Polizze infortuni e compensatio lucri cum damno: quando un tribunale di merito va oltre la giurisprudenza di legittimità
Chiara D'Elia
19 Dicembre 2023
Nelle polizze infortuni non mortali non opera l'istituto della compensatio lucri cum damno: è questa la portata innovativa di quanto deciso dal Tribunale di Milano lo scorso 11 aprile con sentenza n. 2894.
Il caso e la decisione del Tribunale di Milano
In seguito ad un atto di violenza da parte di un artista di strada – autorizzato dal Comune di Milano ad esibirsi sulla pubblica via – il danneggiato citava in giudizio il proprio aggressore (autore materiale della condotta) e il predetto Ente per chiedere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.
Apparentemente, dunque, la questione in sé non era complessa. Sennonché, durante il procedimento, emergeva che il danneggiato aveva stipulato con la propria compagnia assicurativa una polizza infortuni. Di conseguenza, il Comune – ritenuto da parte attrice inadempiente ai doveri di prudenza e diligenza – oltre a respingere ogni addebito quanto a responsabilità, richiamava l'istituto della compensatio lucri cum damno ed eccepiva che l'obbligazione risarcitoria fatta valere da parte attrice fosse integralmente estinta con l'indennizzo dallo stesso percepito in virtù della propria polizza assicurativa.
All'esito del processo, il Tribunale di Milano riteneva l'artista di strada responsabile dei danni cagionati all'attore, mentre la responsabilità del Comune veniva esclusa in punto di an. Di conseguenza, quindi, l'eccezione sollevata dal Comune che riteneva applicabile il criterio secondo cui per la liquidazione del risarcimento del danno occorre considerare le conseguenze vantaggiose per il danneggiato causate in via diretta dal fatto lesivo sarebbe anch'essa dovuta essere travolta.
Per il Tribunale milanese era però una occasione troppo attesa per non prendere posizione in tema di compensatio lucri cum damno in materia di assicurazioni contro gli infortuni dopo la quadrilogia di pronunce delle Sezioni Unite del 2018. Ebbene, dopo un'analitica ricostruzione del quadro giurisprudenziale, la Corte milanese forniva una lettura evolutiva ai principi espressi dalle sentenze “Giusti” (Cass. sez. un., 22 maggio 2018, n. 12564, n.12565, n.12566 e n.12567), escludendo nel caso di specie l'operatività della compensatio lucri cum damno in base ad un'interpretazione della volontà negoziale ancorata alla teoria della causa in concreto del contratto.
I nodi irrisolti dalla giurisprudenza di legittimità
La questione sui cui il Tribunale di Milano è stato chiamato a pronunciarsi riguardava la possibilità di riconoscere il risarcimento del danno nell’ipotesi in cui il soggetto danneggiato avesse già percepito una somma a titolo di indennizzo dalla propria compagnia assicurativa in forza di una polizza infortuni.
Ecco quindi, che riemerge – anche se mai è stata considerata una questione risolta da pare della dottrina – il tema della natura indennitaria della polizza infortuni. Come noto, il cd. principio indennitario impone che a fronte di un medesimo evento lesivo opera, in linea generale, il divieto di cumulare l’indennizzo assicurativo e il risarcimento del danno. La ratio di un simile principio è da ricercarsi, evidentemente, nella volontà di evitare un ingiusto arricchimento da parte del danneggiato il quale, ove percepisse un indennizzo assicurativo e un risarcimento si verrebbe a trovare in una situazione migliore rispetto a quella antecedente alla verificazione del fatto illecito.
Ed è proprio con riferimento a quanto sopra che il Tribunale di Milano, nei passaggi motivazionali della sentenza, si pone in netto contrasto con la giurisprudenza di legittimità.
