Licenziamento illegittimo: il conseguimento della pensione di anzianità non implica l’impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro

11 Gennaio 2024

Il lavoratore il cui licenziamento sia stato giudizialmente dichiarato illegittimo, con conseguente obbligo di reintegrazione gravante sul datore di lavoro, mantiene il diritto a essere riassegnato alla propria posizione. Ciò, anche laddove questi sia già titolare di pensione di anzianità, elemento, dunque, non incompatibile con il diritto del lavoratore al ripristino del vincolo lavorativo.

Massima

In caso di disposizione di reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato a seguito della cessione del ramo di azienda, poi dichiarata inefficace, non integra causa di impossibilità della reintegrazione stessa il conseguimento della pensione di anzianità da parte del dipendente interessato, né il relativo risarcimento del danno spettante ex art. 18 St. Lav., può essere diminuito degli importi che questi abbia ricevuto, sino a quel momento, a titolo di pensione.

Il caso

Mancata reintegra del lavoratore licenziato illegittimamente e risarcimento del danno

A seguito della declaratoria di illegittimità e inefficacia della cessione del ramo di azienda intervenuto tra due società, era stato, altresì, disposto l'ordine di reintegra presso la cedente dei dipendenti coinvolti nell'operazione. Nonostante ciò, quest'ultima non aveva ottemperato a tale indicazione, e uno degli interessati aveva deciso di ingiungere alla cedente, tramite apposito decreto, il pagamento di una somma in suo favore a titolo di risarcimento dovuto proprio in ragione del mancato ripristino del rapporto di lavoro.

Chiamato a esprimersi sull'opposizione a tale decreto ingiuntivo, il Tribunale competente la respingeva. Diversamente, la Corte d'Appello di Roma, investita del caso, accoglieva le doglianze della società avverso il mancato accoglimento dell'opposizione menzionata, ritenendo che la titolarità in capo all'opposto del trattamento di pensione di anzianità implicasse la cessazione del rapporto di lavoro, così frustrando ogni richiesta risarcitoria connessa al mancato ripristino della prestazione lavorativa per volontà datoriale.

Contro tale decisione, proponeva ricorso in Cassazione il dipendente coinvolto.

Le questioni

Incidenza del trattamento di quiescenza sul mancato ripristino del rapporto di lavoro

Nel proprio ricorso introduttivo del giudizio di legittimità, il lavoratore rilevava, innanzitutto, l'esistenza del giudicato formatosi sulla sentenza dichiarativa dell'illegittimità della cessione del ramo di azienda cui era addetto e alla conseguente persistenza del suo rapporto di lavoro con la cedente. L'eccezione datoriale relativa al pensionamento e alla sua funzione estintiva di tale rapporto era stata addotta, infatti, solo in sede di procedimento monitorio.

In ogni caso, – affermava il ricorrente – la scelta di porsi in quiescenza non avrebbe dovuto considerarsi espressione del proprio disinteresse alla prosecuzione del rapporto di lavoro in argomento. Infatti, proseguiva il ricorrente, la Corte territoriale aveva erroneamente considerato che l'accesso al regime pensionistico fosse di per sé causa di cessazione del rapporto (mai ripristinato) con l'originale datore di lavoro, nonostante il vincolo lavorativo fosse ancora sussistente in virtù del giudicato di legittimità precedentemente intervenuto.

Le soluzioni giuridiche

Rapporto tra rendita pensionistica, mancata reintegra e indennità risarcitoria

In primo luogo, la Suprema Corte, richiamando un proprio orientamento (ex Cass. n. 16136/2018), ha aderito alle tesi del ricorrente, ribadendo che il conseguimento della pensione di anzianità non integri una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, in quanto «la disciplina legale dell'incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul diverso piano del rapporto previdenziale, determinando la sospensione dell'erogazione della prestazione pensionistica, ma non comporta l'invalidità del rapporto di lavoro».

