Licenziamento illegittimo: conferma della Cassazione sulla risarcibilità del danno esistenziale e morale ulteriore all’indennizzo ex art. 18 Stat. lav.

13 Dicembre 2023

La Suprema Corte ammette, per il dipendente ingiustamente licenziato, la risarcibilità di danni ulteriori rispetto all'indennità spettante ex art. 18 comma 4, l. n. 300/1970, come il danno alla professionalità ed il danno all'immagine da licenziamento ingiurioso, comprese le componenti del danno morale e del danno dinamico relazionale.

Massime

In tema di risarcimento dei danni da licenziamento illegittimo, l'indennità spettante ex art. 18, comma 4, l. n. 300/1970, al dipendente illegittimamente licenziato è destinata a risarcire il danno intrinsecamente connesso alla impossibilità materiale per il lavoratore non reintegrato di eseguire la propria prestazione lavorativa. La previsione e la corresponsione di tale indennità non escludono che il lavoratore licenziato e non reintegrato possa avere subito danni ulteriori alla propria professionalità o alla propria immagine a causa del licenziamento e della mancata reintegrazione.

Il danno morale da licenziamento illegittimo ed il danno esistenziale da licenziamento illegittimo sono due pregiudizi che attengono a domande diverse e configurano distinti profili del danno non patrimoniale che vanno autonomamente apprezzati (l'uno sul piano intimo del dolore e l'altro sul piano delle ricadute relazionali proiettate all'esterno, anche unitariamente a quelle professionali di natura non professionale).

Grava sul lavoratore l'onere di provare di avere subito danni alla propria professionalità e alla propria immagine ulteriori e diversi da quelli già indennizzati attraverso l'attribuzione della indennità risarcitoria

Il caso

Un lavoratore licenziato per furto dei beni aziendali era uscito indenne dal giudizio sull'atto espulsivo e reclamava i danni ulteriori derivanti dal licenziamento illegittimo

La sentenza in commento tratta del caso di un lavoratore che era stato licenziato il 7 luglio 2010 con l'accusa di furto di beni aziendali ed era uscito indenne sia in sede penale che nel giudizio di impugnazione dell'atto espulsivo.

La sentenza che dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava il datore di lavoro a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro era intervenuta nel 2013, ma il lavoratore venne dispensato dal servizio fino al 21 ottobre 2016, nonostante l'obbligo di reintegra.

Il Giudice di merito, al quale il lavoratore si era rivolto per ottenere il danno alla professionalità ed il danno non patrimoniale diverso dal biologico per il periodo intercorrente fra il licenziamento e l'avvenuta reintegra, si era limitato quanto al danno alla professionalità a ritenere risarcibile solo il periodo intercorrente fra l'ordine di reintegrazione disposto dal giudice nel 2013 e l'avvenuto adempimento dello stesso, verificatosi il 21.10.2016, in quanto già compreso nell'indennità risarcitoria di cui all'art. 18 Statuto. Nulla, invece, aveva riconosciuto il Giudice di merito quanto alle richieste di risarcimento dei danni morali ed esistenziali-dinamico relazionali, derivanti dal provvedimento espulsivo ingiurioso.

La Suprema Corte di Cassazione adita dal lavoratore ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Milano, sia quanto al mancato risarcimento del danno alla professionalità nel periodo intercorrente fra il licenziamento e la pronuncia del giudice che ha ordinato la reintegra, sia quanto alla domanda attinente il pregiudizio esistenziale, subito dal lavoratore all'esito del licenziamento ingiurioso.

Le questioni e le soluzioni giuridiche

La risarcibilità del danno alla professionalità ulteriore rispetto all'indennità risarcitoria di cui all'art. 18 Stat. lav.

La prima questione giuridica che la Corte di Cassazione ha dovuto affrontare attiene alla risarcibilità, per il lavoratore risultato vittorioso all'esito di un giudizio sull'impugnazione del licenziamento, del danno ulteriore che lo stesso avesse subito alla propria professionalità.

Il lavoratore aveva, infatti, allegato: di non aver lavorato dalla data del licenziamento fino a tre anni dopo la pronuncia della sentenza , che aveva condannato il datore di lavoro a reintegrarlo; di aver rivestito prima del licenziamento il ruolo di responsabile di rilevanti unità organizzative (12-13 unità impiegatizie e circa 60-70 esterni); che il danno alla professionalità era legato alla gravità della condotta subita (licenziamento ingiurioso), alla inattività in un settore della logistica legata al mondo delle telecomunicazioni, soggetto a continue e rapide evoluzioni tecnologiche.

