Sull’art. 214, comma 1, CCII, e in particolare sul concetto di soddisfazione dei creditori e sulla posizione dell’affittuario dell’azienda prelazionario

24 Gennaio 2024

Lo scritto prende ad esame la norma di cui all’art. 214, comma 1, CCII, che affronta la questione della vendita dell’azienda (o di suoi rami) in rapporto alla vendita dei suoi beni, in blocco o singolarmente, con particolare riferimento al concetto di “migliore soddisfazione dei creditori”. Il tema si interseca con quello dei diritti e delle aspettative dell’affittuario dell’azienda, laddove gli sia stata accordata la prelazione.

La questione

Un problema che sta diventando statisticamente rilevante è quello della gestione delle liquidazioni dell'attivo quando l'impresa caduta in stato di liquidazione giudiziale ha ancora un'azienda attiva e vitale, o perché gestita in via diretta (caso più raro) o perché data in affitto a terzi (caso assai più frequente).

E può apparire paradossale che il sostrato sostanziale di questo problema si possa porre a valle del varo del Codice della crisi, che, in recepimento della Direttiva (UE) 2019/1023, ha ampliato le misure di ristrutturazione preventiva del debito e ne ha (apparentemente) facilitato l'accesso. 

In realtà, la complessità, gli stretti tempi di tali misure fanno sì che la soluzione della liquidazione giudiziale possa a un certo punto divenire l'unico discessus (magari non commodus) possibile.

Si potrebbe creare così un istituto peculiare nell'ordinamento italiano, quello della liquidazione giudiziale in continuità aziendale, che avrebbe il pregio di tagliare di netto il nodo gordiano della farraginosità e del costo dei quadri di ristrutturazione preventiva, senza per questo far venire meno la salvezza del complesso aziendale (queste soluzioni, infatti, oggi sono frenate dal “timor panico” che produce il fallimento – uso deliberatamente questa vecchia parola – sui protagonisti della gestione di impresa: azioni di responsabilità, procedimenti penali innescati da denunce del Curatore…  Sono convinto che se mai si addivenisse a una riforma degli aspetti penali dell'insolvenza in senso meno colpevolistico la soluzione qui proposta diverrebbe assai più frequente di quanto lo sia oggi).

Lo schema più frequente è quello dell'affitto dell'azienda dell'impresa insolvente concluso prima della presentazione della domanda di liquidazione giudiziale in proprio (affitto extra-procedimentale), con offerta irrevocabile di acquisto da parte dell'affittuario e clausola di prelazione a suo favore nel contesto della procedura competitiva di vendita dell'azienda medesima (tenendo conto che la stipula dell'affitto anteriormente all'apertura della procedura è quasi necessitata dalla farraginosità delle procedure da mettere in campo dopo la sentenza dichiarativa per giungere al medesimo risultato.  È questo un tema che andrebbe meglio considerato dal legislatore alla luce della necessità di garantire senza soluzioni la continuità aziendale anche dopo l'avvio della procedura liquidatoria).

Una volta avviata la procedura liquidatoria, il curatore ha a disposizione l'istituto del recesso dal contratto di affitto (art. 184, comma 1, CCII), potere che tuttavia statisticamente viene raramente esercitato date le gravi conseguenze che il ritorno dell'azienda in seno all'impresa in liquidazione avrebbe sia sulla gestione della procedura che sul patrimonio a disposizione del ceto creditorio; si tratta infatti, per lo più, di aziende che, strappate alla conduzione dell'affittuario, rischiano di consumare cassa e di svaporare in poco tempo.

Il contenuto dell'art. 214, comma 1, CCII

L'art. 214, comma 1, CCII affronta proprio la questione della vendita dell'azienda – a mezzo ovviamente di procedura competitiva – in rapporto alla vendita dei suoi beni in blocco o singolarmente (atomizzazione), stabilendo una gerarchia nelle scelte che il curatore, autorizzato dal giudice delegato, deve sottoporre all'approvazione del comitato dei creditori (art. 213, commi 1 e 7, CCII).  Esso, infatti, prevede che “la liquidazione dei singoli beni ai sensi delle disposizioni del presente capo è disposta quando risulta prevedibile che la vendita dell'intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori”.