Gli Ermellini, dunque, hanno evidenziato come sia necessario mantenere la distinzione tra la capacità e l'interesse lavorativi dell'ex dipendente (entrambi ancora attuali, all'epoca dei fatti del caso di specie) e la possibilità che quest'ultimo possa continuare a percepire le somme dovute in virtù della pensione di vecchiaia. Se – spiegano i giudici di legittimità – sul piano formale l'accesso a una posizione non esclude la possibilità di rivendicare l'altra, è, invero, dal punto di vista previdenziale che le due posizioni sono incompatibili tra loro. Infatti, la cessazione dell'attività lavorativa è sì condizione necessaria per l'erogazione della rendita pensionistica, ma non per questo può ritenersi incompatibile la scelta del pensionamento con il diritto del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro con il datore cedente.  

Inoltre, hanno proseguito gli Ermellini, la distinzione appena analizzata deve essere applicata anche al momento della quantificazione del risarcimento del danno dovuto al dipendente illegittimamente licenziato, ai sensi dell'art. 18 l. n. 300/1970. Infatti, non deve essere applicata all'ammontare computato in base al disposto di tale norma la deduzione delle somme sino a quel momento percepite in forza della pensione di vecchiaia, in quanto l'aliunde perceptum non può considerarsi compensativo del danno arrecato, poiché a tale fine non va considerato qualsiasi reddito percepito durante il protrarsi degli effetti del licenziamento illegittimo, «bensì solo quello conseguito attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa».

A corroborare la propria tesi, la Suprema Corte ricorda, inoltre, che in caso di illegittimità della cessione di ramo di azienda, il rapporto di lavoro tra società cedente e dipendente ceduto non può dirsi davvero estinto, poiché in tal caso esso resta, difatti, quiescente sino alla declaratoria giudiziale della illegittimità stessa. In ragione di ciò, la relazione lavorativa nella quale il ricorrente avrebbe dovuto essere reintegrato, va considerata come ancora esistente, a differenza di quanto sarebbe accaduto, invece, all'interno di una operazione di cessione legittima, in virtù della quale il vincolo lavorativo sarebbe stato ceduto e rimasto immutato, senza soluzione di continuità ex art. 2112 c.c. Pertanto, esistendo ancora la relazione tra la società (illegittimamente) cedente e il lavoratore, ben si sarebbe potuto procedere alla reintegrazione di quest'ultimo nella posizione precedentemente ricoperta. A maggior ragione, laddove si consideri che il «diritto a pensione discende dal verificarsi dei requisiti di età e di contribuzione stabiliti dalla legge, e non si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro».   

Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte territoriale, e ha rinviato a quest'ultima, in diversa composizione, la decisione nel merito.

Osservazioni

Compatibilità dell'accesso al regime pensionistico con il diritto al ripristino del vincolo lavorativo

Nell'ordinanza in argomento, la Suprema Corte ha ribadito un orientamento già consolidato, in virtù del quale è pacifico che non si verifichi, in via automatica, un'incompatibilità tra la domanda di ricostituzione del rapporto di lavoro e il conseguimento della pensione di anzianità.

Con la decisione in commento, dunque, gli Ermellini hanno evidenziato come il dipendente che abbia maturato l'anzianità contributiva necessaria al pensionamento possa scegliere se avvalersi di un tale trattamento e ritirarsi dall'attività lavorativa o meno. In ogni caso, anche avendo raggiunto i requisiti necessari a poter esercitare detta scelta, essa resta una facoltà del dipendente stesso, che mantiene il proprio diritto a rinunciarvi in casi quali quello in esame, fatta salva la perdita del relativo trattamento economico.

Merita di essere segnalato, infine, anche l'obiter dictum dell'ordinanza, nel quale è specificato che il rapporto di lavoro con la società cedente debba considerarsi in stato di quiescenza per il periodo intercorrente tra la cessione e la dichiarazione della relativa illegittimità. Una considerazione che, come nel caso di specie, appresta in favore del lavoratore una tutela particolarmente pregnante, anche in considerazione dell'orientamento ormai consolidato della medesima Corte che ritiene applicabile il termine prescrizionale ordinario decennale – e non la decadenza breve disposta dal Collegato Lavoro – alla domanda del lavoratore illegittimamente trasferito.

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