Previdenza complementare: le quote di TFR non versate al fondo pensione spettano al lavoratore

24 Gennaio 2024

Con la sentenza n. 18477 del 2023, in materia di previdenza complementare, la Cassazione torna a occuparsi del rapporto giuridico a carattere trilaterale (o dei rapporti giuridici interdipendenti) che si viene a istaurare fra lavoratore, datore di lavoro e fondo pensione, per effetto dell'adesione del lavoratore a quest'ultimo e della destinazione (espressa o tacita) del TRF maturando (oltre che di altri contributi) a finanziamento della relativa posizione individuale. Nel caso di specie, si tratta di chiarire se nell'ipotesi di fallimento dell'azienda datrice di lavoro – la quale abbia accantonato il TFR in parola, senza però far luogo al suo effettivo versamento al fondo pensione – l'insinuazione al passivo fallimentare per l'importo corrispondente, spetti al lavoratore, ovvero al fondo pensione.

Massima

In tema di fondi pensione complementari, il fallimento del datore di lavoro, quale mandatario del lavoratore, comporta lo scioglimento, ai sensi dell'art. 78, comma 2, L. fall., del contratto di mandato avente ad oggetto il versamento al Fondo di previdenza complementare delle quote di TFR accantonate e il ripristino della titolarità delle risorse accantonate, spettante di regola al lavoratore, così legittimato ad insinuarsi allo stato passivo, salvo che dall'istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del Fondo di previdenza complementare, cui in tal caso spetta la legittimazione attiva ai sensi dell'art. 93 L. fall. (Massima ufficiale)

Il caso

La fattispecie riguarda la formazione del passivo del fallimento di una azienda e, nello specifico, l'esclusione - da esso - del credito vantato da un dipendente della medesima, relativo alle quote di TFR che il lavoratore aveva destinato al fondo pensione cui è iscritto, ma che, seppur accantonate, non erano state effettivamente versate dall'azienda alla forma pensionistica.

Avverso tale esclusione il lavoratore presentava opposizione allo stato passivo, al Tribunale competente che però la rigettava sulla base dell'assunto della mancata prova della legittimazione dell'opponente all'insinuazione. Riteneva, cioè, il Tribunale difettasse la dimostrazione, da parte dell'interessato, che il conferimento del TFR avesse avuto luogo sulla base di un mandato al datore di lavoro, delegatario di pagamento ex art. 1268 c.c., e non invece per effetto di una cessione del credito al TFR, ex art. 1260 c.c., in favore del Fondo pensione.

Avverso al decreto di rigetto dell'opposizione veniva quindi proposto ricorso per Cassazione il quale si concludeva con sentenza favorevole al lavoratore e con rinvio al Tribunale per una sostanziale riconsiderazione della vicenda alla luce degli approdi enunciati dal giudice di legittimità.

La questione giuridica

Schematizzando al massimo la fattispecie, è necessario richiamare anzitutto il fatto che la decisione circa il conferimento (o meno) a previdenza complementare del TFR maturando spetta al lavoratore, eventualmente anche in forma tacita (art. 8 d.lgs. n. 252/2005). In caso di scelta favorevole alla destinazione pensionistica, il datore di lavoro – in quanto debitore del TFR verso il lavoratore creditore – provvede, tempo per tempo, al correlato versamento al fondo pensione al quale aderisce il lavoratore.

Ciò posto, il rapporto obbligatorio, relativo al versamento di tale forma di contribuzione al fondo, viene variamente a configurarsi a seconda della ricostruzione giuridica della fattispecie:

  1. se si ipotizza che il lavoratore conserva la posizione di creditore del TFR verso il datore e assume quella di debitore della contribuzione (da TFR) verso il fondo, si deve ammettere che il versamento effettuato dal datore di lavoro avviene sulla base di una delegazione di pagamento c.d. passiva (1);
  2. se invece si ricostruisce la situazione nel senso che il rapporto obbligatorio, relativo alla contribuzione da TFR, intercorre direttamente fra datore di lavoro (debitore) e fondo pensione (creditore), si deve sottintendere l'avvenuta cessione del relativo credito al fondo, da parte del lavoratore, all'atto dell'adesione alla forma pensionistica.