Si tratta di norma che riproduce letteralmente il contenuto dell'art. 105, comma 1, della legge fallimentare, che a sua volta venne introdotto nell'ordinamento in attuazione della legge delega 80/2005: riproduzione testuale che non può che indicare anche una adesione allo spirito del precetto originario, il quale venne introdotto nel quadro di una riforma tentativamente organica della materia concorsuale volta alla salvezza dei valori dell'impresa, laddove ciò fosse possibile e non pregiudicasse in chiave sostanziale le ragioni creditorie.

Nel quadro sistematico del Codice della crisi tale norma merita un'ulteriore considerazione, in specie con riferimento al concetto di “migliore soddisfazione dei creditori” che essa contiene e che va visto alla luce di alcune innovazioni, non solo linguistiche, che il CCII ha portato sotto tale aspetto.

Lo sviluppo del giudizio di preferenza

Sappiamo che il curatore deve redigere, nell'arco di tempo che va dai 60 ai 150 giorni dalla sentenza dichiarativa dell'apertura della liquidazione giudiziale, il programma di liquidazione, che deve contenere i criteri e le modalità di liquidazione dei beni, nonché gli atti necessari per la conservazione del valore dell'impresa, quali l'esercizio dell'impresa del debitore, l'affitto dell'azienda, o di suoi rami, e le modalità di cessione unitaria di singoli rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco (art. 213 CCII).

L'atto programmatico in questione è di fondamentale importanza e indirizza, o meglio, vincola l'attività del Curatore nel processo che conduca alla celere conclusione del suo incarico.

Vendere atomisticamente il patrimonio o procedere con la vendita dell'intera azienda, o di suoi rami, o con la vendita in blocco, può comportare tempi molto diversi di realizzo e portare a risultati economici assai differenziati.

Non solo.  Conservare l'azienda attraverso l'esercizio dell'impresa in via diretta o il suo affitto può avere l'effetto di salvare l'attività e i posti di lavoro e di mantenere in esercizio un patrimonio che, se disattivato, potrebbe deteriorarsi rapidamente e gravare in termini di costi di mantenimento sulla massa.

Un primo problema interpretativo viene posto dalla costruzione sintattica della norma, che sembra porre sullo stesso piano la vendita dell'azienda o di suoi rami, e la vendita in blocco di suoi beni e rapporti.  Sono queste due alternative (vendita dell'azienda e vendita in blocco dei suoi beni), al cospetto della vendita atomistica dei beni, equivalenti per il legislatore, o vanno poste anch'esse in un qualche ordine?

È una questione decisiva, perché i termini a confronto sono radicalmente diversi: un conto è vendere l'azienda come “complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa” (art. 2555 c.c.), un conto è vendere questi beni in blocco (ad esempio tutti gli immobili, o tutti gli impianti e macchinari).

In verità, la costruzione della norma, la sua sequenza concettuale, induce a ritenere che essa stabilisca un ordine di preferenza nella scelta degli esperimenti di vendita, che dovranno partire i) dalla vendita dell'azienda, in subordine ii) quella dei suoi rami, in ulteriore subordine iii) dei beni e rapporti giuridici in blocco e infine iv) dei singoli beni.  E solo se in chiave previsionale dalla vendita dell'azienda può venire minore soddisfazione della vendita dei beni in blocco si scarta la vendita dell'azienda e si mette a confronto la vendita in blocco con la vendita atomizzata.  Ma se invece dal confronto esce vincente la vendita dell'azienda, allora la vendita in blocco va scartata come prima modalità di liquidazione e si deve procedere al confronto della vendita dell'azienda con la vendita atomistica.

Il giudizio previsionale

Altro aspetto da notare nella norma in commento è che il Legislatore impone alla Curatela di effettuare, in sede di redazione del piano di liquidazione, una valutazione previsionale.