Infatti, dopo aver ripercorso la querelle giurisprudenziale che ha interessato l’istituto della compensatio lucri cum damno (d’ora in avanti clcd), la Corte milanese è giunta ad escludere, nel caso di specie, lo scomputo dell’indennizzo assicurativo dal risarcimento del danno considerando la finalità previdenziale della polizza infortuni stipulata dal soggetto danneggiato. Si legge, infatti, che il danneggiato «ha inteso cautelarsi contro il rischio di morte o invalidità permanente, sopportando il pagamento di una serie di premi e assicurandosi la possibilità di poter celermente disporre, in caso di verificazione di un evento traumatico, di una somma di denaro certa nel suo ammontare e proporzionata – in quanto ancorata ad un prescelto capitale assicurato – non già al danno effettivamente patito, ma alla propria capacità di spesa e alla propria propensione all’investimento previdenziale».
Per comprendere appieno la portata innovativa della sentenza occorre, tuttavia, procedere per passi.
Risale a quasi un decennio fa (Cass. 11 giugno 2014, n. 13233) il primo arresto giurisprudenziale in materia. In quella sede si giunse a ritenere che l’assicurazione contro gli infortuni non mortali, in quanto assicurazione contro i danni, fosse soggetta al principio indennitario. Di conseguenza, dal risarcimento del danno dovuto alla vittima di lesioni personali doveva essere scomputato l’importo da questa percepito a titolo di indennizzo da parte del proprio assicuratore privato contro gli infortuni.
Lo sforzo di pervenire ad una soluzione coerente sulla questione dell’applicabilità dell’istituito della clcd si è concretizzato nell’intervento della Suprema Corte a Sezioni Unite con la pronuncia delle quattro sentenze “gemelle” nelle quali si è individuato un metodo in base al quale è necessario verificare la funzione del beneficio collaterale per considerare possibile o meno il diffalco della somma sottostante al vantaggio, dal quantum liquidato come risarcimento del danno. In questo senso, quindi, solamente se il beneficio collaterale riveste la stessa funzione del risarcimento del danno sarà applicabile la compensatio lucri cum damno e impedito il cumulo delle due poste. Viceversa, nel caso in cui il danno e il vantaggio riposino su titoli differenti, l’operatività del principio della clcd dipende dalla “ragione giustificatrice”, ossia dalla funzione del beneficio collaterale che, in conseguenza dell’illecito, è entrato nel patrimonio del danneggiato.
Ciò che rileva, quindi, non è tanto la coincidenza formale dei titoli quanto, piuttosto, il collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria.
Al fine che qui interessa basti ricordare che il merito delle sentenze “Giusti” del 2018 fu proprio quello di offrire il tentativo di ordinare (quasi completamente) la disciplina applicabile in materia. In particolare si stabilì che nelle polizze contro i danni (artt. 1904 e ss. c.c.), poiché l’importo corrisposto al danneggiato-assicurato ha lo scopo di «rimuovere» il pregiudizio conseguente al danno, troverà operatività l’istituto della clcd; al contrario, nelle polizze sulla vita (artt. 1919 e ss. c.c.) si escluderà lo scomputo poiché in questo caso vi è una funzione «previdenziale», ossia uno scopo legato ad un’operazione di risparmio mediante pagamento dei premi al fine di «accumulare» una provvista finanziaria in favore degli eredi, ai quali l’assicuratore provvederà a liquidare un capitale secondo le previsioni contrattuali.
Sennonché nel caso posto alla Corte di Milano neppure le sentenze del 2018 hanno offerto un appiglio concreto per la risoluzione in quanto, nel caso di specie, si trattava, come si è visto, di una polizza infortuni, che peraltro nemmeno trova una puntuale disciplina a livello codicistico.
La questione circa la natura delle polizze infortuni non è emersa di recente. Infatti, a fronte di un orientamento interpretativo volto ad assimilare dette polizze alle assicurazioni contro i danni, si è fatta strada negli anni più recenti un’altra opinione tesa ad avvicinarle alla categoria delle assicurazioni sulla vita.
