La reductio ad absurdum come metodo di interpretazione del Codice della Crisi?

06 Dicembre 2023

L’articolo fa luce su alcune incongruenze logiche rinvenibili nel CCII, con particolare riferimento alle condizioni per l’omologazione del concordato preventivo (anche in caso di attribuzioni ai soci c.d. “anteriori”). L’autore si sofferma, a tal proposito, sulla nozione di “classe dissenziente” ai sensi dell’art. 112 CCII e sulla interpretazione dell’art. 120-quater CCII.

Premessa

Il titolo di questo contributo è volutamente provocatorio, ma mi sembra purtroppo adatto a richiamare l’attenzione dei nostri “venticinque lettori” sulle gravi aporie che sfortunatamente connotano alcuni passaggi chiave del Codice della crisi, la cui mancata soluzione porterà al naufragio di molte procedure faticosamente e dispendiosamente costruite, con gravi danni al tessuto imprenditoriale e occupazionale nazionale.

La reductio ad absurdum è un metodo argomentativo che nega la tesi che lo scrittore intende sostenere e sviluppa fino in fondo le conseguenze della tesi opposta, per farne emergere l’assurdità, e in tal modo corroborare la propria tesi, inizialmente negata.

Si tratta di un metodo antichissimo, elaborato, come si potrà facilmente riscontrare dall’odierna fonte del sapere, Wikipedia, dal grande matematico Euclide, un uomo vissuto tra il IV e il III secolo avanti Cristo, periodo in cui non esistevano i computer e gli Iphone, ma in cui, evidentemente, la mente umana era in grado di ragionare piuttosto bene.

Sul concetto di classe dissenziente nella ristrutturazione trasversale del debito

Un tema che ricorre in snodi decisivi del procedimento di concordato in continuità aziendale, che è il modo principale con il quale si possono salvare le imprese nel nostro ordinamento giuridico, e che quindi dovrebbe essere interpretato in una chiave positiva e incoraggiante e non punitiva, è quello di classe dissenziente.

Potremmo parlare, ormai, di onnipotenza della classe dissenziente.

È lei, infatti, l'incubo dei debitori e dei loro consulenti.  È lei la dea capricciosa che può mobilitare le forze dello Stato contro chi si azzardi a intraprendere l'ardua impresa di salvare, senza spiaggiare sulla liquidazione giudiziale, una impresa in crisi ma risanabile.  E ciò a dispetto delle mille cautele e dei mille presidi che l'ordinamento pone perché le cose siano fatte bene e con giustizia.

Il primo snodo è quello dell'omologazione del concordato in continuità, che abbia ottenuto (i) non il consenso di tutte le classi (cosa quasi impossibile) ma o (ii) della maggioranza delle classi, di cui una privilegiata (cosa che può essere difficile) o (iii) di una minoranza di classi, tra cui una “maltrattata” – come dice una nota sentenza del Tribunale di Bergamo (Trib. Bergamo, sez. II, 11 aprile 2023, n. 65) - (cosa frequente e scandalosa, per molti commentatori).

Ebbene, secondo la tesi che vogliamo portare ad absurdum, nelle situazioni sub (ii) e (iii), per una certa interpretazione dell'art. 112, comma 2, lett. b), CCII, - purtroppo favorita dalla lettera della legge - basterebbe che vi fosse una classe dissenziente, una qualunque classe dissenziente, che riceva complessivamente meno di quanto ricevano altre classi di pari rango per far saltare il banco e impedire l'omologazione.  Con il che, noi assisteremmo a un clamoroso arretramento delle condizioni di omologazione del concordato in continuità nel Codice della crisi rispetto a quanto accadeva nel precedente ordinamento, dove valeva la regola della maggioranza dei crediti e delle classi, con in più il potere di cram down del Giudice per i crediti tributari e contributivi.

È possibile?  È questa una interpretazione che ha senso, alla luce dello spirito della disciplina ispirata dalla Direttiva Insolvency, così proclive verso il salvataggio dell'impresa, quando esso sia fattibile?

In pratica, stiamo ammettendo che una classe di creditori chirografari, che in uno scenario liquidatorio non prenderebbe niente, e che addirittura niente prenderebbe neanche se la liquidazione producesse le stesse risorse della continuità, possa capricciosamente fare saltare una procedura che è voluta dalla maggioranza delle classi, tra cui una privilegiata, o da una minoranza, in cui però vi è una classe favorevole “maltrattata”, cioè che riceve dalla continuità meno di quanto le spetterebbe secondo la regola della priorità assoluta per effetto della regola della priorità relativa.

