Alla Corte Cost. il dies a quo della decorrenza del termine quinquennale di prescrizione dell’azione di responsabilità verso il revisore legale

18 Gennaio 2024

Il Tribunale di Milano solleva questione di legittimità costituzionale in merito alla disciplina speciale (di cui al d.lgs. n. 39/2010) in materia di decorrenza del termine di prescrizione nel caso in cui l'azione di responsabilità sia esercitata nei confronti di un revisore legale dei conti.

Massima

La Sezione Specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano, con l''ordinanza in commento, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, come modificato dall'art. 17 del D.Lgs. 17 luglio 2016, n. 135, “nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione delle azioni nei confronti di revisori e società di revisione decorre dalla data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione cui si riferisce l'azione di risarcimento”.

Il caso

Il curatore di un fallimento, dichiarato in data 24 ottobre 2013, ha promosso azione di responsabilità nei confronti degli ex amministratori, dell'organo di controllo e del revisore legale della società fallita per ottenere il risarcimento dei danni che essi avrebbero provocato al patrimonio sociale attraverso svariate condotte.

I convenuti hanno eccepito l'intervenuta prescrizione dell'azione proposta.

Tra questi, ha sollevato l'eccezione di prescrizione anche il revisore legale, invocando l'applicazione del disposto di cui all'art. 15, comma 3, D.Lgs. n. 39 del 2010, il quale, come anticipato, fa coincidere il decorso del termine quinquennale di prescrizione con la data del deposito della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione sui si riferisce la richiesta di risarcimento.

Come osservato dal Tribunale, l'ultimo bilancio precedente alla dichiarazione di fallimento era quello al 31 dicembre 2012 e la relazione del revisore era datata 14 giugno 2013.

Pronunciandosi sull'eccezione di prescrizione sollevata dagli amministratori, tuttavia, il Collegio ha escluso che da detto bilancio avrebbe potuto trarsi la prova della oggettiva conoscibilità dello stato di insufficienza patrimoniale della società, perché il patrimonio netto ivi indicato risultava comunque positivo per € 470.000,00, suscitando così il legittimo affidamento dei terzi circa l'idoneità dell'attivo a soddisfare i crediti vantati nei confronti della società poi fallita.

Il Tribunale ha poi riconosciuto che, essendo l'ultima relazione a firma del revisore convenuto in giudizio - quella relativa al bilancio d'esercizio al 31 dicembre 2012, datata 14 giugno 2013 - anteriore di oltre un quinquennio rispetto alla notifica dell'atto di citazione, avvenuta in data 17 ottobre 2018, l'azione nei confronti del medesimo revisore avrebbe dovuto essere considerata prescritta ai sensi del menzionato art. 15, comma 3, D.Lgs. n. 39 del 2010.

Come accennato, tuttavia, il Collegio ha ritenuto di dover sollevare questione di legittimità costituzionale proprio in relazione alla norma che ha introdotto la disciplina speciale della prescrizione dell'azione di responsabilità dei revisori legali, rilevante per la definizione del caso di specie.

Le questioni

Il Tribunale milanese, dunque, ha affrontato la questione della compatibilità della norma di cui al comma 3 dell'art. 15 del D.Lgs. n. 39 del 2010 con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. e con il diritto alla difesa di cui all'art. 24 Cost.

Il Collegio ha osservato, anzitutto, che la normativa di cui al richiamato decreto legislativo - eccezionale rispetto alla disciplina generale con riferimento sia alla durata (art. 2946 c.c.) sia alla decorrenza (art. 2935 c.c.) del termine di prescrizione  - è completa ed esaustiva e, pertanto, non è consentito, con riferimento a tali due aspetti della disciplina, fare ricorso all'interpretazione di tipo analogico o costituzionalmente orientata (il richiamo è alle pronunce Corte cost., n. 221 del 2019 e n. 102 del 2021, che la escludono se contrastante con le chiare intenzioni del legislatore).

Al contempo, il Tribunale ha espresso l'opinione che le norme in materia di prescrizione dei diritti risarcitori della società e dei creditori sociali verso amministratori e sindaci, non derogando alle norme generali, ben possano costituire il tertium comparationis rispetto al quale valutare la ragionevolezza dello speciale regime prescrizionale previsto dall'art. 15, comma 3, D.Lgs. n. 39 del 2010.