La Corte d'Appello di Milano, aveva riconosciuto il risarcimento solo dal periodo successivo alla sentenza di condanna alla reintegra, in quanto per il periodo precedente non poteva essere riconosciuto per essere esso già compreso nell'indennità risarcitoria di cui all'art. 18 Statuto dei Lavoratori.

A tal proposito è pacifico in giurisprudenza che nessun distinguo può essere operato fra il periodo precedente alla sentenza di condanna alla reintegra e quello successivo.

Come è noto l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nella formulazione antecedente la riforma operata dalla legge n. 108 del 1990, operava una diversificazione tra momento precedente la sentenza di reintegra nel posto di lavoro e periodo ad essa successivo. Per il primo momento il legislatore, con il disporre il "risarcimento del danno subito" dal lavoratore (in misura non inferiore alle cinque mensilità di retribuzione e secondo i criteri dell'art. 2121 c.c.), avesse inteso riferirsi, per quanto attiene alla quantificazione del danno, ai generali criteri codicistici.

La somma da commisurarsi alle retribuzioni perdute a causa dell'illegittimo recesso veniva, quindi, ritenuta in concreto suscettibile di essere diminuita degli emolumenti percepiti dal lavoratore impegnato in altra occupazione ("perceptum") e di quelli che lo stesso avrebbe potuto percepire adoperando l'ordinaria diligenza ("percepiendum"), e, di contro, di lievitare nel caso che il lavoratore avesse dimostrato l'esistenza di danni ulteriori - oltre quelli concretizzantisi cioè nella perdita delle retribuzioni - subiti a seguito dell'estromissione dal posto di lavoro.

Invece, per il periodo dalla data della sentenza a quella dell'effettiva reintegra del lavoratore la giurisprudenza ribadiva la sussistenza di un automatismo tra declaratoria di invalidità del licenziamento e le somme dovute a titolo di indennità risarcitoria, stante la permanenza del vincolo retributivo pur in mancanza della prestazione lavorativa (cfr. ex plurimis: Cass., 2 ottobre 1986, n. 5838; Cass., 11 luglio 1981, n. 4533). Ciò in quanto l'obbligo di pagamento di dette somme aveva una funzione incentivante dell'osservanza dell'ordine di reintegra del giudice, di conseguenza non era possibile sottrarre - nella ipotesi di inottemperanza della sentenza di reintegra - "l'aliunde perceptum" (o il "percepiendum").

A seguito dell'entrata in vigore della legge n. 108/1990, l'art. 18, comma 4, Stat. lav. ha subito una sostanziale modifica, prevedendo che il giudice, allorquando ordini la reintegrazione nel posto di lavoro, condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno, fissando una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quella della effettiva reintegrazione e che, in ogni caso, la misura del risarcimento del danno non può essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. La suddetta disposizione ha altresì disposto che il datore di lavoro con la stessa sentenza venga condannato al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali relativi all'indicato periodo.

Contrariamente a quanto statuiva il precedente testo della disposizione non può, dunque, più operarsi alcuna distinzione tra periodo precedente la sentenza di condanna e periodo ad essa successivo.

A fronte di questo nuovo quadro normativo sia il giudice delle leggi che quelli di legittimità hanno invece più volte ribadito che la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l'illegittimo licenziamento intimato in regime di tutela c.d. reale "non si discosta dalla disciplina ordinaria" perché implica comunque per il danno eccedente la misura minima delle cinque mensilità la sussistenza della colpa "in mancanza della quale non c'è danno ulteriore risarcibile" (cfr. Corte Cost. 22 dicembre 1998, n. 420).

Di conseguenza la nuova norma prevede un criterio di commisurazione dei danni da risarcire alla somma equivalente alle retribuzioni globali di fatto non percepite, tuttavia tale parametro può subire maggiorazioni a seguito della dimostrazione da parte del lavoratore di danni ulteriori ricollegabili anche essi all'illegittimo licenziamento o, invece, detrazioni per effetto di pregiudizi economici addebitabili alla colpa del lavoratore o alla sua mancata diligenza (art. 1227 c.c.), salvo sempre il rispetto del limite delle 5 mensilità di retribuzione globale di fatto ("zoccolo duro al di sotto del quale non era consentito andare").