Se questa è l'interpretazione corretta, allora, diciamolo chiaro, nessuno si azzarderà a distinguere, nell'ambito dei chirografi, tra classe e classe, e si farà una classe unica, o si faranno più classi con la medesima percentuale di pagamento.

Il che è non solo contrario alla prassi diffusa, anzi diffusissima, ma anche al precetto di legge, cioè a quell'art. 85 del CCII che recita “Il piano può prevedere la suddivisione dei creditori in classi con trattamenti differenziali tra creditori appartenenti alla classi diverse”.

È chiaro che questa è una conclusione assurda.

Questa classe dissenziente, capricciosa e potente come Tiche, la dea greca della fortuna, scende dall'Olimpo in cui la stiamo mettendo, aggiungendole un solo aggettivo: interessata.

Per meritare questo tremendo potere, la classe chirografaria che prende meno dei suoi pari grado deve essere interessata dal piano di ristrutturazione, cioè chiamata a rinunciare a un quid di soddisfazione per effetto dell'applicazione della regola della priorità relativa rispetto a quanto gli spetterebbe applicando la regola di priorità assoluta, su tutto il risultato della continuità.  È insomma una classe che cede una parte della ricchezza che il piano in continuità le assicurerebbe se valesse la regola distributiva dell'art. 2741 c.c. 

Questa sola può essere la classe cui l'ordinamento dà il potere di vita o di morte sulla procedura che non abbia ottenuto il consenso di tutte le classi.

Non è un caso che l'art. 87 CCII, sul contenuto del piano di concordato, impone che si dichiarino le parti interessate al piano e il modo con il quale sono state suddivise in classi, e per converso quelle non interessate (lett. l), m) e n) del primo comma dell'art. 87).

D'altra parte, portando la questione su un piano più generale, quello del diritto processuale, che interesse ha un soggetto ad avviare una causa se ciò che può conseguire da essa è meno di quel che gli è già stato attribuito?

Sulla interpretazione dell'art. 120-quater, comma 1, CCII

Altro caso, decisivo, in cui bisogna ragionare per assurdo è quello del rapporto tra equity e credito, come stabilito dall'art. 120-quater CCII.

Partiamo da alcune – dovrebbero essere scontate – affermazioni.

Primo: non vi è alcun precetto che impedisca ai soci di una società di continuare a detenere la partecipazione in essa durante e dopo un procedimento di concordato in continuità.

Secondo: non vi è alcun precetto che imponga a detti soci, che la legge chiama anteriori alla domanda, di immettere nella società mezzi propri e freschi.

Terzo: è implicito nell'ordinamento (combinato disposto degli artt. 2446,2447,2482-bis, 2482-ter, 2484, comma 1, n. 4) c.c.) che la società debba uscire dalla ristrutturazione con un patrimonio netto positivo.

Quarto: è implicito nel concetto di fattibilità del piano che la società disponga di un adeguato fondo di mezzi propri per continuare ad operare e creare il quid pluris di ricchezza che nasce dalla continuità e si stacca dal quantum ricavabile dalla liquidazione giudiziale.

Quinto: la ristrutturazione è un'opera molto faticosa, delicata e impegnativa che deve avere un responsabile, un attore.  In specie nelle PMI i soggetti naturalmente candidati a farlo sono i soci anteriori, che sono coloro che si trovano direttamente implicati nella vicenda societaria e hanno un forte interesse a salvare il salvabile.  La Direttiva Insolvency mostra molto realismo nel riconoscere il valore di questo contributo (si vedano i considerando 58 e 59) e attribuisce un forte ruolo ai soci d'opera della società.

Ciò stabilito (si spera senza contrasti che non siano meramente apodittici o moralistici), veniamo alla lettura dell'art. 120-quater, comma 1,CCII

Esso si divide in due proposizioni.

La prima così recita:  “Fermo quanto previsto dall'articolo 112, se il piano prevede che il valore risultante dalla ristrutturazione sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda, il concordato, in caso di dissenso di una o più classi di creditori, può essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci.”

