprensive dell'onere di “ripescaggio” e legittimanti il recesso, siano state, in effetti, destinatarie di tutt'altro che irrilevanti “aggiustamenti”.

Una rinnovata attività interpretativa operata dal Supremo Collegio che, a bene vedere, fra le righe degli iter motivazionali, sembra anche portare alla luce una nient'affatto trascurabile questione di fondo, proprio inerente alla ratio “composita” della disciplina sul lavoro a tempoparziale” (oggi, artt. da 4 a 12 d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81).

Infatti, se, da un lato, la difficoltà a gestire questa caratterizzata casistica di estromissione, discende attualmente e con certezza, dagli artt. 6, comma 8 e 8, comma 1 del c.d. “T.U. dei contratti”, i quali prevedono che il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell'orario di lavoro ovvero di trasformare il proprio rapporto da tempopieno” a tempo “parziale” e viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento, dall'altro, è altresì vero che tali disposizioni, rientranti anche nella normazione del dirittoderivato” dell'Unione Europea (v. clausola 5, punto 2, Accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, Direttiva 97/81/CE), è stata dalla Corte di Giustizia interpretata nel senso che la medesima «non impone agli Stati membri di adottare una normativa che subordini al consenso del lavoratore la trasformazione del suo contratto di lavoro, [essendo] volta unicamente ad escludere che l'opposizione di un lavoratore a una simile trasformazione del proprio contratto di lavoro possa costituire l'unico motivo del suo licenziamento, in assenza di altre ragioni obiettive» (Cfr. CGUE, 15 ottobre 2014, causa C-221/13).

Sicché, la forza cogente del “consenso” e, cioè, la non mutabilità, unilaterale, dell'orario di lavoro originariamente convenuto fra le parti (ex art. 5 d.lgs. 15 giugno 2015 cit.), ritenuta dalla Cassazione quale “centro” focale del ragionamento su questa species di licenziamento, è da ricercare altrove e, precisamente, nella concezioneinterna” - e anteriore rispetto al diritto comunitario - del rapporto subordinato a temporidotto”, emergente fin dalla formulazione dell'art. 5 d.l. 30 ottobre 1984, n. 726 e dalla sua interpretazione avvenuta per mano della giurisprudenza.

Invero, ad accompagnare un testuale divieto, salva diversa previsione del contratto collettivo, di prestazione c.d. “supplementare” (v. comma 4, art. 5 cit.), la magistratura del lavoro non ha mancato, fin dal principio, di affermare l'essenzialità (di recente, Cass., 31 marzo 2021, n. 8958), per il lavoratore a part-time, di programmare il proprio tempo libero, in primo luogo, facendo leva sul bisogno di consentirgli un “secondo” impiego utile al raggiungimento di una retribuzionesufficiente” (art. 36 Cost.) e giustificandone, in tale guisa, «il carattere necessariamente bilaterale della volontà in ordine a [modifiche di] collocazione della prestazione lavorativa in un determinato orario» rispondente a esigenze del datore di lavoro (Corte Cost. 11 maggio 1992, n. 210).

A ogni modo, una lettura combinata delle tre pronunce oggetto del presente contributo, potrà certamente favorire una miglior comprensione di quanto appena detto.

Cass., 9 maggio 2023, n. 12244: dal full-time al part-time

Nella prima di queste, si verteva di una cessione di ramo d'azienda e, segnatamente, di un supermercato, dove all'ingresso dei tre soci “operativi”, era conseguito un'eccedenza di prestazione dei tre dipendenti, già in precedenza impiegati presso l'esercizio.

A fronte della richiesta disponibilità a una riduzione “collettiva” dell'orario di lavoro e al rifiuto di due di essi, fra cui la ricorrente, la nuova proprietà decideva per il licenziamento di quest'ultima, in quanto unica lavoratrice addetta al reparto ortofrutta, salvando, così, quelli adibiti al settore salumeria.

In tutta la fase del merito, se, da una parte, veniva riconosciuta l'illegittimità dell'intimato recesso, con condannaindennitariaex art. 8 l. 15 luglio 1966 cit., dall'altra, disattesa restava invece l'istanza di accertamento sulla natura ritorsiva del medesimo, questo in ragione del fatto che «la statuizione di illegittimità del licenziamento per assenza di un giustificato motivo oggettivo, adottata dal tribunale e non impugnata da parte datoriale, doveva essere "intesa nel corretto significato non della inesistenza di qualsivoglia motivo oggettivo (…) ma della insufficienza di detto motivo a giustificare il licenziamento», escludendo così la ricorrenza del c.d. “motivo illecito determinante, in specie coincidente con la violazione dell'art. 8, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015 cit.