È evidente che privilegiare l'una ovvero l'altra ricostruzione denota conseguenze decisive ai fini considerati in termini di legittimazione alla insinuazione al passivo del fallimento.

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(1) Lo schema giuridico è il seguente: Tizio (datore) è debitore verso Caio (lavoratore), creditore, di un importo X (quota di TFR interessata); a sua volta Caio è debitore verso Sempronio (fondo) della stessa cifra (contribuzione di finanziamento da TFR); in via di semplificazione, onde evitare duplicazioni di pagamenti, si ricorre a delegatio solvendi o promittendi, con conseguente pagamento diretto di Tizio a Sempronio, il che comporta l'estinzione, in una, di entrambe i pregressi rapporti obbligatori. Nel caso di cui al testo la delegazione di pagamento si basa su un mandato dato dal lavoratore al datore di lavoro.

La sentenza di Cassazione

Alla luce di tali premesse, nella vertenza in esame, il lavoratore denuncia l'erronea ricostruzione della fattispecie – da parte del giudice del merito – in termini di cessione del credito, in luogo di delegazione di pagamento, che risulta invece, ad avviso del ricorrente stesso, quella più appropriata alla luce di vari fattori e, sul fronte normativo, dalle indicazioni rivenienti dai principi e criteri di riforma della previdenza complementare, di cui alla legge delega n. 243/2004.

Nei motivi di ricorso viene infatti data prioritaria evidenza al fatto che la legge n. 243/2004 cit., prevedeva l'attribuzione (poi rimasta inattuata) ai fondi pensione della “contitolarità con i propri iscritti del diritto alla contribuzione, compreso il TFR, e la legittimazione dei fondi stessi, rafforzando le modalità di riscossione anche coattiva, a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi.

Tale indicazione presuppone che il diritto di credito relativo al TFR, anche dopo che ne sia stata decisa la destinazione pensionistica complementare, resti nella titolarità esclusiva del lavoratore e non si trasferisca ex se al fondo (diversamente non vi sarebbe stata la necessità di una previsione di delega nel senso indicato). Al fondo si trasferisce non il diritto di credito, ma la somma che ne è oggetto, una volta adempiuta l'obbligazione, alla cui attuazione viene delegato il datore di lavoro.

La Cassazione, nel ritenere fondata la ricostruzione fatta dal ricorrente, approfondisce i contenuti e le implicazioni della vicenda in maniera ampia e circostanziata, ripercorrendo anche precedenti arresti di legittimità e rilevando la complessità e delicatezza della questione.

In senso contrario alla delegazione di pagamento, e della ad essa connaturata possibilità di revoca, viene ricordato come sia stata affermata, in varie pronunce, la incompatibilità di tale istituto giuridico con la disciplina speciale di cui al d.lgs. n. 252/2005: si ritiene coerente con la natura previdenziale (e non già retributiva) dei contributi a fondo pensione (compreso il TFR) immaginare un rapporto debitorio diretto fra il datore di lavoro e il fondo stesso, per effetto della cessione a questo del relativo credito da parte del lavoratore aderente.

Ciò anche “perché prestata l'adesione al fondo, non ne sarebbe consentita la revoca, ma solo la cessazione per il venir meno dei presupposti ed il trasferimento ad altra previdenza complementare, salvo, in ogni caso, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro che abbia trascurato di versare in tutto o in parte i contributi, ovvero in caso di insolvenza del datore di lavoro, salva la possibilità di sollecitare l'intervento del Fondo di garanzia ex art. 5 D.lgs. n. 80/1992” (Cass. nn. 2406/2022 e 8515/2023).