La seconda: “Se non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente, il concordato può essere omologato solo quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci.

Dalla lettura del primo periodo, si può evincere che le classi richiamate siano solo quelle che hanno ranghi sotto di loro, quindi normalmente le privilegiate e raramente, quando vi siano dei creditori subordinati – ad esempio soci che hanno erogato finanziamenti ex art. 2467 c.c. o in alcuni casi di emissioni di prestiti obbligazionari o di strumenti finanziari partecipativi a prevalente natura creditoria – anche le classi di creditori chirografari.

Il secondo periodo invece sembra riferirsi a quei rari casi in cui vi siano creditori subordinati, per di più senza pari grado.

La lettura dominante vuole, quindi, che il concordato in continuità che non abbia ottenuto il consenso di tutte le classi salti se una delle classi dissenzienti, qualunque sia, riceve meno delle classi di pari grado e delle classi inferiori aggiungendo a queste la quota parte dell'equity dei soci anteriori che competerebbe loro in via proporzionale, come determinato ai sensi del secondo comma dell'art. 120-quater CCII. Vuole anche che, se vi sono classi subordinate dissenzienti prive di pari rango, esse debbano ottenere di più di quanto ottengono i soci anteriori.

Ma che succede se non vi sono crediti subordinati?  I creditori chirografari che non hanno classi inferiori e hanno pari grado non rientrano nella definizione dell'ultimo periodo; nemmeno rientrano in quella del primo periodo, che presuppone l'esistenza di classi inferiori.

Interpretata così, insomma, la norma finisce per obliterare la posizione dei creditori chirografari, nei casi, e sono i più, in cui non vi sia credito subordinato.

È possibile che il legislatore abbia voluto che la classe più colpita dalla concorrenza dell'equity sia dimenticata da questa norma?  Non mi pare che questo sia lo spirito della Direttiva Insolvency che al considerando 56 nella versione italiana così recita:  “Gli Stati membri dovrebbero poter derogare alla regola della priorità assoluta, se ad esempio si consideri giusto che i detentori di strumenti di capitale mantengano determinati interessi ai sensi del piano, nonostante che una classe di rango superiore sia obbligata ad accettare una falcidia dei suoi crediti”.

Peraltro, il secondo periodo, se fosse veramente limitato alle classi di creditori subordinati, perderebbe veramente di significato in tutti quei casi in cui tali creditori disponessero di un credito limitato in rapporto alla debitoria totale.  Pensiamo al caso di una debitoria di 100 milioni con debiti subordinati di 500 mila euro, cui sia riservata una percentuale di soddisfo del 5%, e quindi un valore assoluto di rimborso di 25 mila euro.  Presa alla lettera la disposizione significherebbe che i soci anteriori dovrebbero detenere un equity non superiore a tale soglia…  Assurdo!

Io penso che il legislatore abbia, forse per fretta redazionale, usato formule convolute e opache per indicare nel primo periodo i creditori privilegiati che tipicamente hanno ranghi inferiori e nel secondo periodo i creditori chirografari che tipicamente non hanno ranghi inferiori ma che ben possono avere ranghi pari.

E i creditori subordinati come si collocano in questo quadro?  Essi ne sono semplicemente fuori, essendo inclusi nella più generica categoria dei portatori di strumenti di capitale.  Infatti, cosa è un credito subordinato sul piano sostanziale se non una categoria dell'equity?  Essi sono ben definiti dalla Direttiva Insolvency come quei “crediti [che] hanno rango inferiore ai crediti vantati dai creditori non garantiti nel normale grado di priorità di liquidazione” (art. 9, comma 3, lett, b) della direttiva).  La norma richiamata è in qualche modo ripresa nel nostro ordinamento dall'art. 9, comma 6 che esclude dal voto la società che controlla la debitrice, sia perché in conflitto di interessi ma anche perché il suo credito può considerarsi subordinato sia ai sensi dell'art. 2467 c.c. che dell'art. 2497-quinques del c.c.

Solo in questa prospettiva si inizia a uscire dall'assurdo: il primo periodo dell'art. 120-quater riguarda i privilegiati e il secondo i chirografari.

Detto (purtroppo molto faticosamente) questo, cerchiamo di capire come possono funzionare i test voluti dalla norma. 