Sollecitata dalla reiterata doglianza della lavoratrice, la Corte di cassazione, rigettando anch'essa il ricorso, si prodigava in una più approfondito vaglio della norma, giungendo, così, a rilevanti osservazioni di principio.

In particolare, si precisava come, per verità, la previsione di cui all'art. 8 cit., in caso di rifiuto del passaggio a tempoparziale”, non ostasse, in assoluto, alla facoltà di recesso, bensì comportasse «una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo», occorrendo la sussistenza e la dimostrazione, da parte del datore di lavoro, di «effettive esigenze economiche ed organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno, ma solo con l'orario ridotto; l'avvenuta proposta al dipendente o ai dipendenti di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e il rifiuto dei medesimi; l'esistenza di un nesso causale tra le esigenze di riduzione dell'orario e il licenziamento».

Di conseguenza, il diniego a trasformare l'orario di lavoro, salvo prova contraria a carico del dipendente estromesso (v. costante giurisprudenza in tema di c.d. “motivo ritorsivo”; ex multis Cass., 7 settembre 2022, n. 26395), in specie mancata, doveva ritenersi, in via esclusiva, quale «componente del più ampio onere di prova del datore, che comprende le ragioni economiche da cui deriva l'impossibilità di continuare a utilizzare la prestazione a tempo pieno e l'offerta del part-time rifiutata».

Cass., 23 ottobre 2023, n. 29337: dal part-time al full-time

Nella seconda delle pronunce, all'opposto, si discuteva, causa incremento dell'attività aziendale e, segnatamente, dell'acquisizione “stabile” di nuova clientela, di un'istanza datoriale di passaggio a tempopieno”.

Al rifiuto della lavoratrice, part-time 20 ore settimanali – mentre altra collega era assunta a 36 ore -, con espressa disponibilità «a svolgere al massimo e sporadicamente qualche ora di lavoro supplementare, per dedicarsi esclusivamente ai suoi clienti già assegnati», l'azienda procedeva con l'inserimento di una nuova figura full-time che, terminato il periodo del passaggio di consegne, diveniva la causa di licenziamento della medesima.

In appello, riformando la decisione di primo grado, la Corte del merito dichiarava la nullità del recesso, in quanto non comprovata l'impossibilità di ripartire tra le due contabili, già in servizio, il pacchetto complessivo clienti ovvero, in alternativa, la difficoltà a reperire, in tempi brevi, una risorsa con il necessitato orario “aggiuntivo” e che, del pari, nemmeno dimostrata era stata l'effettiva ineluttabilità del licenziamento.

Da ciò ne scaturiva che l'estromissione era da considerarsi, non tanto illegittima, bensì ritorsiva, in quanto la stessa non presentava altra spiegazione che il collegamento causale con il rifiuto opposto alla trasformazione dell'orario di lavoro (i.e. in aperta violazione dell'art. 8, comma 1 d.lgs. 15 giugno 2015 cit.).

In Cassazione però, muovendo dal medesimo «perimetro dogmatico-giuridico» (sic!) dell'ordinanza del 9 maggio, i reclami della società trovano accoglimento, con rinvio al collegio dell'appello in diversa composizione.

In particolare, secondo giudici della nomofilachia, due erano i passaggi critici della sentenza gravata.

Uno di “fatto”, ossia che, anche a voler considerare un incremento settimanale di sole sei ore aggiuntive - come emergente dalle valutazioni della fase di merito -, queste non potevano essere tutte assegnate all'altra lavoratrice, la quale, altrimenti, avrebbe conseguito un orario eccedente il limite delle 40 ore settimanali e che, a ogni modo, le rimanenti due, stante la flessibilità del tutto occasionale offerta dalla dipendente estromessa, non avrebbero potuto, presso la medesima, trovare “stabile” allocazione.

Uno di “diritto” e decisamente più utile alla fattispecie indagata dal presente contributo, inerente all'errore asseritamente incorso dalla Corte d'appello, la quale «non avrebbe dovuto sindacare la scelta imprenditoriale di sostituire il dipendente part time con uno full time, ma avrebbe dovuto verificare (ed adeguatamente motivare) se il datore di lavoro avesse dimostrato che quella era l'unica soluzione organizzativa possibile per fare fronte al nuovo andamento economico dell'azienda, in una situazione in cui il recesso di un lavoratore part time, che si sia rifiutato di modificare il proprio orario di lavoro, si manifesta appunto quale extrema ratio di soluzione del problema organizzativo».

Cass., 30 ottobre 2023, n. 30093: la variazione della collocazione oraria

A chiudere il cerchio, la terza ordinanza si occupa, invece, di un licenziamento a conseguenza del rifiuto di modificare l'articolazione della prestazione originariamente convenuta ossia, rimanendo entro il medesimo monte ore settimanale, di variare la sua giornaliera collocazione.

