Spese di lite e chiamata in causa del terzo
13 Dicembre 2023
Spese di lite: principi generali Il diritto costituzionale di difesa può dirsi realizzato solo ove sia garantito ad ogni soggetto con riferimento alla effettività dell'esercizio, tanto ab initio quanto alle conseguenze che possono derivare da un esercizio negativo o addirittura abusivo di tale diritto, ciò appunto per non gravare la parte vittoriosa di spese che concretamente ne pregiudichino o riducano le ragioni accertate, così da disincentivare, scoraggiare o ancor più intimidire l'esercizio di un tale diritto, posto a presidio (giurisdizionale) di qualsivoglia altro diritto. Invero, in tale percorso costituzionalmente protetto la condanna alle spese di lite può divenire una voce importante in relazione allo stesso oggetto del giudizio, il cui quantum delle spese può non solo cambiare la percezione della portata finale del provvedimento, ma addirittura ridimensionare drasticamente le dimensioni del provvedimento stesso, vanificandolo o sminuendolo fortemente. La responsabilità delle parti per le spese processuali è disciplinata dagli artt. 91 e 92 c.p.c. Mentre l'art. 91 c.p.c. detta la norma fondamentale che pone a carico del soccombente l'obbligo del rimborso delle spese a favore dell'altra, l'art. 92 c.p.c. contiene le regole in bose alle quali il giudice può: --a) escludere la ripetizione delle spese ritenute eccessive o superflue; --b) indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso di spese (anche irripetibili) che hanno causato alla parte avversaria, in violazione del dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c.; c) compensare parzialmente o per intero le spese si vi è soccombenza reciproca ovvero ricorrono giusti motivi. Con il lemma “spese” il codice di rito (artt. 91 e 92 c.p.c.) effettua un generico e non meglio definito riferimento a tutti gli esborsi che complessivamente costituiscono il costo del processo, cioè a tutti gli oneri economici relativi ad attività direttamente coordinate con lo svolgimento del processo. Tali oneri, dunque necessariamente eterogenei, possono suddividersi perlomeno in due tipi: a) esborsi che assurgono a tributi (contributo unificato per l'iscrizione a ruolo della controversia, imposta di registro) o di pagamento di diritti per prestazioni ipoteticamente espletate da impiegati pubblici (cancellieri ed ufficiali giudiziari: anticipazioni forfettarie per notificazioni, diritti di copia etc.), dunque riconducibili ad un corrispettivo per la prestazione del servizio giustizia ad opera dell'apparato pubblico (costi giudiziali); b) compensi versati a soggetti privati (difensori, consulenti tecnici, custodi) per attività espletate in relazione al processo (inclusi i costi stragiudiziali). Sono dunque considerate ripetibili le spese che abbiano origine nel processo e negli atti in esso compiuti, quali le spese: - relative ad atti funzionali all'attività difensiva (diritti ed onorari di avvocato, poi definiti “compensi”), purché documentate (Cass., 23 marzo 2004, n. 5802). L'ordinamento codicistico è improntato al ragionevole principio per cui il costo del processo non può andare in danno della parte vittoriosa o comunque non può essere da essa sopportato, poiché altrimenti intaccherebbe la pienezza ed effettività del diritto di azione e di difesa tutelato dall'art. 24 Cost. Tale principio è stato dunque regolamentato mediante alcuni articoli finalizzati ad incorniciare la discrezionalità del giudice: con un regolamento provvisorio, ispirato al principio dell'anticipazione; con un regolamento definitivo, improntato al principio della soccombenza (Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Torino, 2009, 378-383). Un problema connesso all'interpretazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. è quello relativo alla individuazione del fondamento della responsabilità delle spese. La dottrina si è divisa tra due tesi contrastanti: da una parte chi considera fondamento della responsabilità la soccombenza tout court (Chiovenda, La condanna nelle spese giudiziali, Torino, 1901), dall'altra, chi attribuisce prevalenza