Anche qui tutto il problema ruota intorno alla definizione di classe dissenziente.  Prendiamo il caso di due classi di privilegiati, di pari rango, trattate differentemente.  Penso ai professionisti e agli agenti che secondo l'art. 2777, comma 1, c.c. devono andare di pari passo.  Mettiamo che ai professionisti sia riconosciuto un quid pluris rispetto agli agenti.  Se gli agenti dissentono, bisognerà verificare che la quota di equity che compete alle classi di rango inferiore non porti le stesse a ricevere di più di quanto spetta agli agenti.  E fin qui passi.  Ma se gli agenti hanno una quota di soddisfazione minore di quella dei professionisti, per forza il test darà esito negativo.  Cioè possiamo dire che ogni volta in cui vi siano classi privilegiate di pari rango, il dissenso della classe meno remunerata porterà al rigetto della ristrutturazione trasversale.  Questo anche se alla classe dissenziente competa una quota delle risorse della continuità pari o addirittura superiore a quella che le deriverebbe applicando la regola della priorità assoluta, cioè anche se la classe dissenziente non abbia affatto contribuito a finanziare l'equity.

Torniamo al punto della definizione di classe dissenziente.  Può una classe che dal concordato riceve quanto o più di quanto le competerebbe applicando la regola della priorità assoluta essere abilitata ad attivare il test?  La risposta non può che essere negativa.  Questa classe non è interessata dalla ristrutturazione e quindi non può lamentarsi di nulla.

Invece la classe di privilegiati che abbia rinunciato, in virtù della regola della priorità relativa, a una parte di soddisfazione rispetto a quanto le spetterebbe applicando la regola della priorità assoluta, a favore delle classi inferiori o delle classi di pari grado, quella, se dissenziente, scatenerà il test.  E il test avrà il senso di verificare che il suo sacrificio non sia stato troppo grande in rapporto alle classi inferiori, tra cui l'equity.  In sostanza, il test sul rispetto degli ordini dei privilegi che nell'art. 112, comma 2, CCII era limitato al confronto con i creditori inferiori, nell'art. 120-quater, quando vi siano soci anteriori, si deve estendere anche a tali portatori di equity.  Resta il fatto che se in presenza di questa classe di privilegiati vi è una classe di pari rango cui è offerto di più, il suo dissenso provoca sempre il crollo del concordato (il che indurrà prudentemente a trattare le classi di pari rango di privilegiati nel medesimo modo, ogni volta che il concordato della società veda il permanere di soci anteriori alla domanda.).

Postulando che nel secondo periodo del primo comma dell'art. 120-quater siano compresi i soli creditori chirografari (come il sottoscritto ha fatto in altro contributo su questa rivista), il senso della disposizione diventa quello di mettere a confronto quanto compete a detti creditori e quanto compete ai soci anteriori.  In buona sostanza qui il test si riduce a verificare che ai soci anteriori, compresi i titolari di crediti subordinati, non vada percentualmente più di quanto va ai creditori chirografari.  Il testo della legge è particolarmente infelice, perché non precisa che il confronto tra quanto prende la classe dissenziente e quanto prendono i soci anteriori va condotto non in assoluto ma in percentuale.  Ma non può che essere così, pena il perdere di senso della regola che non è altro che una applicazione del principio di priorità relativa.  D'altra parte, il secondo periodo è una prosecuzione del primo, che “ventila” il valore dell'equity sui crediti di rango inferiore e di pari rango.

Così, se la classe dissenziente di chirografari in questione pesa per il 5% della debitoria chirografaria, si valuterà se essa viene soddisfatta in misura superiore al 5% dell'equity dei soci anteriori.  La soluzione di volere che il confronto sia tra quanto riceve in assoluto la classe dissenziente e quanto va ai soci anteriori conduce a risultati aberranti e non ha senso alcuno, potendo la classe dissenziente rappresentare un quid molto ridotto della debitoria, e quindi ricevere una cifra del tutto incongrua rispetto a una dimensione normale e fisiologica dell'equity di una società che deve affrontare, con qualche speranza di successo, la ristrutturazione.