La Cassazione in commento, non condividendo, come visto, tale impostazione che condurrebbe a riconoscere al fondo il titolo per l'insinuazione al passivo fallimentare, aderisce invece al filone opposto, il quale, anche di recente, ha avuto un precedente significativo in Cass. n. 16116/2023, di cui quella in commento rammenta i principali profili argomentativi.

Fra essi, quello volto a evidenziare come la previdenza complementare, seppur concorre con quella obbligatoria, all'obiettivo dell'adeguatezza pensionistica di cui all'art. 38 Cost., rimane nell'ambito della autonomia privata, della volontarietà (v. art. 1, comma 2 e 3, comma 3, d.lgs. n. 252/2005).

In ragione di ciò, ai fini indagati, escluso qualsivoglia apriorismo, si tratta di indagare, di interpretare, volta per volta, la effettiva volontà delle parti in ordine all'elemento considerato e cioè “se il conferimento del TFR si sia concretamente tradotto in una vera e propria cessione, ovvero in una delegazione di pagamento, poiché in caso di fallimento, il contratto di mandato – qual è la delegazione di pagamento – si scioglie (art. 78, comma 2, L. fall.)”.

Nel caso in esame, la Cassazione osserva come il lavoratore avesse dedotto expressis verbis, tanto nella domanda di insinuazione, tanto nella opposizione allo stato passivo, di aver aderito al fondo pensione rendendolo “[…] destinatario di quote della propria retribuzione [quelle relative al TFR], ai sensi dell'art. 1188 c.c.”, con conseguente delegazione al versamento al fondo a carico del datore di lavoro.

Data per dimostrata in merito tale premessa, ne consegue la legittima ammissione al passivo fallimentare del lavoratore, venendo meno – ex art. 78, comma 2, L. fall (nel testo al momento della causa vigente: d.lgs. n. 5/2006) – il mandato/delegazione di pagamento fatta al datore di lavoro.

Si ripristina, cioè, la titolarità piena delle risorse – con esso (mandato) affidate in gestione vincolata nella destinazione – in capo al lavoratore mandante, così legittimato a insinuarsi allo stato passivo del fallimento del mandatario datore di lavoro; legittimazione non afferente al diritto al TFR in sé considerato, ma al diritto al versamento della quota accantonata che mantiene natura retributiva.

È proprio su tale specifico profilo che si incentrano le ulteriori riflessioni svolte nella sentenza in commento, nel senso di voler accertare, in particolare, se il credito, nel caso de quo, ammesso e insinuato allo stato passivo, abbia appunto natura retributiva o previdenziale.

Al riguardo, la Corte sottolinea la necessità di tener distinti il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore e il rapporto fra il lavoratore e il fondo pensione, seppur vengono a collegarsi a seguito della decisione del lavoratore di aderire alla forma pensionistica complementare, con il conseguente insorgere di obbligo del datore di lavoro di effettuare i previsti versamenti.

La giurisprudenza di legittimità evidenzia in proposito come l'obbligo di versamento dei contributi e del TFR nasca da un rapporto contrattuale ulteriore e distinto dal rapporto di lavoro subordinato, essendo destinato a far conseguire una pensione integrativa (v. Cass., Sez. un., n.  4484/2015).

In tale schema, il rapporto di lavoro integra quindi il rapporto di provvista, da cui il lavoratore trae le risorse finanziarie, che in virtù di delega o mandato sono trasferite al fondo dal datore di lavoro; mentre il rapporto di valuta è chiaramente quello fra il delegante (lavoratore) e il fondo pensione (delegatario), che mantiene piena autonomia e indipendenza rispetto all'altro.

Da tutto ciò si evince “la natura retributiva, tanto della contribuzione, quanto del conferimento della quota di TFR maturando, in quanto semplicemente accantonati presso il datore di lavoro (sia pure con vincolo di destinazione); si tratta cioè di spettanze economiche, che in quanto parte della retribuzione, conservano la stessa natura sino a quando restano accantonate, a fronte della "[...] natura previdenziale, invece, del trattamento pensionistico integrativo o della diversa prestazione previdenziale integrativa […]”.