al nesso di causalità, considerando l'esito del giudizio mero indice rivelatore della prima (Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, Padova, 1936, I, 433). La soccombenza risiede nella semplice difformità tra la richiesta della parte (comprensiva di domande ed eccezioni) come poi cristallizzata definitivamente in sede di precisazione delle conclusioni ed il contenuto della pronuncia del giudice. Domina quindi il criterio oggettivo della regola della soccombenza basato sul raffronto tra domande ed eccezioni formulate e il contenuto della decisione, determinata indifferentemente da ragioni di merito o di rito (Cass., 19 luglio 1999, n. 469), e riguardata sulla base dell'esito finale del giudizio alla stregua di una valutazione globale ed unitaria, senza considerare le varie fasi del procedimento (Cass., 7 ottobre 2013, n. 22808). Soccombente è quindi la parte che, lasciando insoddisfatta l'altrui fondata pretesa o azionando una pretesa accertata infondata o, più in generale, con la sua condotta anteriore al giudizio, ha “dato causa”, dunque determinando un effetto causale (Cass., 24 marzo 2015, n. 5842), ha provocato o alimentato l'insorgere della controversia. In questa prospettiva, soccombente (cioè “colui contro il quale la dichiarazione di diritto avviene”, secondo la moderna definizione chiovendiana) è la parte le cui domande non siano state accolte, pur se per motivi diversi dal merito, o che veda accolte domande od eccezioni sollevate dalla controparte e, più precisamente, la parte: a) alla quale è stato negato il riconoscimento, in tutto o in parte, della situazione giuridica dedotta; b) nei confronti della quale è stata dichiarata l'esistenza di una situazione giuridica altrui. L'accertamento della difformità, tra la richiesta della parte ed il contenuto della pronuncia del giudice tuttavia, alimenta tuttavia un'ampia valutazione discrezionale, atteso che non vi sono criteri quantitativi predeterminati dal legislatore al riguardo. La regola della soccombenza intende dunque evitare una diminuzione patrimoniale alla parte che abbia dovuto svolgere un'attività processuale per veder riconosciuto un proprio diritto. Talché spesso la Corte di cassazione ha evidenziato come l'obbligo del rimborso delle spese processuali risponda all'esigenza di ristorare la parte vittoriosa dagli oneri inerenti al dispendio di attività processuale cui è stata costretta dall'iniziativa o dalla resistenza dell'avversario, cioè del soggetto che ha causato la lite e che, secondo l'applicazione del principio di causalità, si applicano pure: alla chiamata in causa del terzo, a nulla rilevando il fatto che l'attore non abbia proposto alcuna domanda nei riguardi del terzo e quindi manchi tra loro un diretto rapporto processuale (Cass. n. 23552/2011); al terzo chiamato iussu iudicis (Cass. n. 4386/2007); all'interventore adesivo dipendente in caso di accoglimento della domanda proposta dalla parte adiuvata (Cass. n. 18944/2003). Non ultimo, si ritiene che la condanna alle spese assolva pure ad una rilevante funzione deterrente. Il principio di soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c. è sorretto da una duplice ratio: quella di disincentivare la proposizione di domande giudiziali solo per finalità dilatorie o esplorative e quella di tenere indenne da spese di giudizio chi si è visto costretto a rivolgersi al Tribunale per ottenere contezza di un suo diritto negato dal comportamento altrui ovvero per difendersi da una pretesa infondata altrui. Si aggiunga poi come la norma di cui all'art. 91 c.p.c. nello stabilire che “il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente” configura una vera e propria regola di competenza secondo cui il giudice innanzi al quale si radica la controversia deve provvedere sulle spese. Sicché il regolamento delle spese è ritenuto consequenziale e meramente accessorio rispetto alla definizione del giudizio. Da tale nesso di interdipendenza, tra la statuizione sulle spese e la decisione della causa, consegue che il giudice ha l'obbligo di pronunciare (dunque d'ufficio) sulle spese, senza necessità di un'istanza