E anche qui la classe dissenziente deve essere interessata, cioè deve ricevere meno di quanto le spetterebbe con la regola di priorità assoluta, perché se ricevesse altrettanto o di più non avrebbe alcun interesse a verificare la convenienza della soluzione.  Non a caso il considerando 56 della Direttiva Insolvency inizia dall'affermazione che “Gli Stati membri dovrebbero poter derogare alla regola della priorità assoluta”, intendendo che ove tale regola sia rispettata il problema del rapporto con l'equity non può porsi.  Per le classi dissenzienti non interessate il baluardo contro proposte “oscene” c'è, ed è quello generale della causa concreta della procedura, che vuole che la percentuale di soddisfazione offerta sia non meramente simbolica, e fatta di “utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile”, secondo il linguaggio dell'art. 84, comma 3, CCII.

Certo che l'oscurità di questa norma è tale che rischia, alternativamente, di indurre i soci anteriori ad uscire dalla compagine – magari vendendo a familiari - per non mettere in pericolo la procedura (il che è del tutto incostituzionale, in fatto) o di provocare una inutile strage di procedure pur faticosamente arrivate al vaglio dell'omologa.

Conclusioni.  Appello al legislatore

Abbiamo toccato due temi decisivi per il successo o il fallimento del nuovo concordato in continuità: la definizione di classe dissenziente e l'interpretazione dell'art. 120-quater CCII, sui rapporti quantitativi tra soddisfazione dei creditori e equity nelle mani dei soci anteriori alla domanda.

Noi riteniamo che le classi dissenzienti che fanno scattare le verifiche di cui all'art. 112, comma 2, lett. b) CCII e di cui all'art. 120-quater, comma 1, CCII non siano tutte le classi dissenzienti, ma solo quelle interessate, vale a dire quelle classi che ricevono dal concordato complessivamente meno di quanto potrebbero ricevere se si applicasse la regola di priorità assoluta, e ciò con riferimento a tutte le risorse della procedura, pari al valore di liquidazione più il valore ad esso eccedente.

Sono queste le classi che vanno tutelate sia in rapporto agli altri creditori, che in rapporto ai soci anteriori.

Interpretare la classe dissenziente come una classe del tutto indifferenziata porta a risultati assurdi, quali quelli di fare dipendere l'esito di una procedura tanto faticosamente costruita e sorvegliata dal capriccio di una classe di creditori che grazie alla procedura prenderebbe non solo quanto o più di quanto le spetterebbe in una liquidazione giudiziale, ma anche quanto o più di quanto le spetterebbe nel concordato in questione, se si applicasse la regola della priorità assoluta.

Abbiamo poi cercato di interpretare l'art. 120-quater primo comma giungendo, sempre con il metodo della reductio ad absurdum, alla conclusione che il primo periodo riguardi i creditori che ordinariamente hanno gradi subordinati – cioè a dire i privilegiati – e il secondo periodo i creditori che ordinariamente non hanno gradi subordinati – cioè a dire i chirografari. 

Il test del primo periodo serve a verificare che le classi dissenzienti interessate di creditori privilegiati che hanno messo a disposizione parte della soddisfazione del loro credito, cioè la differenza tra quanto gli verrebbe applicando la regola di priorità assoluta invece della relativa, a favore di altri creditori di grado pari o inferiore nonché dei soci anteriori, non lo abbiano fatto in misura tale che i creditori di pari grado o inferiori prendano più, i primi, e come e più di loro i secondi, se si aggiungesse a quanto di loro spettanza la quota di equity restata ai soci anteriori, e ventilata sui crediti confrontati.  È insomma un test che intende calmierare l'esproprio di valore che la regola di priorità relativa opera a danno dei creditori privilegiati a favore dei crediti di rango pari o inferiore e dell'equity dei soci anteriori.

Il test indicato nel secondo periodo invece, in applicazione del principio di priorità relativa nei rapporti tra credito chirografario e classi di portatori di equity, vuole verificare che dal confronto tra una classe dissenziente chirografaria e i soci anteriori esca vincitore la classe chirografaria, che deve proporzionalmente – e non in assoluto, cosa altrimenti assurda - prendere più di loro;  classe dissenziente che comunque, al solito, deve essere interessata.

È però evidente che la fatica di queste interpretazioni, i dubbi che lasciano, richiedono un intervento urgentissimo del legislatore, che metta mano alla povertà espressiva di (almeno) questi passaggi normativi per portare certezza agli operatori del diritto rispetto a questioni la cui cattiva soluzione può portare danni inestimabili all'economia e alla società tutta italiana.

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