In pratica, il credito di natura retributiva al TFR fin quando resta accantonato presso il datore di lavoro, conserva natura retributiva, assumendo natura previdenziale all'atto dell'effettiva attuazione dell'esistente vincolo di destinazione, cioè del versamento al fondo.

Nel caso in esame – stante l'inadempimento dell'obbligazione assunta dal datore verso il lavoratore con il mandato ricevuto – il vincolo di destinazione previdenziale impresso alle risorse non si attua, conservandosi quindi la piena disponibilità del lavoratore sulle stesse, di natura retributiva, che legittima la insinuazione al passivo fallimentare.

Oltretutto, il mantenimento della natura retributiva del TFR accantonato e non versato assicura, all'iscritto al fondo, il diritto a veder soddisfatto il proprio credito in via privilegiata (art. 2751-bis c.c.), il che non accadrebbe in caso di qualificazione previdenziale dello stesso, considerato che il privilegio dei crediti previdenziali assiste quelli di previdenza obbligatoria e non contrattuale (artt. 2753-2754 c.c.).

La solidità di tale ricostruzione, riconferma conclusivamente la Corte, è supportata anche dal diritto positivo, nell'ambito dei già richiamati art. 5 d.lgs. n. 80/1992 e art. 1, lett. e) n. 8) legge delega n. 243/2004, che presuppongono, entrambe, la titolarità del diritto di credito in esame in capo al lavoratore.

Osservazioni

È il caso anzitutto di osservare che la sentenza in commento ha a riferimento la precedente normativa in tema di fallimento (R.d. n. 267/1942), ma i principi in essa enunciati sembrano conservare sostanziale validità anche con riguardo alla normativa in tema della liquidazione giudiziaria (nome odierno del fallimento) di cui al d.lgs. n. 14/2019 (v. l'art. 183, comma 2 ai cui sensi “il contratto di mandato si scioglie per effetto dell'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del mandatario”).

Ciò detto, sembra vero che la richiamata ricostruzione della vicenda appare quella più tutelante per il lavoratore, anche per i richiamati profili, relativi ai privilegi riconosciuti ai crediti retributivi, assenti nel caso di crediti di previdenza privata.

È però anche vero che la conservazione della natura retributiva delle somme accantonate con finalità previdenziale (ma non versate dal datore di lavoro), comporta di fatto la inattuazione dell'obiettivo previdenziale loro già impresso.

In pratica, escludendo la ricostruzione della fattispecie in termini di cessione (al fondo) del credito al TFR, il fallimento (oggi liquidazione giudiziaria) diviene vicenda capace di sottrarre alla finalità previdenziale, le risorse cui il lavoratore tale finalità aveva impresso, decidendo l'adesione al fondo. La ricomprensione del credito in parola nel passivo fallimentare, quale credito retributivo, libera la relativa somma dall'imprinting ricevuto, con effetti negativi quanto a costituzione (e consistenza) della pensione di secondo pilastro (l'insinuazione al passivo del fondo garantirebbe invece tale effetto).

Oltretutto, agli effetti considerati, richiamare la autonomia privata dell'iscritto quanto alla scelta se cedere al fondo il credito al TFR verso il datore, ovvero conservarlo limitandosi a delegare il datore al versamento, potrebbe suscitare perplessità.

L'autonomia negoziale che governa la previdenza complementare si esplica, a monte, nella scelta se aderirvi o meno, se destinarvi o meno certe risorse (compreso il TFR). Una volta fatta tale scelta, la qualificazione degli atti giuridici che la attuano dovrebbe atteggiarsi in termini di maggiore o minore coerenza con la prescelta finalità previdenziale.

Oltretutto, appare poco plausibile che il lavoratore che si iscrive al fondo possa valutare se attuare la destinazione della TFR in termini di mandato al datore o di cessione alla forma pensionistica. Al più sarà lo statuto del fondo l'atto dal quale si potranno ricavare indicazioni al riguardo.

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