della parte vincitrice ancorché di prassi tale domanda avvenga, salva la facoltà della parte di rinunciare preventivamente al rimborso. Spese di lite e chiamata in causa del terzo Attesa la lata accezione con cui il termine "soccombenza" è assunto nell'art. 91 c.p.c., il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, mentre il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato o abbia fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (Cass. n. 10364/2023; Cass. n. 18710/2021; Cass. n. 23948/2019). L'iniziativa del chiamante può ritenersi palesamente arbitraria, quando il convenuto chiamante sarebbe stato comunque soccombente nei confronti del terzo anche in caso di esito diverso della causa principale proposta nei suoi confronti (Cass. n. 1909/2023). Le spese della parte terza chiamata vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata in garanzia, secondo il principio di causalità (Cass. n. 23123/2019; Cass. n. 2492/2016). Pertanto, una volta rigettata la domanda principale, le spese sostenute dal terzo chiamato a titolo di garanzia impropria devono essere poste a carico del soccombente che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia (Cass. n. 23552/2011), anche se l'attore soccombente non abbia formulato alcuna domanda nei confronti del terzo (Cass. n. 2492/2016). Tale principio, tuttavia, è derogato nel caso in cui l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (Cass. n. 8363/2010): la manifesta infondatezza della domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato comporta, invero, nel rapporto processuale instaurato tra convenuto e terzo chiamato, l'applicabilità del principio della soccombenza, anche quando l'attore principale sia a sua volta soccombente nei confronti del convenuto, atteso che il convenuto chiamante sarebbe stato soccombente nei confronti del terzo anche in caso di esito diverso della causa principale (Cass. n. 10070/2017). Sotto altro aspetto, in caso di intervento adesivo (ad opponendum rispetto alla pretesa attorea), l'interventore diventa parte del giudizio, in ordine alla cui posizione si applicano gli artt. 91 e 92 c.p.c., potendo, perciò, essere anche condannato alle spese in caso di soccombenza della parte adiuvata o vedersi riconoscere il favore delle spese nell'ipotesi di vittoria della stessa parte adiuvata (Cass. n. 27846/2019). Fattispecie particolari: A) Chiamata in causa del terzo e giudizio di appello Per la Corte di cassazione allorché il convenuto chiami in causa un terzo ai fini di garanzia impropria - e tale iniziativa non si riveli palesemente arbitraria - legittimamente il giudice di appello, in caso di soccombenza dell'attore, pone a carico di quest'ultimo anche le spese giudiziali sostenute dal terzo, ancorché nella seconda fase del giudizio la domanda di garanzia non sia stata riproposta, in quanto, da un lato, la partecipazione del terzo al giudizio di appello si giustifica sotto il profilo del litisconsorzio processuale, e, dall'altro, l'onere della rivalsa delle spese discende non dalla soccombenza - mancando un diretto rapporto sostanziale e processuale tra l'attore ed il terzo - bensì dalla responsabilità del primo di avere dato luogo, con una infondata pretesa, al giudizio nel quale legittimamente è rimasto coinvolto il terzo (Cass. n. 5027/2008). Se, inoltre, l'impugnazione nel merito deve essere notificata, in qualità di litisconsorte processuale, ad uno dei convenuti in primo grado (nella specie il terzo chiamato), nei cui confronti nessuna delle altre parti in secondo grado abbia formulato domande, a costui debbono essere rimborsate le spese processuali da colui la cui pretesa è dichiarata ingiustificata (Cass. n. 12124/2023; Cass. n. 1123/2022; Cass. n. 7401/2016; Cass. n. 7431/2012). Sicché il potere del giudice d'appello di procedere d'ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, poiché gli oneri della lite devono essere ripartiti in ragione del suo esito complessivo, mentre in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata dal giudice del gravame soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d'impugnazione (Cass. n. 14916/2020). Pertanto, il giudice d'appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d'ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell'esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all'art. 336 c.p.c., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese (Cass. n. 1775/2017). Fattispecie particolari: B) Domanda di rivendica e spese di lite del terzo chiamato in garanzia per evizione L'acquirente di un bene immobile posseduto illegittimamente da un terzo il quale ne rifiuti il rilascio, nel promuovere l'azione di rivendica ben può chiamare in giudizio il venditore suo dante causa per eventuale garanzia nel caso in cui le pretese del possessore si rivelino fondate, con la conseguenza che, pur in mancanza di un rapporto processuale e sostanziale diretto tra il convenuto ed il chiamato in causa, onde tra loro non è ipotizzabile la soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c., legittimamente, in caso di accoglimento della domanda di rivendica, il giudice pone a carico del convenuto anche l'onere di rivalere delle spese giudiziali il terzo chiamato in causa, trovando tale provvedimento giustificazione nel comportamento processuale del convenuto che con le proprie infondate pretese sul bene controverso ha determinato non solo l'azione dell'attore in rivendica, ma anche la chiamata in causa del terzo (Cass. n. 10767/2023, nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che, dopo aver accolto la domanda di rivendica proposta dall'attore, aveva erroneamente posto a suo carico anche le spese di lite sostenute dal terzo chiamato, senza considerare che tale chiamata in causa si era resa necessaria in virtù delle contestazioni che il convento aveva mosso sulla titolarità di parte del terreno rivendicata dall'attore e per far fronte all'eventualità che quest'ultimo subisse l'evizione parziale del bene). Sicché, in tema di spese di lite, in caso di accoglimento della domanda di rivendica, le spese di lite del terzo chiamato in garanzia per evizione direttamente dall'attore, pur in mancanza di un rapporto processuale e sostanziale diretto tra il convenuto ed il chiamato in causa, sono legittimamente poste a carico non dell'attore chiamante, ma del convenuto che, con le proprie infondate pretese sul bene controverso, ha determinato non solo l'azione dell'attore in rivendica, ma anche la chiamata in causa del terzo. Fattispecie particolari: C) Spese e terzo chiamato nel reclamo avverso la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (ex art. 696-bis c.p.c.) Il Tribunale di Reggio Emilia con ordinanza del 20 febbraio 2020 si è occupato delle spese, nell'ambito di un reclamo avverso la consulenza tecnica preventiva ai fini di composizione della lite (ex art. 696 bis c.p.c.), dei rapporti tra l'attore reclamante e i convenuti reclamati nonché tra i reclamati e i terzi chiamati in giudizio. Nel primo caso, trova applicazione la generale regola della soccombenza ex art. 91 c.p.c., pertanto, in caso di inammissibilità del reclamo, il reclamante dovrà rifondere le spese di lite al reclamato. Invece, nella seconda ipotesi, occorre operare un distinguo. Infatti, nel caso in cui l'attore risulti soccombente nei confronti del convenuto, per la pretesa in ordine alla quale questo ultimo ha evocato in garanzia il terzo, spetterà all'attore stesso rifondere le spese di lite. Nondimeno, tale regola generale trova applicazione solo nel caso in cui la chiamata in garanzia sia stata effettuata “come sviluppo logico e normale della lite”. In buona sostanza, le spese di lite del terzo garante: a) gravano sull'attore soccombente, in caso di astratta fondatezza della chiamata in manleva; b) gravano sul convenuto chiamante, qualora la chiamata sia palesemente infondata o arbitraria. Fattispecie particolari: D) La chiamata in manleva e la chiamata di responsabilità La mera chiamata di responsabilità di differenzia dalla chiamata in garanzia, propria o impropria. Il fenomeno della chiamata in garanzia, meglio noto come intervento, si verifica ogni qual volta uno o più soggetti entrano spontaneamente ovvero vengono fatti