L'ordine nelle procedure di vendita va svolto a valle delle valutazioni eseguite dalla procedura e deve essere giustificato da una razionale stima dei risultati delle diverse configurazioni di vendita.

Tali valutazioni non potranno essere arbitrarie e dovranno tenere conto delle circostanze di fatto.  Ad esempio non si può pesare al medesimo modo una offerta vincolante e cauzionata con una mera stima.  Si sa infatti che le stime sono spesso contraddette dall'andamento delle procedure competitive, che possono portare anche a pesanti ribassi.  D'altra parte, non si pone più nell'attuale ordinamento il meccanismo dell'art. 107, comma 4, l. fall. che consentiva al curatore di sospendere la vendita in caso di ricevimento di offerta irrevocabile per importo superiore di almeno il 10% al prezzo offerto.  Ora, il sistema di verifica ex post della congruità del risultato di asta è regolato dall'art. 217 CCII, che è molto meno semplice e sicuro (procedendo dall'istanza del debitore, del comitato dei creditori o di altri interessati, quando il prezzo risulti notevolmente inferiore a quello ritenuto congruo, o dall'iniziativa del giudice delegato, ma solo se il prezzo offerto è inferiore a quello di stima in misura non superiore a un quarto e si possa ritenere, in base a concreti elementi, che in base a nuovo esperimento si possa ottenere un prezzo almeno pari a quello di stima:  sistemi questi che non incentivano certo a rilanci post asta).

Ne segue che gli organi della procedura dovranno essere molto prudenti nell'anteporre al certo (una offerta irrevocabile e cauzionata per l'azienda) l'incerto di un esperimento di vendita di beni basato solo su stime.

Il computo della soddisfazione dei creditori

Ciò chiarito, si pone il problema di quale metrica usare per calcolare la soddisfazione dei creditori.  Solo quella pecuniaria?

Sappiamo che nel diritto comune le obbligazioni pecuniarie si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale (art. 1277 c.c.).  Un approccio brutale al problema porterebbe a concludere che il confronto debba essere operato semplicemente confrontando la massa di denaro, opportunamente attualizzata, messa a disposizione della procedura con una soluzione liquidatoria rispetto a un'altra.

Ma il Codice della crisi usa la parola “soddisfazione” dei creditori, che è concetto assai più ampio del mero pagamento del loro credito in moneta per così dire immediata. 

Lo stesso termine compare altrove nel Codice della crisi, all'art. 84 che prevede che “nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta. La proposta di concordato prevede per ciascun creditore un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile, che può consistere anche nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”.

Il parallelismo tra il concordato in continuazione e la liquidazione giudiziale con vendita dell'azienda (o del ramo di azienda) è evidente. Stessi sono i valori in gioco, cioè la salvezza dell'attività produttiva e dei posti di lavoro, e non possono di certo essere alterati dal cambio di paradigma.

Ne segue che il curatore, nel mettere in ordine i gradi di soddisfazione per i creditori dei diversi scenari liquidatori – che procedono, lo ripeto, sequenzialmente dalla vendita dell'azienda, dei suoi rami, dei beni in blocco, e dei beni singoli -, dovrà considerare non solo quanto denaro la vendita dell'azienda procuri immediatamente ai creditori, ma quali delle “utilità” di cui all'art. 84 CCII siano loro riservate.

E quali, tipicamente, possono essere queste utilità?  L'inventario non è semplice, tanto vari e numerosi sono i casi che possono presentarsi nella pratica, ma alcune costanti si possono per certo individuare, in funzione delle diverse classi di creditori.

Innanzi tutto, i dipendenti: questi hanno un chiaro interesse a vedere conservato il loro posto di lavoro e non cadere in stato di disoccupazione, se pure con i presidi che l'ordinamento accorda.

Coi dipendenti vengono tipicamente in considerazione gli enti di previdenza e assistenza, che vantano il duplice interesse a non vedere gravare sulle loro casse i disoccupati e continuare a percepire contributi dal cespite - azienda.