Nella cognizione del merito, in ragione di due essenziali argomentazioni, il ricorso della lavoratrice non trovava accoglimento: da una parte, veniva rilevato come la mancata accettazione della ricorrente, non rientrasse fra le fattispecie normativamente “protette”, essendo che l'art. 3, comma 11, d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 - ratione temporis vigente - concerneva, in via esclusiva, il rifiuto a sottoscrivere c.d. “clausole elastiche” e non il differente caso di mutamenti “definitivi” della distribuzione oraria; dall'altra e comunque, che il divieto di recesso, secondo l'avviso dei giudici d'appello, riguardasse unicamente il motivo c.d. “soggettivo” e non anche quello fondato, come in specie, su di una realmente avvenuta riorganizzazione aziendale.

E tuttavia, pur muovendo dalla incontestata effettività della ragione addotta - i.e. nuovi orari applicati in azienda -, la Cassazione riformava, con rinvio, la sentenza gravata, cogliendo pure l'occasione, anche qui, per offrire riflessioni, rispetto al caso discusso, di più ampio respiro.

A cominciare dal fatto che, pur in assenza di un dato normativo espresso, un'interpretazione logico-sistematica della disciplina del lavoro a tempo “parziale” (Cfr. anche in § “Premessa”), anche confortata dall'evoluzione legislativa in materia (v. art. 6, comma 8, d.lgs. 15 giugno 2015, cit.; sul valore esegetico dello ius superveniens, Cass. sez. un., 28 giugno 2022, n. 20632), non poteva che condurre ad affermare l'operatività della proibizione di recesso, «a fortiori, per la proposta di diversa distribuzione totale dell'orario di lavoro, [dal] momento che sarebbe irragionevole ipotizzare il contrario, ovvero che sia protetto il rifiuto alla stipula di una clausola flessibile, elastica o alla richiesta di lavoro supplementare e non lo sia invece quello che concerne la variazione totale dell'orario di lavoro part time».

Da secondo e riprendendo, nella sostanza, il filo delle precedenti ordinanze, che, pur rientrando il licenziamento per g.m.o. nell'oggetto del divieto - così smentendo l'estemporaneo convincimento dei giudici di seconde cure -, questo non poteva anche significare la negazione, in assoluto, dell'eventuale insorgenza del giustificato motivo, provocato dall'opposizione della lavoratrice alla variazione dell'orario professionale; ma, a contrario, veniva anche evidenziato come nemmeno le sopravvenute esigenze organizzative sottostanti all'istanza di modifica, potevano rilevare, «di per sé, come ragione oggettiva - esclusiva ed autosufficiente - di licenziamento, perché questo significherebbe cancellare di fatto la protezione legale che consente al lavoratore di opporre un legittimo rifiuto alla proposta datoriale di cambiamento dell'orario di lavoro, rifiuto che non può trasformarsi - con aperta contraddizione della normativa - in automatico presupposto del suo licenziamento».

Ragion per cui, facendo leva sulla consueta incombenza - quale elemento costitutivo della fattispecie ex art. 3 l. 15 luglio 1966 cit. – di adoperarsi nell'obbligo di repêchage nonché invocando i generali criteri di “correttezza” e “buona fede” (come noto, “strumento”, nelle mani del giudicante, per controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi; Cfr. Cass., 2 agosto 2018, n. 20458), quale «utile parametro per un controllo sulla discrezionalità gestionale del datore di lavoro», il punto di caduta del Supremo Collegio stava nel gravare il titolare del rapporto di un “severoonere probatorio, consistente nella dimostrazione, «non solo [del]la sussistenza delle esigenze economico-organizzative, in base alle quali la prestazione oraria precedente non può essere più mantenuta, nonché il nesso causale tra le predette esigenze e il licenziamento [ma, altresì, che] non esistano ulteriori soluzioni occupazionali (o altre alternative orarie) rispetto a quelle prospettate al lavoratore e poste alla base del licenziamento».

Cosicché, ritenendo come la decisione imprenditoriale dovesse, giocoforza, confrontarsi con la ratio sottesa alla rigorosa disciplina del part-time ossia le personali necessità organizzative e di programmazione della lavoratrice a orario “ridotto”, la Corte di Cassazione stabiliva che il recesso sub iudice non fosse conforme a siffatti principi, «posto che nulla si dice nella sentenza impugnata in ordine al fatto che, oltre a non potersi mantenere lo schema dell'orario precedente, non esistesse un altro orario diverso che potesse essere offerto come alternativa al licenziamento [,risultando, piuttosto,] l'esistenza di flessibilità e di alternative occupazionali, atteso che, dopo la proposta di modifica non accettata e posta alla base del licenziamento, le parti avevano tra loro concordato, nel mese precedente il licenziamento, un orario di lavoro diverso da quello originario, con mantenimento del rapporto di lavoro».