entrare coattivamente (con una cosiddetta chiamata, per l'appunto) in un processo già pendente tra le altre parti. Mentre nel primo caso l'intervento si qualifica come volontario, nel secondo caso si parla di intervento coatto; la qualificazione di tale ultimo intervento come coatto discende dal fatto che il terzo viene chiamato in giudizio mediante il meccanismo della citazione, quindi non vi partecipa volontariamente. La legge disciplina il fenomeno in questione innanzitutto sotto il profilo di una legittimazione: legittimazione ad intervenire o titolarità dell'azione proponibile mediante intervento oppure, con riferimento al soggetto passivo, legittimazione a far intervenire o chiamare in giudizio. La regola generale si desume dal fatto che attraverso l'intervento si realizza un litisconsorzio che, per sua natura, legittima l'intervento di un terzo (o la sua chiamata) solo se sussiste una connessione oggettiva tra l'azione in corso e quella che il terzo vuole esercitare o che si vuole esercitare contro di lui. In ambito processuale, si parla di manleva quando una parte chiama in causa un terzo per essere da questi garantita a seguito di una richiesta risarcitoria. Si tratta della domanda di garanzia (art. 106 c.p.c.) per cui “ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita". A tal proposito, può parlarsi di: a) garanzia propria, quando il terzo è chiamato a rispondere in virtù dello stesso titolo o legame diretto tra la domanda principale (in cui è coinvolto il chiamante) e quella accessoria; b) garanzia impropria, quando il terzo risponde in virtù di un titolo o situazione diversa. L'esempio più ricorrente di chiamata in garanzia riguarda la compagnia assicurativa da cui l'assicurato chiede di essere tenuto indenne in caso di condanna al risarcimento del danno. La domanda di garanzia è funzionale a deviare sul terzo le conseguenze economiche di un'eventuale soccombenza del chiamante. Come tale presuppone il necessario accoglimento della domanda principale: in caso contrario, l'esame della domanda di garanzia resterebbe infatti inevitabilmente assorbito. La chiamata di responsabilità, invece, mira ad indicare il terzo come unico soggetto tenuto alla prestazione richiesta dall'attore, senza chiedere di essere manlevato in caso di condanna. Sul punto, in tema di condanna alle spese, si registrano due orientamenti confliggenti. Il primo indirizzo è teso ad escludere, in caso di manifesta infondatezza della domanda da cui è sorto il rapporto processualmente accessorio, la condanna alle spese di colui che ha instaurato il rapporto principale. Tale orientamento si fonda sul combinato disposto dei principi di causazione e di soccombenza. Ne consegue che nel caso in cui la difesa attuata dal convenuto, sotto forma di chiamata in causa, sia “eccentrica rispetto all'oggetto della controversia o comunque manifestamente priva di fondatezza”, il soggetto che ha attivato il rapporto principale non è tenuto a rifondere le spese del terzo chiamato, in quanto il rapporto instauratosi tra convenuto e terzo chiamato non è realmente accessorio a quello che ha originato il processo, essendo posto in essere mediante “un impulso processuale radicalmente privo di pertinenza/fondatezza, id est arbitrario”. A mente di tale indirizzo dunque, “la palese infondatezza della domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato comporta l'applicabilità del principio di soccombenza nel rapporto processuale instauratosi tra loro, anche quando l'attore sia, a sua volta, soccombente nei confronti del convenuto chiamante, atteso che quest'ultimo sarebbe stato soccombente nei confronti del terzo anche in caso di esito diverso della causa principale” (Cass. n. 10070/2017; Cass. n. 7431/2012; Cass. n. 8363/2010). Il secondo e più recente orientamento tende invece ad elidere, in tema di ripartizione delle spese processuali del terzo chiamato in garanzia, il principio della causazione basando la ripartizione delle spese solo su quello della soccombenza. In questi termini, la domanda di manleva spiegata dal convenuto con la chiamata in causa di un terzo non deve essere