Questioni di legittimità costituzionale sulla responsabilità limitata del socio

Giovambattista Palumbo
15 Gennaio 2024

La Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Udine solleva una questione di legittimità costituzionale relativamente alla norma (del Tuir) che attribuisce i redditi di una s.a.s. ai soci accomandanti “indipendentemente dalla percezione”, in quanto produrrebbe una disparità di trattamento tra la posizione del socio sul piano fiscale e quella civilistica.

Massima

Rispetto alla responsabilità civilistica limitata del socio accomandante, la più ampia responsabilità fiscale rappresenta un'eccezione giustificata dalla constatazione che i redditi prodotti dalla società di persone non sono redditi della società ma redditi dei soci. Il debito tributario non è quindi in tal caso un debito della società, per il quale appunto il socio risponderebbe nei limiti della quota conferita, ma un debito del socio, per il quale allora risponde con tutti i suoi beni. Secondo la Corte, andrebbe allora però verificato se la scelta del legislatore, per cui il reddito prodotto dalla società in accomandita semplice è reddito del socio accomandante indipendentemente dalla sua percezione, sia una scelta razionale e giustificata alla luce dei principi di uguaglianza, capacità contributiva e diritto di difesa.

Il caso

La Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Udine, con l'Ordinanza in commento, ritenendo rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3,53 e 24 Cost., dell'art. 5, comma 1, d.p.r. n. 917/1986, nella parte in cui attribuisce i redditi della società in accomandita semplice ai soci accomandanti “indipendentemente dalla percezione”, ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, sospendendo il giudizio fino all'esito del giudizio incidentale di costituzionalità.

Nel caso di specie, la ricorrente, persona fisica e socia accomandante di una Sas, aveva impugnato l'avviso di accertamento notificatole dall'Agenzia delle Entrate, con il quale era stato accertato il maggior reddito prodotto dalla società in accomandita, di cui socio accomandatario era il marito separato della contribuente.

La ricorrente evidenziava di avere interrotto da molti anni ogni rapporto con il marito e di essere da allora del tutto estranea alla sua attività economica, negando di avere mai percepito alcun reddito eventualmente prodotto dalla detta società.

L'Amministrazione finanziaria rilevava, per parte sua, che, in diritto, il reddito delle società di persone viene imputato a ciascun socio, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili “indipendentemente dalla percezione”, in forza del c.d. principio di trasparenza posto dall'art. 5, comma 1, del Tuir. Pertanto, la mancata percezione del reddito da parte del socio di società di persone era comunque irrilevante ai fini del caso in esame.

Secondo la Corte di primo grado, tuttavia, si poneva una questione di legittimità costituzionale, avuto riguardo:

  1. alla doppia disparità di trattamento che subisce il socio accomandante quanto alla sua posizione fiscale (rispetto a quella civilistica), laddove, da un lato, questa viene equiparata a quella dei soci illimitatamente responsabili, mentre, ex art. 2313, comma 1, c.c., la sua responsabilità dovrebbe essere limitata alla quota conferita; e, dall'altro, resta differenziata rispetto alla posizione dei soci di società a responsabilità limitata, i quali si trovano in una situazione analoga anche dal punto di vista dei diritti di controllo sulla gestione della società che non sia da loro amministrata (artt. 2320, comma 3, e 2476, comma 2, c.c.);
  2. alla irrilevanza del reddito prodotto dalla società ai fini della capacità contributiva di un socio, che, estraneo ex lege sia all'amministrazione che alla responsabilità della società, non abbia effettivamente percepito la quota a lui spettante di quel reddito;
  3. alle concrete difficoltà in cui si viene comunque a trovare il socio accomandante, estraneo all'amministrazione sociale e alla fase istruttoria dell'accertamento a carico della società, nell'esercitare il proprio diritto di difesa.

La questione

La Corte rimettente è consapevole che il tema è già stato sollevato davanti alla Corte Costituzionale, che se ne è occupata da ultimo con la sentenza n. 201 del 2020, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, in quell'occasione, dalla Commissione Tributaria Provinciale di Genova in ordine all'art. 5 cit., relativamente agli artt. 2,23,53 e 113 Cost.

Tuttavia, rileva la CGT, tale decisione (come altre precedenti: Corte Cost. nn. 181/2017, 53/2001, 5/1998 e 410/1995) avrebbe affrontato la questione da un altro punto di vista, con particolare, ma indifferenziato, riferimento al trattamento dei soci di società di persone “non amministratori”, senza però rivolgere attenzione alla specifica situazione del socio accomandante, anche alla luce delle previsioni civilistiche di cui all'art. 2320, commi 1 e 2, c.c. (non ingerenza nella gestione sociale) e 2313, comma 1, c.c. (responsabilità dei debiti della società nei limiti della quota conferita).

Rispetto alla responsabilità limitata del socio accomandante, evidenzia la CGT, la più ampia responsabilità fiscale rappresenta una eccezione, giustificata dalla constatazione che i redditi prodotti dalla società di persone non sono “redditi della società”, ma redditi dei soci, con la conseguenza che il debito tributario non è un debito della società, per il quale appunto il socio risponderebbe nei limiti della quota conferita, ma piuttosto un debito del socio, per il quale allora risponde, ex art. 2740, comma 1, c.c., con tutti i suoi beni.