Vi è poi l'erario, che avrà pari interesse a che l'azienda continui e generi pagamento di ritenute, imposte dirette e indirette.  L'erario poi, se inteso come Stato italiano in senso lato, può presentarsi anche nelle vesti del Fondo di Garanzia o di SACE, sua emanazione pressocché diretta, che spesso hanno crediti privilegiati, avendo subito l'escussione della garanzia data alle banche e quindi, se falcidiati, hanno interesse che il cespite azienda continui a produrre flussi finanziari positivi per lo Stato italiano.

Altra classe spesso ricorrente sono i fornitori strategici, che possono contare sulla prosecuzione dei loro rapporti con l'azienda salvata.

Questi interessi, se soddisfatti, andranno tradotti in equivalente monetario.

Ad esempio, per i lavoratori sarà la differenza tra i salari e gli stipendi pagati dall'azienda, in un periodo ragionevole per trovare un impiego alternativo, e quanto assicurerebbero istituti di protezione sociale come la mobilità o la NASPI.

Per gli enti di previdenza e assistenza e per l'erario, alla soddisfazione immediata andrà aggiunto un quid pluris dato dal risparmio di sussidi di disoccupazione e dal flusso incrementale di contribuzioni che in un orizzonte dato e ragionevole possano venire dalla continuazione dell'attività rispetto allo scenario della dissoluzione aziendale.

Lo stesso vale per i fornitori strategici, per i quali occorrerà considerare i profitti incrementali dovuti alla continuazione delle attività con l'azienda.

Ne segue che quando si fanno i conti della soddisfazione dei creditori andrà aggiunto a quanto ricavabile dalla vendita dell'azienda un quid pluris, tradotto in moneta legale, che è la versione pecuniaria dell'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile derivante al creditore dalla continuazione dell'azienda [chiamerei questo quid il “valore monetario delle utilità (immediatamente) non monetarie”].

Fatti questi calcoli, si farà la somma delle soddisfazioni, accordate al complessivo ceto creditorio nei diversi scenari e si opererà la comparazione.

Ne segue, se l'analisi fin qui condotta è condivisibile, che non sarà accettabile, rectius non sarà autorizzabile dal giudice delegato (art. 213, comma 7, CCII) un piano di liquidazione che nel comparare i diversi scenari non affronti l'aspetto del valore monetario delle utilità (immediatamente) non monetarie che alcune classi di creditori ricevono dalla continuità aziendale, limitandosi alla comparazione dei prezzi conseguibili dai diversi schemi di vendita competitiva.

Il problema dell'affitto di azienda

Il tema della vendita preferenziale dell'azienda (o in subordine dei suoi rami) si incrocia con quello dei diritti e delle aspettative dell'affittuario dell'azienda, in specie se gli è stata accordata la prelazione.

Diciamo subito che non vi è molta differenza tra affitto contratto dalla procedura (endo-procedimentale) e dall'impresa prima del suo avvio (extra-procedimentale).  Il diritto di recesso accordato ex lege al curatore fa sì che l'affitto extra-procedimentale debba venire riconsiderato alla luce dei criteri di quello endo-procedimentale ed eventualmente sussunto nella procedura come se fosse atto proprio.  Insomma, il mancato esercizio del recesso implicherà le medesime considerazioni e valutazioni che starebbero alla base della decisione di concedere endo-procedimentalmente l'affitto aziendale.

Sappiamo che l'affitto endo-procedimentale è regolato dall'art. 212 CCII, che riproduce sostanzialmente l'art. 104-bis l. fall., introdotto anch'esso con il decreto legislativo “sviluppista” n. 5/2006. 

L'istituto è connotato da una finalità duplice: da un lato, conservare l'azienda in esercizio allo scopo di migliorarne le prospettive di realizzo; dall'altro, favorire il mantenimento dei suoi valori industriali e occupazionali, in una prospettiva più ampia di quella della massimizzazione del ritorno monetario, in una chiave che potremmo definire di più estesa responsabilità sociale (in tal senso si veda  M.  Spiotta, “Utilità solidale” nel Codice della Crisi:  Un ossimoro solo apparente, in ilcaso.it, con ampi riferimenti bibliografici a documentare una chiara virata solidaristica delle ristrutturazioni del debito volute dal Codice della Crisi).