necessariamente valutata “manifestamente infondata” o “palesemente arbitraria” ai fini della condanna del chiamante al rimborso delle spese processuali sostenute dal chiamato. Tali spese sono sempre poste a carico del chiamante una volta accertata l'infondatezza della chiamata in causa del terzo senza necessità che un siffatto accertamento – di natura necessariamente incidentale- risulti rafforzato da ulteriori requisiti, quali “manifesta infondatezza” ovvero “palese arbitrarietà”, in quanto, per un verso, mostrano profili di sicura opinabilità e, per altro verso, non risultano espressamente richiesti dall'art. 91 c.p.c.; a mente di tale orientamento dunque, “le spese processuali sostenute dal terzo chiamato in causa dal convenuto, che sia risultato totalmente vittorioso nella causa intentatagli dall'attore, sono legittimamente poste, in base al criterio della soccombenza, a carico del chiamante, la cui domanda di garanzia o di manleva sia stata giudicata infondata” (Cass. n. 4195/2018). Si è precisato che in tema di ripartizione delle spese processuali è fondamentale, ai fini della tutela del diritto di difesa, che il principio della soccombenza sia temperato da quello della causalità. Seguendo il solo principio della soccombenza, infatti, si comprimerebbe l'esercizio del diritto di difesa di colui che è convenuto nel rapporto processuale. Per contro, la valorizzazione della causazione impedisce la trasformazione del processo dotato di una pluralità di rapporti, in una serie di compartimenti stagni per cui, anche a fronte di una piena vittoria nei confronti dell'attore del rapporto principale, il convenuto in quest'ultimo non è tenuto comunque rifondere le spese di chi ha egli stesso convenuto in un rapporto avviato per difendersi. Il che significherebbe ammettere, in contrasto con i principi fondamentali del processo, “che chi ha ragione esce comunque con una deminutio della sua sfera economico-giuridica dalla contesa processuale, l'esercizio del diritto di difesa integrando in una perdita, a prescindere dal fatto che egli potesse o meno ciò prevedere”. Secondo la prospettazione della Suprema Corte, tuttavia, il suddetto principio non trova applicazione allorquando il convenuto sia in grado di comprendere ab origine che la chiamata del terzo in garanzia sia completamente infondata ove l'abusivo esercizio del diritto di difesa recide la causazione, riconducendo al paradigma della soccombenza in via esclusiva. La valutazione della sussistenza o meno di una condotta processuale temeraria, ossia della proposizione di una chiamata in causa su fondamenti manifestamente inconsistenti, è una valutazione di merito del contenuto della domanda proposta dal convenuto/chiamante in causa (Cass. n. 31889/2019). Dal combinato disposto di tali principi si ricava che se la domanda di garanzia è assorbita (per rigetto della pretesa azionata nei confronti del chiamante) sarà il giudice a doverne valutare la palese arbitrarietà o meno, ai fini dell'imputazione (al chiamante o al soccombente) delle spese sostenute dal terzo chiamato (Cass. n. 23123/2023). Ad ogni modo, in tema di spese giudiziali sostenute dal terzo chiamato in garanzia, quando la chiamata viene dichiarata inammissibile perché tardivamente proposta, il chiamante va condannato al pagamento delle spese nei confronti del terzo chiamato, alla luce del principio generale di soccombenza, applicabile anche allo specifico rapporto processuale esistente tra dette parti (Cass. n. 30393/2019). Fattispecie particolari: E) Ripetibilità delle spese legali sostenute dall'assicurato per resistere nel giudizio in suo danno e nel quale ha chiamato in garanzia il proprio assicuratore L'art. 1917 c.c. disciplina l'oggetto del contratto di assicurazione per la responsabilità civile disponendo, al primo comma, che l'assicuratore è obbligato a tenere indenne l'assicurato di quanto questi dovrà risarcire ai terzi per i fatti coperti dalla garanzia assicurativa, il terzo comma recita: le spese sostenute per resistere all'azione del danneggiato contro l'assicurato sono a carico dell'assicuratore nei limiti del quarto della