I Giudici della Sezione Specializzata in materia di impresa hanno quindi rivolto l'attenzione alla natura dei danni provocati dal revisore alla società, ai soci o ai terzi, rilevando come essi si sostanzino in “danni lungolatenti”, che si verificano e si manifestano anche a notevole distanza di tempo rispetto al momento del comportamento lesivo, cioè il deposito della relazione che attesti falsamente - a mezzo del relativo giudizio positivo - la conformità alla legge di un bilancio.

Oltre a ciò, si è rilevato che proprio il carattere decettivo della medesima relazione può ostacolare e dunque allontanare nel tempo la conoscenza del danno provocato (anche) dal revisore.

Infatti, l'accertamento del danno derivante dalla erronea o negligente applicazione delle norme in materia di revisione contabile, caratterizzato da particolare complessità tecnica, è suscettibile di venire alla luce anche dopo molti anni, per giunta allorquando coloro che hanno tenuto i comportamenti dannosi hanno già lasciato il loro incarico.

Nella prospettiva del Tribunale milanese, le differenziazioni in punto di prescrizione tra la disciplina delle azioni di responsabilità esperibili nei confronti dei revisori e quelle esperibili nei confronti di amministratori e sindaci si mostrano dunque irragionevoli, potendo determinare un concreto ostacolo all'esercizio dei diritti risarcitori di cui all'art. 24 Cost. da parte della società, dei soci e dei terzi: il termine fisso di cui al comma 3 dell'art. 15 D.Lgs. n. 39 del 2010, in sostanza, è individuato senza alcun rapporto con la manifestazione del danno, conferendo così rilevanza a fini prescrizionali ad un periodo di tempo (quello tra la data della relazione di revisione ed il momento dell'effettiva conoscenza del danno da parte del danneggiato), potenzialmente in grado di estinguere il diritto, senza però che al medesimo danneggiato sia imputabile alcuna inerzia.

Non solo.

In molti casi, al momento del deposito della relazione di revisione, il danno potrebbe non essere neppure sorto, sicché il termine prescrizionale potrebbe decorrere addirittura senza che in quel momento sia (ancora) configurabile una responsabilità risarcitoria in capo al revisore.

Per tutto quanto sin qui considerato, come anticipato, il Giudice a quo ha ravvisato:

(i) un aspetto di irragionevole discriminazione rispetto alla disciplina del decorso del termine prescrizionale previsto per le azioni di responsabilità verso amministratori e sindaci;

(ii) un profilo di irragionevolezza intrinseca della previsione normativa censurata.

Con riguardo al primo aspetto, infatti, si è sottolineato che non pare configurabile alcuna giustificazione per il trattamento differenziato dell'estinzione dei diritti risarcitori riferiti a comportamenti di amministratori e sindaci, da una parte, e dei revisori, dall'altra (spesso, peraltro, tra loro concorrenti).

Con riguardo al secondo aspetto, si è affermato che la norma censurata, consentendo la decorrenza del termine prescrizionale anche nell'ipotesi in cui il (potenziale) danneggiato non sia ancora titolare del diritto risarcitorio o non possa essere solerte nell'esercizio dello stesso, perché il danno non si è ancora prodotto o perché il danneggiato ancora non può esserne a conoscenza, entrerebbe in contrasto con la propria ratio giustificatrice.

Osservazioni

L'ordinanza in commento desta profili di notevole interesse soprattutto in ordine alla precisa distinzione dei due limiti che l'art. 3, comma 1, Cost. pone al legislatore nell'esercizio della sua discrezionalità: l'uno, c.d. “di coerenza” (in questi termini, RUGGERI - SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2004, 154 ss.), correlato al principio costituzionale di eguaglianza formale, che impone la valutazione della congruenza della disciplina censurata con quella posta da altre disposizioni dell'ordinamento; l'altro, c.d. “di ragionevolezza” (cfr. CERRI, Ragionevolezza delle leggi, in Enc. Giur., XXV, Roma, 1994; MOSCARINI, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, Torino, 1996, 109 ss.), correlato, appunto, al corrispondente principio costituzionale, che impone la valutazione della razionalità intrinseca della disposizione.