Una pronuncia della nomofilachia (Cass. sez. un., 10 aprile 2002, n. 5119) intervenne in materia, sia pure limitatamente alla questione dell’applicabilità dell’art. 1910 c.c. alle polizze infortuni, distinguendo quelle polizze volte a garantire il rischio di invalidità non mortali da quelle finalizzate a coprire l’evento morte. In quella sede si sancì che alle polizze che garantiscono il rischio di invalidità non mortali trovano prevalentemente applicazione le norme sull’assicurazione contro i danni; viceversa, con riferimento alle coperture assicurative contro infortuni mortali fu prevista l’applicazione delle norme sulla assicurazione sulla vita, considerato che vengono necessariamente stipulate dall’assicurato a vantaggio di un terzo beneficiario. Di conseguenza, solo l’evento morte – e non già il mero infortunio invalidante – rientrerebbe nel concetto di “evento attinente alla vita umana” di cui all’art. 1882 c.c..
Ed è proprio in tale passaggio che il Tribunale milanese va oltre alla giurisprudenza di legittimità. Infatti, la Corte milanese – non ammettendo questa automatica equiparazione – si discosta dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità ritenendo non condivisibile la sovrapposizione tra polizza infortuni non letali e assicurazione contro i danni disciplinata dagli artt. 1904 e ss. c.c., trattandosi di norme che fanno principalmente riferimento alla nozione di “res assicurata”, mentre nelle polizze infortuni viene in considerazione il “corpo umano” che non ha un valore oggettivamente valutabile.
La causa in concreto della polizza assicurativa e la rinuncia alla surroga
Due ulteriori brevi riflessioni. Per individuare la disciplina applicabile alle polizze infortuni è necessario verificare lo scopo pratico – i.e. la causa in concreto del contratto – perseguito dalle parti con la stipula del contratto assicurativo, ossia la funzione economico-individuale che questi ultimi hanno inteso perseguire con la convenzione tra loro stipulata e non lo schema astratto prescelto dai contraenti (Cass. sez. un., 24 settembre 2018, n. 22437).
Nel caso in esame, le parti contraenti hanno concordato che, in caso di invalidità permanente, la compagnia assicurativa sarebbe stata tenuta a corrispondere al danneggiato un risarcimento calcolato in percentuale rispetto alla somma assicurata. Allo stesso tempo, è stata inclusa una clausola in cui l’assicurazione rinuncia preventivamente al diritto di surrogarsi nei confronti di eventuali terzi responsabili. Le parti, quindi, hanno legato l’indennizzo assicurativo a un importo convenzionalmente stabilito, seguendo un modello più affine all’assicurazione sulla vita (dove l’indennità è correlata al capitale investito) piuttosto che al tradizionale schema dell’assicurazione danni alle cose (dove l’indennizzo è proporzionato al valore della res assicurata).
Inoltre, è proprio l’esclusione convenzionale del diritto di surroga dell’assicuratore a manifestare il reale intento perseguito dalle parti. Infatti, l’inserimento di detta clausola da un lato scongiura il rischio che il danneggiante non risponda delle proprie negligenze e, dall’altro, evita un’ingiusta locupletazione del danneggiato in ossequio al principio indennitario.
L’inserimento di una simile clausola evidenzia, dunque, l’intenzione delle parti contraenti di separare distintamente la questione del risarcimento (artt. 2043 e ss. c.c.) da quella dell’indennizzo, che nel caso specifico assume un carattere in qualche modo consolatorio, derivante dall’operatività della polizza assicurativa. In altre parole, le parti hanno concordato la rinuncia preventiva da parte dell’assicuratore al diritto di surrogarsi, stabilendo che in caso di infortunio causato dalla responsabilità di un terzo, l’assicurato avrebbe potuto richiedere sia il risarcimento del danno sia l’indennizzo assicurativo, accumulando così entrambe le forme di compensazione. Di conseguenza, se la previsione di una rivalsa trasforma il duplice, ma separato, rapporto bilaterale (danneggiante-danneggiato e assicuratore-assicurato) in una relazione trilaterale, l’esclusione convenzionale del diritto di surroga recide detta trilateralità, riportando la vicenda all’originaria doppia bilateralità.