somma assicurata. Tuttavia, nel caso che sia dovuta al danneggiato una somma superiore al capitale assicurato, le spese giudiziali si ripartiscono tra assicuratore e assicurato in proporzione del rispettivo interesse. Si tratta delle cd. spese di resistenza. I n base all'orientamento giurisprudenziale costante della giurisprudenza di legittimità, il soggetto che ha stipulato un'assicurazione contro i rischi della responsabilità civile, se convenuto in giudizio dal terzo danneggiato, ha diritto alla rifusione da parte del proprio assicuratore delle spese sostenute per contrastare la pretesa attorea, sussistendo tale diritto sia nel caso in cui la domanda di garanzia venga accolta, sia nel caso in cui resti assorbita, e può essere negato soltanto in due ipotesi: quando manchi o sia inefficace la copertura assicurativa (circostanza che spetta al giudice accertare anche incidentalmente); quando le spese di resistenza sostenute dall'assicurato siano state superflue, eccessive o avventate (Cass. n. 4786/2021) ”. In materia di assicurazione della responsabilità civile, l'assicurato ha diritto di essere tenuto indenne dal proprio assicuratore delle spese processuali che è stato costretto a rifondere al terzo danneggiato (c.d. spese di soccombenza) entro i limiti del massimale, in quanto costituiscono una delle tante conseguenze possibili del fatto illecito, nonché delle spese sostenute per resistere alla pretesa di quegli (c.d. spese di resistenza), anche in eccedenza rispetto al massimale purché entro il limite stabilito dall' art. 1917, comma 3, c.c. , in quanto, pur non costituendo propriamente una conseguenza del fatto illecito, rientrano nel genus delle spese di salvataggio ( 1914 c.c .) perché sostenute per un interesse comune all'assicurato ed all'assicuratore; le spese di chiamata in causa dell'assicuratore non costituiscono invece né conseguenza del rischio assicurato né spese di salvataggio, bensì comuni spese processuali soggette alla disciplina degli artt. 91 e 92 c.p.c. (Cass. n. 18076/2020). Fattispecie particolari: F) Spese e chiamata del terzo da parte del giudice La Corte di cassazione ha precisato che la parte soccombente non deve pagare anche le spese di giudizio del terzo risultato poi estraneo se la chiamata in causa, per integrare il contraddittorio, è avvenuta su ordine del giudice a seguito di una eccezione della controparte, convenuta e vittoriosa (Cass. n. 12259/2023). In particolare, nella vicenda sottoposta all'attenzione dei giudici di legittimità, l'attrice che chiedeva l'adeguamento delle spese di manutenzione di un vialetto condominiale agli effettivi millesimi è risultata soccombente in quanto sottoscrittrice, in sede di acquisto dell'immobile, di una specifica convenzione derogatoria. Ha invece vinto rispetto alla condanna al pagamento delle spese di giudizio sostenute da un terzo, parte nei cui confronti ella aveva integrato, su ordine del giudice, il contraddittorio e risultata successivamente estranea alla controversia, non essendo proprietaria di alcuna unità immobiliare del condominio. Sia il Tribunale che la Corte di appello avevano posto a suo carico le spese giudiziali sostenute del terzo a nulla rilevando che la sua chiamata fosse stata ordinata dal giudice dietro eccezione della moglie, che aveva lamentato l'omessa citazione del marito adducendo che l'immobile era in comunione. Secondo i giudici del merito infatti "la parte avrebbe dovuto comunque verificare se questi era effettivamente comproprietario e non potendo l'errore del giudice che ricadere sulla parte". Proposto ricorso, l'attrice ha lamentato la violazione del principio di causalità atteso che la chiamata della parte era stata provocata dalla convenuta che nel costituirsi in giudizio aveva dedotto che la sua unità immobiliare era in comunione, e dal conseguente ordine di integrazione del contraddittorio emesso dal giudice, a cui la parte non poteva sottrarsi pena l'estinzione del giudizio. La Corte di cassazione ha ribadito che la regolamentazione delle spese di giudizio è retta dal principio di causalità, di cui il criterio della soccombenza costituisce