Osservazioni conclusive: una prima visione d'insieme

Volendo prodigarsi in qualche osservazione conclusiva, si potrebbe ben dire che, anche solo una prima visione d'insieme delle tre ordinanze supra richiamate - a prescindere dagli esiti delle stesse - , sembra utile a fornire spunti di interesse e utilità particolare all'operatore pratico di diritto.

Anzitutto perché, a conferma di quanto detto in premessa, parrebbe trovarsi al cospetto di una vera e propria immutazione - l'ennesima - , di matrice giurisprudenziale, della fattispecie ex art. 3 l. 15 luglio 1966 cit., tanto che, in un passaggio della pronuncia del 30 ottobre u.s., si dice, espressamente, che solo qualora «il licenziamento del lavoratore part-time venga intimato per una ragione tecnica organizzativa diversa da quella della variazione dell'orario di lavoro, [potrà valere] la nozione generale del g.m.o. per come elaborata dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte».

Di contro, la rimodulazione operata dai giudici di legittimità, per lo specifico caso dell'opposizione del dipendente a variare l'orario di lavoro, sembra andare, almeno nelle intenzioni, verso un restringimento del potere di recesso datoriale, quale estrema espressione di libera iniziativa economica dell'impresa (art. 41 Cost.): da una parte, circoscrivendo il precedente sdoganamento (v. Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201 e successive) delle ragioni produttive-organizzative legittimanti il recesso, aggravandone la valutazione d'incidenza verso la posizione del lavoratore, per il tramite di “aggettivazioni” come «tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno», «da cui deriva l'impossibilità di continuare a utilizzare la prestazione a tempo pieno» oppure, ancora, dovendo essa presentarsi quale «unica soluzione organizzativa possibile per fare fronte al nuovo andamento economico dell'azienda»; dall'altra, ma in evidente connessione con quanto appena detto, un ampiamento dell'onere di “ripescaggio” gravante sul datore di lavoro che, muovendo dal risalente concetto della extrema ratio, da applicare al licenziamento se visto quale strumento per dirimere problematiche di natura organizzativa, dovrà fare in conti, non solo con un, tuttora, incerto perimetro di ricerca delle mansioni da potersi considerare come “equivalenti” (infatti, rimanendo nell'ambito della giurisprudenza di Cassazione, se è vero che sembra ancora dominante, nonostante il novellato art. 2103 c.c., il limite rappresentato dalle competenze professionali del lavoratore, equivalenza c.d. “sostanziale”, è altresì vero che, recentissimi approdi, sembrano invece consentire un'apertura anche verso il criterio di equivalenza c.d. “formale”; v. rispettivamente, Cass., 23 febbraio 2022, n. 5981 e Cass. 13 novembre 2023, n. 31561), ma anche col vincolo di verificare, fornendone la prova, che «non esistano ulteriori soluzioni occupazionali (o altre alternative orarie) rispetto a quelle prospettate al lavoratore e poste alla base del licenziamento».

Dunque, a tutti gli effetti, si tratterebbe di un obbligo datoriale, a premessa del recesso, “nuovo” e puntuale, ma che, va detto, in una prospettiva sistematica, esporrebbe il fianco a facili censure, non solo avuto riguardo allo specifico dato normativo di cui all'art. 30, comma 1, l. 4 novembre 2010, n. 183, ma anche e soprattutto, al più generale principio costituzionale, secondo cui le possibili limitazioni all'esercizio d'impresa «devono, innanzi tutto, avere una base legale, stante la regola della riserva di legge nel campo delle private libertà nella materia economica, comprensive della libertà di iniziativa» (Corte cost., 9 maggio 2022, n. 113 e giurisprudenza ivi richiamata).

Un principio di legalità che, tuttavia, in ambito della regolazione del potere di recesso, anche solo osservando l'indiscutibile genesi giurisprudenziale del repêchage, è risultato, da sempre, marcato da labili confini, questo in ragione della nota e difficilmente opinabile costatazione del «forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – [che] qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele» (Corte cost., 8 novembre 2018, n. 194).

In definitiva, più di un elemento sembra condurre alla conclusione che, in tema di esigenze aziendali comportanti la modifica dell'orario lavorativo, qualora vi sia l'opposizione dei dipendenti interessati, il pratico del diritto dovrà adoperarsi in attente valutazioni preliminari, dovendo, ad avviso di chi scrive, oggi, misurarsi con un “dedicatoformante giurisprudenziale, concernente i presupposti di legittimità del recesso per motivooggettivo” e implicante, anche in questo caso (v. per analogia, i particolari crismi giurisprudenziali elaborati per il licenziamento del lavoratore somministrato; Cass., 18 ottobre 2019, n. 26607), un onere della prova esplicitamente calibrato sulle peculiarità dello specifico rapporto.

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