Inibitoria inammissibile o infondata: la sanzione pecuniaria irrogabile all’appellante ha natura di pena
15 Gennaio 2024
Massima In caso di inammissibilità o manifesta infondatezza dell'istanza inibitoria in appello, la conseguente sanzione pecuniaria, irrogata allo scopo di sanzionare l'abuso dello strumento processuale, ha natura di pena, sicché, esulando dalla responsabilità processuale ex art. 96 c.p.c., l'ammontare inflitto a titolo di sanzione ex art. 283, comma 2 (attualmente comma 3 – n.d.r.), c.p.c., in caso di revoca di quest'ultima all'esito del giudizio, non può essere fatto gravare sulla controparte appellata, ove soccomba nella fase. Il caso AAA conveniva in giudizio BBB e CCC, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni sofferti in ragione di vizi occulti gravanti sull'immobile dagli stessi vendutogli. Il Tribunale adito accoglieva la domanda. La sentenza subiva integrale riforma in sede di gravame. La Corte di merito rigettava la domanda dell'originario attore ritenendo che i denunciati vizi dell'immobile vendutogli non fossero occulti e, inoltre, lo condannava al rimborso, in favore degli appellanti, della somma da costoro pagata ai sensi dell'art. 283 c.p.c. a titolo di sanzione conseguente al rigetto della loro istanza di sospensione della provvisoria esecutività dell'efficacia della sentenza di primo grado. Avverso tale pronuncia AAA proponeva ricorso per cassazione. La questione La questione che interessa in questa sede è consistita nello stabilire quale fosse la natura della sanzione pecuniaria irrogabile, e in concreto irrogata, alla parte appellante ai sensi dell'art. 283, comma 2 (attualmente comma 3), c.p.c., e se la stessa, dopo essere stata revocata in ragione dell'accoglimento dell'impugnazione, potesse essere fatta gravare (mediante «restituzione») sulla parte appellata qualora quest'ultima fosse rimasta soccombente nella fase di gravame. Le soluzioni giuridiche La decisione della Corte di merito di condannare la parte appellata, soccombente in sede di gravame, al rimborso in favore dell'appellante della somma da quest'ultimo corrisposta a seguito del rigetto dell'istanza di sospensione della provvisoria esecutività della sentenza impugnata è stata ritenuta viziata da violazione di legge. La Suprema Corte ha affermato che la sanzione pecuniaria applicabile nei casi di istanza di inibitoria inammissibile o manifestamente infondata è irrogata in favore della Cassa delle ammende «allo scopo di sanzionare l'abuso dello strumento processuale» e che la stessa costituisce una «pena», sia perché così denominata dalla norma, sia in considerazione sia in ragione dei relativi caratteri, in specie la «forbice dell'ammontare», tipica del carattere punitivo «e non conciliabile con una diversa funzione compensativa di un pregiudizio arrecato alla controparte». Ciò stante, «esulando dalla responsabilità processuale ex art. 96 c.p.c.», doveva escludersi che, in caso di revoca dell'ordinanza applicativa (ex art. 283 c.p.c.) della sanzione, il relativo ammontare dovesse essere restituito dalla controparte appellata, «a cui non è certamente corrisposto». Osservazioni i) Preliminarmente, deve annotarsi che le norme che disciplinano la materia in oggetto, vale a dire gli artt. 283 e 351 c.p.c., hanno subito modifiche ad opera del d.lgs. n. 149/2022, peraltro essenzialmente in relazione a parti diverse da quella contenente la previsione dell'irrogazione di pena pecuniaria nei casi di istanza di inibitoria inammissibile o manifestamente infondata, venendo unicamente esplicitato – con «codificazione» della prassi – che il soggetto a cui favore deve avvenire il pagamento della sanzione è da identificare nella della Cassa delle ammende. Deve, altresì, rammentarsi, per quanto di interesse, che, ai sensi dell'art. 35, comma 4, del d.lgs. n. 149/2022 (come riformulato dall'art. 1, comma 380, della legge n. 197/2022), le norme in materia di appello (capi I e II del titolo III del libro secondo del codice di rito), come modificate dal d.lgs. citato, si applicano alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023, mentre ai procedimenti pendenti al 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti. ii) L'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza impugnata deve essere proposta, ineludibilmente, con gli atti introduttivi del giudizio di appello (pertanto, non con atti separati); peraltro, ai sensi dell'art. 283, comma 2, c.p.c. (introdotto dal d.lgs. n. 149/2022 e applicabile ai procedimenti di gravame instaurati a decorrere dal 1° marzo 2023), l'istanza «può essere proposta o riproposta nel corso del giudizio di appello se si verificano mutamenti nelle circostanze, che devono essere specificamente indicati nel ricorso, a pena di inammissibilità». iii) Con riguardo ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023, l'accoglimento dell'istanza di inibitoria è subordinato alla dimostrazione della sussistenza di «gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti», venendo ritenuto necessario che i requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora ricorrano cumulativamente e non alternativamente (v. App. Napoli, sez. I, 1 giugno 2018, Redaz. Giuffrè 2018). Con riguardo ai procedimenti instaurati successivamente alla suddetta data, l'accoglimento dell'istanza deve (la norma reca il termine «sospende») avvenire a condizione che l'impugnazione appaia manifestamente fondata oppure se dall'esecuzione della sentenza possa derivare un pregiudizio grave e irreparabile, pur quando la condanna abbia ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti. iv) Ai sensi dell'art. 283, ultimo comma, c.p.c. (comma 2 nella versione originaria, comma 3 nella versione introdotta dall'art. 3 del d.lgs. n. 149 del 2022), qualora l'istanza di inibitoria sia ritenuta inammissibile (perché, ad es., non proposta nelle forme e nei termini previsti dal codice, vale a dire con l'appello principale o incidentale) o manifestamente infondata (perché, ad es., palesemente pretestuosa), il giudice, con ordinanza non impugnabile, «può» condannare la parte che l'ha proposta «al pagamento in favore della cassa delle ammende» [come sopra – sub i) - chiarito, tale destinazione è stata semplicemente «ufficializzata» dal d.lgs. citato, essendo stata, di fatto, sempre in uso] di una pena pecuniaria non inferiore a Euro 250,00 e non superiore a Euro 10.000,00. La relativa ordinanza è, peraltro, revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. v) La ratio della disposizione attualmente vigente, comune a quella della disposizione (peraltro «meno pretenziosa» per quanto inerente ai presupposti della sospensione) preesistente, è quella di garantire l'immediata esecutività della sentenza di primo grado, disincentivando le istanze di sospensione infondate o irrituali. vi) Per ciò che concerne la natura della suddetta sanzione, la Suprema Corte ha chiarito che si tratta di una vera e propria «pena» e tale pensiero, adeguatamente motivato (v. il precedente paragrafo), non può non riscuotere assenso «universale». La sanzione – e ciò costituisce ulteriore conferma della sua natura punitiva - deve essere corrisposta in favore della Cassa delle ammende e la possibilità che l'ordinanza applicativa sia revocabile con la sentenza (sottinteso: di accoglimento del gravame) che definisce il giudizio (previsione che viene ritenuta «compensativa» dell'espressa non impugnabilità dell'ordinanza) non implica l'onere di restituzione a carico della parte appellata che, nulla essendole stato corrisposto, nulla deve restituire, restando del tutto estranea al meccanismo sanzionatorio; né potendosi far valere al riguardo altri titoli, tanto meno quello della responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., prevista in tutt'altri ambiti. |