applicazione, secondo il quale le spese di giudizio sono a carico della parte che ha provocato ingiustificatamente la necessità del processo. Nella specie, prosegue la decisione, risulta che il terzo fu chiamato in giudizio dalla attrice non di sua iniziativa, ma in esecuzione di un ordine del giudice emesso a seguito della eccezione di difetto di integrità del contraddittorio sollevata dalla convenuta, coniuge del terzo, e che nel prosieguo questi risultò estraneo al giudizio, non essendo comproprietario dell'appartamento. Alla luce di tali circostanze, afferma la Cassazione, "l'applicazione del principio di causalità avrebbe dovuto portare ad escludere la condanna della attrice al pagamento delle spese sostenute dal terzo chiamato". "La considerazione che l'estensione della domanda nei suoi confronti sia stata posta in essere in esecuzione dell'ordine del giudice appare infatti superata dalla circostanza, del tutto incontestata, che tale provvedimento abbia trovato origine nell'eccezione di difetto di integrità del contraddittorio della convenuta, risultata del tutto infondata e smentita dal terzo stesso". La Corte di appello "avrebbe dovuto pertanto escludere che la partecipazione in giudizio, delle cui spese di costituzione si discute, fosse direttamente ascrivibile alla parte attrice ed alla sua iniziativa in giudizio". Tuttavia, si segnala altra orientamento a mente del quale colui che attivamente o passivamente si espone all'esito del processo, oltre a conseguire i vantaggi, deve anche sopportare le eventuali conseguenze sfavorevoli che, in ordine alle spese, sono stabilite a suo carico in base al principio della soccombenza e ciò anche se si tratti di spese non rigorosamente consequenziali e strettamente dipendenti dall'attività della parte rimasta soccombente (Cass. n. 8886/2013, nella specie, spese liquidate in favore del chiamato iussu iudicis). Nella stessa direzione si è precisato che colui che attivamente o passivamente si espone all'esito del processo, oltre a conseguire i vantaggi, deve anche sopportare le eventuali conseguenze sfavorevoli che, in ordine alle spese, sono stabilite a suo carico in base al principio della soccombenza e ciò anche se si tratti di spese non rigorosamente conseguenziali e strettamente dipendenti dall'attività della parte rimasta soccombente ma derivante dagli eventuali errori in cui può incorrere il giudice nei vari gradi o nelle diverse fasi del processo, come nel caso di quelle che vengono sopportate da coloro che sono chiamati a partecipare al giudizio quali terzi evocati per ordine del giudice, ancorché rivelatosi successivamente ingiustificato: solo in tal modo, infatti, rimane efficacemente salvaguardato il fondamentale diritto di difesa delle parti che vengono, anche se ingiustamente, chiamate in giudizio. (Cass. n. 9049/2006). Fattispecie particolari: G) Soccombente ammesso al gratuito patrocinio e spese di lite da pagare al terzo chiamato in causa Nel caso in cui sia soccombente il soggetto ammesso al gratuito patrocinio a carico dello Stato, vale il principio per il quale "il patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, ex art. 74, comma secondo, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, non vale ad addossare allo Stato anche le spese che la parte ammessa sia condannata a pagare all'altra parte, risultata vittoriosa, perché "gli onorari e le spese" di cui all'art. 131 D.P.R. cit. sono solo quelli dovuti al difensore della parte assistita dal beneficio, che lo Stato si impegna ad anticipare". Pertanto, qualora sia soccombente il soggetto ammesso al gratuito patrocinio a carico dello Stato, le spese di lite che una parte debba pagare al terzo chiamato in causa non sono addossate allo Stato ma alla parte soccombente la quale abbia formulato la propria domanda anche al terzo in quanto in virtù del principio di causalità che governa la materia delle spese di lite, le spese sostenute dal terzo chiamato in giudizio, una volta che sia stata rigettata la domanda principale, vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata (Trib. Mantova, 1° marzo 2018, n. 163). |