Nel caso in esame, quindi, è stato ritenuto che il contratto assicurativo non assolvesse una funzione di neutralizzazione di un pregiudizio subito, quanto piuttosto ad una finalità previdenziale, volta a garantire all’assicurato una maggiore tranquillità economica al verificarsi di un evento avverso.
La pronuncia ben evidenzia, dunque, come l’applicazione del cd. principio indennitario non possa prescindere da una valutazione, caso per caso, dell’omogeneità dei crediti portati in compensazione, esaminata la finalità dello specifico contratto di assicurazione.
La decisione del Tribunale milanese in attesa di un (solerte) intervento delle Sezioni Unite
Sulla scia di quanto detto, il Tribunale di Milano giunge a negare l’applicazione della clcd sulla base di una qualificazione in termini previdenziali della polizza operante nella fattispecie oggetto di giudizio. Di conseguenza, la polizza infortuni stipulata dal danneggiato soggiace prevalentemente alle norme dettate per l’assicurazione sulla vita, giustificandosi così l’inoperatività del principio indennitario, con la conseguenza che dalla somma liquidata a titolo di risarcimento in favore dell’attore non dev’essere scomputato l’indennizzo corrisposto compagnia assicurativa.
In particolare, il Tribunale di Milano, fa riferimento alle modalità di liquidazione dell’indennità, calcolata in percentuale rispetto ad un capitale assicurato convenzionalmente stabilito dalle parti (e non in rapporto al «valore oggettivo» del «bene» leso dal sinistro) e all’esclusione della surroga in favore dell’assicuratore.
Quest’ultima previsione è, peraltro, di fondamentale rilievo in quanto, ove non pattiziamente derogato l’art. 1916, comma 4, c.c., tornerebbe ad operare il meccanismo generale della compensatio lucri cum damno. In effetti, se si prevedesse la clausola di rinuncia alla rivalsa, ma si ammettesse l’operatività della clcd, l’unico soggetto che si troverebbe beneficiato dal contratto assicurativo sarebbe paradossalmente il danneggiante, il quale potrebbe non dover corrispondere alcun risarcimento ove il danneggiato abbia già percepito un’indennità dalla propria compagnia assicurativa. Inoltre, nel caso in cui la parte responsabile abbia sottoscritto un’assicurazione per la propria responsabilità civile e contemporaneamente la parte danneggiata abbia stipulato una polizza infortuni, potrebbe verificarsi un «corto circuito». Questo perché entrambe le compagnie assicurative avrebbero un incentivo a evitare il pagamento dato che il primo che paga estingue il diritto dell’assicurato danneggiato, e quindi il secondo assicuratore non sarebbe più obbligato a versare alcun importo.
In conclusione, l’orizzonte entro cui si colloca l’indennizzo assicurativo erogato al verificarsi di una disgrazia accidentale dagli esiti non mortali spinge a sottolineare come l’indirizzo scomputatorio che la terza Sezione della Corte Suprema sembra applicare a oltranza, negando la perdurante esistenza di un contrasto che necessiterebbe l’intervento delle Sezioni Unite per essere risolto, non sia assolutamente una soluzione risolta dalla giurisprudenza di legittimità.
Per il Tribunale di Milano, spesso smentito dalla Corte di cassazione in relazione ai criteri di liquidazione del danno alla persona, è stata, quindi, (finalmente) l’occasione per porsi in consapevole e meditato confronto con le conclusioni dei giudici di legittimità in tema di compensatio lucri cum damno, un meccanismo che sembra essere una sorta di Giano Bifronte.
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Sommario
I nodi irrisolti dalla giurisprudenza di legittimità
La decisione del Tribunale milanese in attesa di un (solerte) intervento delle Sezioni Unite