Il criterio comparativo, o “di coerenza”, è il primo utilizzato dal Tribunale, il quale - già in premessa - ha dichiarato di utilizzare quale tertium comparationis ai fini del giudizio di eguaglianza la disciplina della decorrenza del termine prescrizionale dei diritti risarcitori fatti valere nei confronti di amministratore e sindaci.

Il Tribunale ha proceduto a censurare l'irragionevolezza della differenziazione del regime prescrizionale dell'azione di responsabilità nei confronti dei revisori rispetto a quello delle azioni contro amministratori e sindaci: le significative affinità sistematiche tra le azioni risarcitorie in parola ben dovrebbero, al contrario, giustificare un'identità di disciplina.

Degna di nota, inoltre, è la ulteriore censura di “irragionevolezza intrinseca” mossa alla norma alla stregua del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., fondata sulla considerazione che essa, consentendo la decorrenza della prescrizione pur nell'ipotesi in cui il danno non si sia ancora verificato o il danneggiato non possa averne avuto coscienza, contrasti irrimediabilmente con la ratio stessa della prescrizione: ancorare sempre e comunque il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione alla relazione del bilancio d'esercizio significa riconoscere cittadinanza ad una presunzione di inerzia del soggetto danneggiato, al quale verrebbe imposto di attivarsi per il risarcimento di un danno che potrebbe non essersi neppure manifestato, e ciò in spregio alla ratio dell'istituto della prescrizione.

La pronuncia in commento induce ad una riflessione circa il ruolo ricoperto nell'ordinamento dal principio contenuto nell'art. 2935 c.c., sovente espresso nei brocardi actio nondum nata non praescribitur e contra non valentem agere non currit praescriptio.

Il principio per cui il dies a quo non può essere individuato in un momento antecedente al giorno in cui il diritto può essere fatto valere, invero, può essere ritenuto la più immediata espressione della stessa ratio dell'istituto della prescrizione estintiva, di cui al precedente art. 2934 c.c.: come unanimemente riconosciuto da dottrina e giurisprudenza, la finalità per la quale l'ordinamento giuridico riconnette all'inerzia del titolare, protratta nel tempo, l'estinzione del diritto è ravvisabile nell'esigenza di assecondare la convinzione della generalità dei consociati che il diritto non esista o sia stato abbandonato, così garantendo la certezza dei rapporti giuridici; a ciò deve aggiungersi una funzione lato sensu “sanzionatoria” per colui che lo abbia trascurato. Presupposto dell'operatività dell'istituto è, pertanto, l'inerzia ingiustificata del titolare del diritto (Cass. n. 7645/1988; più di recente, Trib. Bologna, 12 aprile 2018, n. 1194).

Perché possa configurarsi “inerzia”, tuttavia, è necessario che il diritto possa effettivamente essere fatto valere, ossia, in primo luogo, (i) che il diritto sia effettivamente sorto e, poi, (ii) che il titolare sia effettivamente posto nella condizione di conoscere l'esistenza del medesimo e (iii) di esercitarlo, ma, nonostante ciò, (iv) abbia trascurato di farlo.

E, d'altro canto, secondo l'opinione unanime dei commentatori, l'art. 2935 c.c. deve essere interpretato nel senso di equiparare alla possibilità materiale di far valere il diritto la conoscibilità che il titolare possa averne.

Significativa appare, sul punto, l'evoluzione giurisprudenziale in materia di responsabilità extracontrattuale: in presenza di una norma come l'art. 2947 c.c., la quale dispone che il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il “fatto” si è verificato, si è ormai affermato e consolidato il convincimento circa l'impossibilità di limitare tale nozione al semplice comportamento commissivo od omissivo del danneggiante, dovendo invece ricomprendersi nella medesima anche le relative conseguenze dannose, implicanti una modificazione della realtà esteriore riconoscibile dal soggetto leso (Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581).

Del resto, l'importanza del principio in parola è di frequente sottolineata anche nella giurisprudenza della Corte Costituzionale: già nella pronuncia n. 63/1966, ad esempio, la Consulta aveva ritenuto che la prescrizione non potesse decorrere in costanza di rapporto di lavoro laddove il lavoratore si trovasse in una condizione di particolare subalternità materiale e psicologica e qualora l'eventuale esercizio del diritto avrebbe potuto portare alla risoluzione del rapporto.