Lo si deduce dalla formula di legge per orientare la scelta dell'affittuario che “deve tenere conto, oltre che dell'ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali” (art. 212, comma 2, CCII, che riproduce letteralmente il contenuto dell'art. 104-bis l. fall.).

Il favor legislativo è evidente, al punto da prevedere la possibilità di accordare all'affittuario il diritto di prelazione, diritto che in astratto è quanto di più anti-competitivo vi possa essere, costituendo una grave remora per i terzi ad impegnarsi nelle attività di due diligence dell'azienda e consentendo al prelazionario di stare in riserva attendendo le mosse degli altri concorrenti. 

Evidentemente il legislatore è ben consapevole dei “servizi” che l'affittuario rende alla procedura e al sistema economico-sociale tutto.  Oltre, infatti, al pagamento del canone, l'affitto consente l'assorbimento dei costi di manutenzione (almeno ordinaria) dei beni, la liquidazione di poste altrimenti a rapido degrado come il magazzino o di non scontato realizzo come i crediti commerciali, il mantenimento del valore di beni immateriali come i marchi e il know how, e talvolta anche dell'avviamento, oltre che il salvataggio di posti di lavoro.

La domanda che quindi dobbiamo porci è la seguente: in presenza di un contratto di affitto con clausola di prelazione, può la procedura perseguire un piano di liquidazione che preveda, come primo atto, l'esperimento di vendita competitiva dei beni, singoli o in blocco, costituenti il patrimonio dell'azienda, e non l'azienda medesima?

La risposta è scontatamente negativa se dal confronto delle soddisfazioni emerge che la vendita dell'azienda dà, almeno sul piano probabilistico, maggiori prospettive di soddisfazione, inclusive del valore monetario delle utilità (immediatamente) non monetarie, appunto, di altre forme di vendita.

Ma in virtù degli effetti del contratto di affitto e della clausola di prelazione tale risposta, anziché essere seccamente positiva, potrebbe implicare una diversa serie di qualificazioni e cautele.

È noto che la prelazione, quale istituto che vincola la disponibilità del bene da parte del proprietario, è soggetta a stretta interpretazione.  Se essa riguarda l'azienda nel suo complesso non si estende ai suoi rami e tanto meno ai beni staticamente concepiti, siano essi disposti in blocco o singolarmente.

Tuttavia, quando la prelazione è inserita in un contratto di affitto di azienda, in specie se doppiata da una offerta di acquisto che riveli la volontà dell'affittuario di comprare, il comportamento del proprietario dell'azienda, anche se rappresentato dagli organi concorsuali, dovrà ispirarsi a buona fede contrattuale (art. 1375 c.c.) (in questo senso   F. Fimmanò, Commento all'art. 105 L.F., in A. Jorio, Il nuovo diritto fallimentare, Feltrinelli, 2010).  Ad esempio, qualora il piano di liquidazione prospetti motivatamente differenze positive – rilevanti - tra vendita in blocco o atomistica dei beni, e vendita dell'azienda nel suo complesso (non basterà qui, evidentemente, - come si è detto - la stima del patrimonio del debitore, essendo assai probabile che le aste non si concludano immediatamente con un risultato almeno pari a tali stime, ma essendo semmai probabile che vi siano aste che vanno deserte e ribassi.  Ci vorranno offerte irrevocabili e garantite da parte di terzi, che diano certezza ai risultati), sarà dovere della curatela consultare l'affittuario e chiedergli se intende preventivamente impegnarsi, con una offerta irrevocabile, a pareggiare – sempre sul piano probabilistico - il risultato ragionevolmente atteso da forme alternative di vendita, oppure offrendogli la prelazione anche sui beni di cui si dispone la vendita extra- aziendale, oppure offrendogli di incrementare la sua offerta per l'azienda a un livello almeno pari al prezzo ottenuto dalle vendite in blocco o atomistiche dei beni (questo meccanismo non costituisce prelazione, ma conduce al medesimo risultato, con in più il vantaggio di evitare che l'affittuario, che non vuole i beni ma l'azienda, sia costretto a comprare i beni per poi dovere accordarsi con la curatela su come evitare di dover riconsegnare i rapporti giuridici che fanno capo all'azienda e che non possono essere oggetto di vendita a terzi coi beni).