È, allora, sulla base di tale evoluzione normativa e giurisprudenziale che la sentenza in commento conclude che ai fini della risarcibilità di danni ulteriori rispetto a quelli connessi alla mancata prestazione lavorativa è irrilevante “la collocazione temporale dei medesimi danni rispetto alla pronuncia della sentenza di reintegra”.

Una volta riconosciuta la possibilità di dimostrare la sussistenza di danni ulteriori rispetto a quelli presuntivamente quantificati dall'art.18 comma 4 Stat. lav., ci si deve inoltre chiedere se rispetto al danno alla professionalità si possano applicare criteri volti ad alleggerire l'onere della prova, incombente sul lavoratore.

A tal proposito quanto alla prova e liquidazione del danno professionale da demansionamento, deve rammentarsi che la Corte di Cassazione, in base ad orientamento privo di contrasti, ha affermato il principio in base al quale il giudice del merito può desumere l'esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (vedi ex plurimis, Cass. 26 febbraio 2009, n. 4652, Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; vedi da ultimo, Cass. 3 gennaio 2019, n. 21).

Tuttavia, tale orientamento riguardante la prova del danno da demansionamento non può essere applicata tout court al danno ulteriore alla professionalità subito dal lavoratore licenziato illegittimamente. Ciò in quanto (Cass. 16 aprile-12 luglio 2002, n. 10203) la fattispecie regolata dall'art. 2103 c.c., presuppone l'attualità in fatto ed in diritto del rapporto lavorativo ed una dequalificazione intervenuta nel corso dello stesso; sicché presenta una propria specificità e marcati caratteri differenziali rispetto alla ipotesi della inottemperanza all'ordine giudiziale di reintegra, che è invece regolata dal disposto della l. n. 300/1970, art. 18, cit.

Anche la sentenza in commento aderisce alla suindicata impostazione concludendo che: “grava invece sul lavoratore l'onere di provare di avere subito danni alla propria professionalità e alla propria immagine ulteriori e diversi da quelli già indennizzati attraverso l'attribuzione della indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto per il periodo intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione”.

Sulla base di tali argomentazioni la Corte di Cassazione, nel caso in oggetto, ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Milano che “non dà conto delle ragioni per cui le circostanze - che erano valse al ricorrente il riconoscimento del danno alla professionalità (da perdita di chance e lesione dell'immagine professionale) per il periodo successivo alla precedente alla sentenza di reintegra, - perdano di rilevanza per il periodo precedente alla sentenza di reintegra”.

La risarcibilità del danno morale ed esistenziale ulteriore rispetto all'indennità risarcitoria di cui all'art. 18 Stat. lav.

Il secondo tema analizzato dalla Suprema Corte attiene al risarcimento del danno morale e del danno esistenziale da licenziamento illegittimo.

Sul piano del diritto positivo, l'ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.).

Occorre preliminarmente ed in sintesi ripercorrere per punti la ricostruzione ermeneutica operata dalla giurisprudenza nell'ultimo ventennio.

La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale e delle sezioni unite della S.C. (Corte cost. n. 233/2003; Cass., sez. un., n. 26972/2008) deve essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso:

a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica;

b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in pejus della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all'uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.

Inoltre, nel procedere all'accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell'insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 235/2014, punto 10.1 e ss.) e del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 Codice delle assicurazioni come modificati dalla l. 4 agosto 2017, n. 124 , art. 1 , comma 17, - la cui nuova rubrica ("danno non patrimoniale", sostituiva della precedente, "danno biologico"), ed il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale - deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l'aspetto interiore del danno sofferto (c.d. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

Nella valutazione del danno alla salute, in particolare - ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto (Cass. nn. 8827-8828/2003; Cass., sez. un., n. 6572/2006; Corte cost. n. 233/2003) - il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale - che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso - quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell'ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce "altro da sé").

Nel caso di lesione della salute, costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico - inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali - e del danno c.d. esistenziale, appartenendo tali cd. "categorie" o c.d. "voci" di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l'art. 32 Cost.).

Non costituisce duplicazione risarcitoria, di converso, la differente ed autonoma valutazione compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute, come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 235/2014 , punto 10.1 e ss. (ove si legge che la norma di cui all'art. 139 c.s.a. non è chiusa anche al risarcimento del danno morale"), e come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell'art. 138 del C.d.A., alla lettera e introdotto dalla legge di stabilità del 2016.