Stando così i termini giuridici della questione, rileva la Corte, andrebbe allora però verificato se la scelta del legislatore, per cui il reddito prodotto dalla società in accomandita semplice è reddito del socio accomandante indipendentemente dalla sua percezione, sia una scelta razionale e giustificata alla luce dei detti principi di uguaglianza, capacità contributiva ed eventualmente diritto di difesa.

Le soluzioni giuridiche

A proposito del principio di uguaglianza, il trattamento differenziato rispetto alle S.r.l., anche a ristretta base sociale, deriverebbe dalla diversità strutturale tra i due generi di società, essendo attribuita solo alle società di capitali la personalità giuridica con autonomia patrimoniale perfetta, mentre per le società di persone non sarebbe configurabile una soggettività distinta della società rispetto ai soci (cfr., Corte Cost. n. 201/2020). Secondo i giudici di merito, tuttavia, tale netta distinzione non esiste più ormai, non sussistendo tra le due tipologie di società una “decisiva linea di confine”.

La CGT evidenzia poi come, anche all'interno delle società di persone, per quanto riguarda i poteri di controllo attribuiti ai soci non amministratori, la disciplina delle società semplici e delle società in nome collettivo è sensibilmente diversa da quella dettata per le società in accomandita semplice, dato che solo i soci delle prime hanno diritto di avere notizia “in qualsiasi momento” dello svolgimento degli affari sociali (art. 2261 c.c.).

Inoltre solo per i soci accomandanti vale il divieto legale di ingerirsi nell'amministrazione della società; divieto al quale è strettamente collegato il beneficio della responsabilità limitata per le obbligazioni sociali (che infatti non compete invece ai soci della società in nome collettivo che non partecipano all'amministrazione della stessa).

Ai fini fiscali tutte queste differenze, invece, non rilevano, equiparandosi, ai fini dell'imposta sul reddito, il socio accomandante agli altri soci delle altre tipologie di società di persone. E questo, secondo la Corte, determina quanto meno un “sospetto di incostituzionalità”.

Così come, sotto altro profilo, non appare giustificata (o comunque non appare più giustificata, soprattutto dopo la riforma del diritto societario del 2003) la differenziata disciplina fiscale (tranne i casi di opzione ex artt. 115 e 116 del Tuir), ai fini dell'imposta sul reddito, tra socio accomandante e socio di S.r.l., laddove, ex art. 2476, comma 2, c.c., i poteri di controllo attribuiti ai soci della S.r.l. sono addirittura più invasivi di quelli attribuiti ai soci accomandanti della Sas (e simili a quelli attribuiti ai soci delle Snc).

A tal proposito, del resto, la CGT ricorda che la giurisprudenza di legittimità avalla ormai una presunzione semplice di distribuzione degli utili ai soci di S.r.l. a ristretta base azionaria in proporzione alle rispettive quote, con onere della prova a carico del socio, che comunque viene ammesso alla possibilità di dimostrare di non averli percepiti.

Il “limite della non arbitrarietà” della scelta del legislatore fiscale, quanto ai soci accomandanti di Sas, potrebbe allora essere rispettato estendendo tale possibilità anche al socio accomandante.

E questo anche al fine di superare il “sospetto di incostituzionalità” rispetto all'art. 53 Cost., in termini di capacità contributiva, non giustificabile, secondo la CGT, neppure in vista di una possibile elusione di imposta, agevolata dal minore livello di formalizzazione e dall'assenza dei più rigorosi obblighi contabili previsti per le società di capitali.

Alla luce di tali considerazioni, in definitiva, secondo la CGT di Udine, le prospettate questioni di rilevanza costituzionale dovrebbero essere oggetto di più approfondita analisi.

Osservazioni

Come detto, la Corte Costituzionale, con la Sentenza 17 settembre 2020, n. 201, aveva già dichiarato la legittimità costituzionale del principio di trasparenza applicato nell'ambito delle società di persone.

Nel caso di specie, le questioni erano sorte nel corso di due giudizi, promossi proprio da un socio accomandante di una società in accomandita semplice, avverso due avvisi di accertamento per maggiori imposte emessi dall'Agenzia delle Entrate nei confronti della società e dei soci.

In punto di fatto, la CTP rimettente riteneva dimostrato che, a suo tempo, il contribuente non aveva ricevuto, dal socio accomandatario, informazioni circa l'andamento della gestione della società, e che lo stesso contribuente non aveva percepito alcun reddito derivante dalla partecipazione societaria.

In punto di diritto, la CTP muoveva dalla premessa interpretativa che l'art. 1 del Tuir richiede, in generale, per l'applicazione dell'imposta sui redditi delle persone fisiche, il possesso, inteso come «materiale disponibilità di fruirne» ovvero come «capacità di disporne», dei redditi «in danaro o in natura», laddove invece il successivo art. 5 dello stesso testo unico prevede, ai fini della medesima imposta, che i redditi prodotti in forma associata tramite società di persone residenti sono imputati a ciascun socio «indipendentemente dalla percezione» (imputazione per trasparenza), così configurando una presunzione assoluta di attribuzione a tali soci dei redditi societari.