Ma i comportamenti che devono essere indotti dalla buona fede sono molto vari. 

Ad esempio, può accadere che appaia conveniente per la procedura vendere un singolo bene, o un ramo di azienda.  Anche in tal caso, sarà dovere della curatela consultare l'affittuario e cercare un accordo modificativo che non frustri le sue aspettative (ad esempio offrendogli di espandere la prelazione anche al ramo o ai beni che si intendono vendere separatamente o di modificare la sua offerta riducendola a ciò che rimane dell'azienda dopo l'espunzione del ramo o del bene venduti a terzi).

I rimedi offerti all'affittuario offerente

Il programma di liquidazione, in cui sono stabilite le modalità di vendita, e i singoli atti liquidatori, sono autorizzati dal giudice delegato, ai sensi dell'art. 213, comma 7, CCII

Contro tali decreti è ammesso reclamo ai sensi dell'art. 124 CCII.  Perciò l'affittuario/prelazionario, quale parte interessata, potrà manifestare la sua opposizione ad un programma liquidatorio che preveda come primo approccio alla liquidazione non la vendita competitiva dell'azienda ma quella dei beni che la compongono, sulla base di due possibili ordini di motivazioni: il primo, che nel calcolo della soddisfazione dei creditori non sono state dovutamente considerati i valori monetari delle utilità (immediatamente) non monetarie che la vendita dell'azienda assicura ai creditori;  il secondo, che la procedura non si è comportata secondo buona fede nell'esecuzione del contratto di affitto, offrendo all'affittuario di pareggiare le offerte di pretendenti alla vendita dei beni, o estendendo la portata della prelazione, o facendo quanto ultimamente e concretamente suggerito dalla buona fede.

Conclusioni

Crediamo di avere dimostrato che le procedure di liquidazione giudiziale dei beni dell’impresa insolvente debbano dare priorità agli esperimenti di vendita competitiva dell’azienda, quando questa rimanga integra in virtù dell’esercizio provvisorio o del suo affitto a terzi, sia esso endo- che extra- concorsuale.  Tale priorità si pone non solo riguardo la liquidazione atomistica del patrimonio, ma anche riguardo la vendita in blocco dei beni che lo compongono, ma senza più il vincolo funzionale della aziendalità.  Tale priorità dovrà essere accordata qualora dalla vendita della azienda derivi una prospettiva di ritorno almeno pari a quella di altre forme di vendita.

Nel confronto tra i vari modelli di liquidazione occorrerà calcolare la “soddisfazione” dei creditori, che non può essere misurata dal solo prezzo conseguibile nelle diverse alternative, ma dovrà tenere conto di quello che abbiamo chiamato il valore monetario delle utilità (immediatamente) non monetarie che vengono per le diverse classi di creditori dalla preservazione del complesso aziendale (salari, contributi, tasse, rapporti di fornitura, mancati sussidi di disoccupazione etc.).

Un problema ulteriore si pone nel caso in cui l’azienda sia stata affittata, con prelazione a favore dell’affittuario.

Qui, oltre a dare seguito alle corrette misurazioni della soddisfazione dei creditori, bisognerà considerare il dovere di esecuzione in buona fede del contratto di affitto, che imporrà alla procedura di cercare di ottenere dall’affittuario, prima o dopo l’asta, una offerta che pareggi le prospettive alternative di realizzo, o di modificare i termini della prelazione, in modo da ricomprendervi i rami o i beni offerti in vendita al di fuori del compendio aziendale.

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