In assenza di lesione della salute, ogni vulnus arrecato ad un altro valore/interesse costituzionalmente tutelato andrà specularmente valutato e accertato, all'esito di compiuta istruttoria, e in assenza di qualsiasi automatismo (volta che, nelle singole fattispecie concrete, non è impredicabile, pur se non frequente, l'ipotesi dell'accertamento della sola sofferenza morale o della sola modificazione in pejus degli aspetti dinamico-relazionali della vita), il medesimo, duplice aspetto, tanto della sofferenza morale, quanto della privazione/diminuzione/modificazione delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal soggetto danneggiato (in tal senso, già Cass., sez. un., n. 6572/2006).

Ora, nel caso in questione era assente ogni recriminazione quanto al danno alla salute, mentre il lavoratore si doleva di aver subito una sofferenza morale ed un danno dinamico relazionale in nesso causale con il licenziamento illegittimo ingiurioso.

A tal riguardo, quanto alla prova del danno sofferenza morale, in assenza di danno alla salute (posto che le ultime tabelle del Tribunale di Milano, quando sussiste un danno alla salute, determinano già i valori di danno biologico/dinamico-relazionale (A) e a titolo di sofferenza soggettiva interiore (B) si deve ritenere che la stessa debba essere assolta anche ricorrendo a presunzioni. A tal proposito di recente la Suprema Corte ha riconosciuto il danno “morale” subito da un Ente, che in una lettera, apparsa su un quotidiano, veniva definito "parassita di denaro pubblico" (Cass., sez. III, 14 luglio 2023, n. 20345 (rv. 668180-02), confermando sul punto la sentenza del giudice del merito che aveva fondato la prova del danno su elementi presuntivi, quali la riduzione del numero degli iscritti dell'ente.

Allo stesso modo in un secondo arresto sempre in tema di danno “morale” subito da un ente, la Suprema Corte aveva annullato la sentenza del giudice di merito, che aveva ritenuto non provato il danno alla reputazione commerciale lamentato da una società in conseguenza della propalazione giornalistica della notizia della non balneabilità del tratto di litorale in cui si trovava l'albergo dalla stessa gestito, nonostante fosse stata accertata la non veridicità di tale notizia, che era stata anche oggetto di successiva rettifica

La Cassazione giunge ad annullare la sentenza impugnata in quanto la prova era stata fornita dal ricorrente a mezzo presunzione. Infatti, la propalazione della notizia della non balneabilità delle acque di uno stabilimento marino determina- di per sé e inevitabilmente - un danno alla reputazione commerciale di un albergo, ragion per cui per assolvere a tale onere era sufficiente la prova di svolgere attività in ambito turistico e di essere proprietaria di una struttura turistico-alberghiera votata al turismo estivo e balneare.

Nello stesso senso la Cassazione (Cass., sez. III, ord. 8 aprile 2020, n. 7748) quando riconosce che il danno sofferto dai familiari può desumersi presuntivamente anche dal solo legame parentale. Ed ancora recentemente è stato riconosciuto in caso di ritardata consegna del bagaglio, la risarcibilità del danno non patrimoniale, consistente nello stress, nell'ansia e nel disagio scaturiti dalla lesione del diritto di circolazione (Cass., sez. VI-ter, ord. 15 febbraio 2023, n. 4723 (rv. 666831-01).

Sempre in base a criteri presuntivi la recente Cass., sez. lav., ord. 24 agosto 2023, n. 25191 relatore Riverso ha annullato la sentenza del giudice di merito, che non aveva riconosciuto il danno sofferenza morale, né il danno dinamico relazionale, per un lavoratore che aveva subito una gravissima patologia cardiaca con intervento cardiochirurgico di b triplice bypass aorto coronarico, in ragione delle condizioni di lavoro pesanti, dei turni, degli orari, dell'eccessivo carico di lavoro, del costante superamento dell'orario di lavoro. In tale arresto la Suprema Corte presume che colui che ha subito un evento lesivo come quello in oggetto (3 interventi di bypass), abbia provato sofferenze, paure e turbamenti dal punto di vista morale; allo stesso modo la Corte desume dalla dichiarazione di inidoneità a svolgere qualsiasi altra attività lavorativa, la sussistenza di una ricaduta negativa sul piano relazionale e sulla sofferenza morale.