La Commissione rimettente dichiarava, pertanto, di prospettare il dubbio di costituzionalità, limitatamente alle parole “indipendentemente dalla percezione”, per violazione, per quanto di interesse:

a) dell'art. 3, primo comma, Cost., per la disparità di trattamento che in tal modo si sarebbe determinata tra i soci delle società di persone, che sono assoggettati all'IRPEF pur non avendo conseguito alcun reddito (quantomeno nell'«annualità di competenza»), da un lato, e «tutti gli altri soggetti egualmente privi di reddito, che ne sono invece esclusi», dall'altro;

b) dell'art. 24, comma 2, Cost., perché il socio delle società di persone, non percettore di reddito da partecipazione, in quanto «impossibilitato a dimostrare di non aver conseguito alcun reddito», sarebbe stato leso nel proprio «diritto alla prova in giudizio»;

c) dell'art. 53, comma 1, Cost., perché il socio delle società di persone, ove non percettore di reddito da partecipazione, sarebbe stato ugualmente assoggettato all'IRPEF, in contrasto con il principio di capacità contributiva.

Secondo i giudici della Consulta, le questioni sollevate non erano tuttavia fondate.

La Corte Costituzionale evidenziava infatti che le società di persone residenti e gli enti ad esse assimilati non costituiscono un autonomo soggetto passivo d'imposta, ma sono assunti alla stregua di centri di riferimento per la determinazione del reddito, che viene attribuito ai soci al termine dell'esercizio e in base alle rispettive quote di partecipazione agli utili.

Questa scelta legislativa, rileva ancora la Corte, trova peraltro giustificazione in relazione a diversi profili riconducibili all'interesse fiscale dello Stato alla percezione dei tributi, anch'esso tutelato dall'art. 53, comma 1, Cost. (cfr., Corte Costituzionale, sentenza n. 181/2017), risultando tale meccanismo impositivo, da un lato, rispondente a esigenze di cautela fiscale, e, dall'altro, funzionale ad esigenze di semplificazione, permettendo di evitare duplicazioni dell'imposizione (in capo alla società, sotto forma di utile, e in capo al socio, sotto forma di dividendo) con riguardo a soggetti, i soci delle suddette società, che esplicano i loro poteri in modo diretto e sono a queste legati da un particolare vincolo di natura personale.

In base a tale scelta legislativa, che la Consulta reputava legittima, il presupposto di imposta si realizza, quindi, in capo ai soci e non alla società. E il socio diventa così l'unico soggetto passivo dell'imposta personale, avendo in realtà dichiarato un reddito proprio, ancorché il presupposto dell'imposizione si verifichi unitariamente presso l'ente collettivo che lo produce e lo dichiara e costituendo tale principio espressione della giuridica irrilevanza della soggettività delle società di persone in campo tributario.

Secondo la Consulta, in sostanza, il presupposto interpretativo del giudice rimettente era errato, dato che il reddito, quale sicuro indice di capacità contributiva, costituisce in realtà una entità conseguente alle regole di determinazione disposte dal legislatore tributario in ragione delle specifiche caratteristiche delle singole categorie di cui all'art. 6 del Tuir (redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, di impresa e redditi diversi). E in questo schema impositivo non solo alcuni redditi non coincidono con una “res” (il reddito d'impresa, ad esempio, in forza dell'art. 83 del Tuir è costituito da un dato contabile, tra l'altro regolato in base al principio di imputazione temporale della competenza e non a quello di cassa; e i redditi fondiari possono rappresentare un dato anche solo figurativo), ma il termine stesso di possesso assume un significato differente nell'ambito delle singole categorie reddituali.

Infatti, il termine possesso impiegato dall'art. 1 del Tuir non ha il significato tecnico che ha nel codice civile, né ha un significato tecnico-tributario, uniforme per tutte le categorie reddituali, avendo volutamente il legislatore utilizzato il termine «possesso», nell'art. 1 del Tuir, con riferimento all'imposta sul reddito, in senso atecnico.

La Corte Costituzionale concludeva dunque che quest'ultimo non coincide né con la nozione civilistica, né con quella della materiale disponibilità del reddito, laddove la norma censurata esclude la soggettività passiva tributaria della società di persone con una connotazione strutturale dell'ente ai fini tributari e non con una "presunzione" di distribuzione degli utili.

L'esercizio del diritto di difesa potrà, del resto, pienamente esplicarsi contestando, nel merito, l'accertamento del reddito societario, o anche la propria qualità di socio, laddove proprio il meccanismo d'imputazione "per trasparenza" e la tassazione del socio «indipendentemente dalla percezione» del reddito hanno portato la giurisprudenza di legittimità ad affermare il litisconsorzio necessario tra società e soci, al fine di consentire appunto, con pienezza di contraddittorio, la verifica in concreto del presupposto impositivo.

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