La valutazione oggetto di scrutinio del Giudice delle leggi, allora, potrebbe rivestire un'importanza che andrebbe ben al di là della fattispecie regolata dalla norma in commento: si potrebbe trattare, infatti, di riconoscere al principio contra non valentem agere non currit praescriptio il carattere di principio generale dell'ordinamento - avente, dunque, valenza c.d. superlegislativa - quale limite di ragionevolezza al quale il legislatore dovrebbe, sempre, attenersi.

Infine, anche se solo in un breve passaggio, l'ordinanza di rimessione osserva che l'attuale disciplina normativa è altresì suscettibile di ledere il diritto inviolabile di difesa sancito dall'art. 24 Cost. Tali osservazioni consentono di ritenere l'illegittimità della norma censurata anche sotto un ulteriore profilo riconducibile all'irragionevolezza: quello della ingiustificata compressione di diritti fondamentali riconosciuti dall'ordinamento.

Conclusioni

L'ordinanza del Tribunale di Milano, a parere di chi scrive, ha correttamente posto le basi per la soluzione di un rilevante e delicato problema sistematico e applicativo, alla luce dei princìpi generali dell'ordinamento.

L'applicazione sic et simpliciter della disposizione in commento ad ogni azione di responsabilità esperita nei confronti del revisore, infatti, da un lato si presenta contrastante con i princìpi che governano la responsabilità civile, potendo vulnerare irrimediabilmente il diritto del danneggiato al risarcimento del pregiudizio subìto; dall'altro lato, segna una ingiustificata disparità di trattamento con il regime della responsabilità degli amministratori e dei sindaci.

Invero, la questione non si presenta in termini di assoluta novità, posto che la più attenta dottrina aveva già sollecitato un ripensamento della disciplina in commento, ritenuta di dubbia legittimità costituzionale e difficilmente accettabile sul piano logico-sistematico (così SPIOTTA, La responsabilità civile del revisore legale in base all'art. 15 del d.lgs. 39/2010, in Giur. Comm. 2012, 693; SALERNO, La responsabilità del revisore tra nuove incertezze e vecchi problemi, in Riv. Soc., fasc. 5, 2013, 985; nonché BUSSOLETTI, Bilancio e revisione contabile: sette anni di disciplina all'ombra degli Iase delle direttive comunitarie, in Riv. Soc., 2011, 1171).

In merito, si era suggerito di colmare l'evidente disallineamento con i termini di prescrizione degli organi di amministrazione e controllo con l'apposito rimedio di una interpretazione costituzionalmente orientata e quindi “conservativa”, che leghi la decorrenza del termine prescrizionale alla concreta possibilità che il creditore abbia di esercitare il proprio diritto: a tale risultato avrebbe potuto pervenirsi - secondo alcuni commentatori - alternativamente mediante l'applicazione del già citato art. 2935 c.c. o dell'art. 2941, n. 8, c.c., ai sensi del quale la prescrizione rimane sospesa “tra il debitore che ha dolosamente occultato l'esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia stato scoperto”.

Tuttavia, il Tribunale ha condivisibilmente investito della questione la Corte Costituzionale, ritenendo impraticabile la proposta della dottrina di far ricorso all'interpretazione adeguatrice alla luce del principio più volte espresso dalla giurisprudenza costituzionale secondo cui “l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale” (Corte cost., sentenze n. 201 del 2021, n. 253 del 2020 e n. 232 del 2013).

Il Giudice delle leggi sarà dunque chiamato a pronunciarsi, ancora una volta (e a breve distanza dalla pronuncia del 5 giugno 2023, n. 110, che ha ribadito l'incostituzionalità per contrasto con l'art. 3 Cost. delle leggi “radicalmente oscure” che determinano una intollerabile incertezza nella loro applicazione concreta), sui limiti che l'ordinamento costituzionale pone alla discrezionalità del legislatore e sulla portata applicativa del principio di uguaglianza, nella duplice accezione di “irragionevole disparità” e di “irragionevolezza intrinseca”.

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