Se questi sono i parametri ermeneutici della materia, nella sentenza in commento la Suprema Corte giunge a confermare la sentenza impugnata quanto alla valutazione del danno da sofferenza morale, poiché il ricorrente si era limitato ad allegare la sussistenza del licenziamento ingiurioso poi annullato (era stato accusato di furto), ma non aveva poi provato quali fossero le particolari forme o modalità offensive del recesso.

Diversamente è stata annullata con rinvio la sentenza nella parte in cui aveva totalmente omesso di motivare quanto alla domanda di danno dinamico relazionale -esistenziale, nonostante il ricorrente avesse allegato elementi presuntivi circa la sussistenza delle alterazioni delle abitudini di vita. In particolare il lavoratore aveva dedotto che ricopriva un ruolo direttivo di responsabile, che la famiglia poteva contare solo sul suo reddito, che di colpo aveva perduto il lavoro a causa di un licenziamento per furto di beni aziendali, che era stato perseguito penalmente e costretto senza stipendio ad affrontare vari procedimenti giudiziari, ed a stare in casa inattivo, senza lavoro, senza stipendio e che il fatto aveva avuto risonanza in tutta l'azienda ed era stato espressamente comunicato dalla datrice di lavoro a tutte le sedi di non farlo accedere in azienda.

Osservazioni

In conclusione, la sentenza in commento si colloca in quel nutrito alveo giurisprudenziale teso a riconoscere al lavoratore illegittimamente licenziato il diritto al risarcimento dei danni ulteriori, rispetto a quelli presuntivamente stabiliti dall'art 18 comma 4 Stat. lav., derivante dalla protratta inattività successiva al licenziamento. Tali danni possono esemplificativamente essere considerati: il danno alla professionalità, il danno sofferenza morale, il danno dinamico relazionale.

Pacifica essendo tale regola, le maggiori questioni giuridiche attengono allora alla prova del danno. Infatti, non vi è chi non veda che sia di enorme difficoltà per il lavoratore dimostrare in concreto quali siano state le conseguenze dannose, derivanti dalla perdita del posto di lavoro e dalla mancata reintegrazione. Per ognuno delle tre ipotesi la più recente evoluzione giurisprudenziale ammette che la prova sia fornita per presunzioni. Ciò presuppone un onere di allegazione puntuale da parte del lavoratore, non potendo l'interprete desumere la sussistenza dei danni dalla mera antigiuridicità del provvedimento di licenziamento annullato.

Sia consentito scorgere nella sentenza commentata un elemento di criticità. La stessa, mentre provvede ad annullare con rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Milano nella parte in cui non aveva riconosciuto i danni alla professionalità ed esistenziale del dipendente, giunge a confermarla nella parte in cui aveva rigettato la domanda relativa al danno morale. A tal riguardo la Suprema Corte perviene a tale conclusione in quanto, a suo dire, non sarebbe sufficiente allegare la sussistenza del licenziamento ingiurioso poi annullato, ma dovevano essere dimostrate anche le particolari forme o modalità offensive del recesso.

Ebbene, se il suindicato principio in generale è comprensibile e coerente con la prova del danno non patrimoniale ricostruita sin dalle Sentenze cd San Martino del 2008, e con il venir meno della prova del danno in re ipsa, tuttavia si deve ritenere che ove il licenziamento, poi dichiarato illegittimo, abbia un carattere marcatamente ingiurioso, come è nel caso di colui che viene licenziato per giusta causa tacciato di furto, o di colui che viene licenziato per aver molestato sessualmente una collega di lavoro, o di colui che viene licenziato per aver simulato la propria malattia, si potrebbe ben ritenere presunta la sofferenza morale nel destinatario per il sol fatto di essere attinto da un provvedimento, fondato su una simile ingiuriosa motivazione. Infatti, è del tutto logico ritenere che in qualunque essere umano essere destinatario di accuse così gravi determini una naturale sofferenza morale. Mentre una prova più specifica, ad esempio l'avvenuta conoscenza de motivi del licenziamento da parte dei colleghi di lavoro o da parte di un pubblico più vasto, dovrebbe essere richiesta ai soli fini della determinazione del quantum del danno non patrimoniale, in base alle particolarità del caso, che dovranno essere provate dal danneggiato.

Cass., sez. III, 14 luglio 2023, n. 20345

Cass., sez. lav., 24 agosto 2023, n. 25191

Cass., sez. VI, 15 febbraio 2023, n. 4723

Cass., sez. III 8 aprile 2020, n. 7748