Lo ius specialis delle società nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza

08 Febbraio 2024

Laddove ad accedere ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza sia una società, il Codice della crisi appronta una serie di norme “speciali” agli artt. 120-bis e ss., volte a neutralizzare l’interferenza dei soci nella procedura e, al tempo tesso, a definirne il ruolo in quanto parti interessate. Il presente focus passa in rassegna tali norme, fornendo spunti e soluzioni interpretative.

Premessa

Il presente contributo vuole, seppur superficialmente, indagare il sistema di norme che il Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza pone per disciplinare la situazione della società e dei suoi soci quando intervenga l'accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza. 

Si tratta di un tema ancora non del tutto esplorato, in quanto per lo più frutto dell'innovazione portata dalla direttiva UE 1023/2019 che, per un verso, vuole agevolare il successo della ristrutturazione neutralizzando l'influsso dei soci della società e, per altro verso, si pone il problema del ruolo che i soci stessi possono avere in tale processo, come categoria di portatori di interessi di cui il sistema normativo deve farsi carico.

Non tratteremo qui il tema molto complesso dei rapporti tra attribuzioni di valore ai soci e ai creditori di cui ai primi due commi dell'art. 120-quater CCII avendolo affrontato in altri contributi su questo stesso Portale (si veda: La reductio ad absurdum come metodo di interpretazione del Codice della Crisi?, 6 dicembre 2023; Del poco esplorato mondo dei portatori di strumenti di capitale nelle ristrutturazioni del debito, 1 novembre 2023).

Il potere esclusivo degli amministratori sul piano e sulla proposta

L'art. 120-bis, comma 1, CCII esordisce attribuendo in via esclusiva agli amministratori il potere di decidere l'accesso allo strumento di regolazione della crisi nonché il contenuto della proposta e le condizioni del piano

La ratio della disposizione è da ricercare non tanto in ragioni di carattere organizzativo, attinenti al sistema di riparto dei ruoli tra soci e amministratori, che conosce modelli molto differenziati tra i diversi tipi sociali (con un modello di netta divisione dei ruoli tra soci e amministratori nella società per azioni – v. l'art. 2380-bis c.c. – e invece uno molto più variegato e flessibile nelle società a responsabilità limitata – v. l'art. 2476 c.c.), quanto nella volontà di evitare che i soci possano fare prevalere i loro interessi su quelli dei creditori.

La novella supera il regime della legge fallimentare che si articolava in modo più variegato, lasciando campo all'autonomia contrattuale e indicando, come regola di default, quali titolari del potere di iniziativa concorsuale, rispettivamente gli amministratori nelle società di capitali e i soci nelle società di persone (art. 161, comma 4, l. fall., che fa rinvio all'art. 152 l. fall.).

La nettezza della locuzione “in via esclusiva” sembra escludere ogni possibilità di interferenza dei soci nel processo decisionale relativo all'accesso agli strumenti e alla elaborazione della proposta e del piano di ristrutturazione. Dovrebbe pertanto essere nulla o inefficace la clausola che sottoponga ad autorizzazione dell'assemblea gli atti in questione (cfr. l'art. 2364, comma 1, n. 5, c.c.).

L'autonomia degli amministratori è protetta dal disposto del quarto comma dell'art. 120-bis che vieta la loro revoca senza giusta causa nel periodo compreso tra la domanda di accesso allo strumento di regolazione della crisi e l'omologazione, precisando che non costituisce giusta causa di revoca la presentazione della domanda di accesso allo strumento in presenza delle condizioni di legge, cioè se sia ravvisabile uno stato di crisi o di insolvenza. In aggiunta, la deliberazione di revoca è sottoposta al controllo del Tribunale, con una norma che ricalca quella contenuta nell'art. 2400, comma 2, c.c. a proposito dei sindaci, il che segnala la funzione di garanzia che per l'ordinamento riveste il ruolo di amministratore nelle fasi di avvio e gestione della crisi.

È da chiedersi se simile regola di esclusività nel potere si applichi anche alle decisioni che riguardano la modificazione della proposta e del piano, e loro esecuzione, posto che permane uno spazio di discrezione tra pianificazione e attuazione del programma di ristrutturazione.  

Nessun dubbio ci pare possa esservi per l'esercizio dello ius variandi della proposta e del piano, che resta nelle sole mani dei gestori della società.

Più sfumata la risposta in relazione agli atti di esecuzione del piano, che non sembrano coperti dalla lettera della norma, di tal ché si può astrattamente postulare che siano avocabili dai soci nelle società a responsabilità limitata o soggetti a loro autorizzazione nelle società per azioni. La validità delle clausole statutarie che deviino dal rigido modello di separazione dei poteri andrà valutata caso per caso, considerando se non nulle almeno inefficaci quelle regole che comportano una intollerabile interferenza dei soci nel corso della ristrutturazione, provocando un pregiudizio, attuale o potenziale, alle ragioni degli altri portatori di interessi.

Il potere di modifica dello statuto

L'art. 120-bis prosegue al secondo comma disponendo che, “ai fini del buon esito della ristrutturazione”, il piano può prevedere qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, citando a mo' di esempio gli aumenti e riduzioni del capitale, anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione, e le altre modificazioni che incidano direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché le fusioni, scissioni e trasformazioni.

Entrano nell'orizzonte dispositivo della norma non solo le modificazioni statutarie espressamente elencate, ma anche le revisioni nei diritti, siano essi di categoria  o particolari, patrimoniali (agli utili e al risultato della liquidazione), amministrativi (diritti di voto, di impugnazione e di azione) e relativi alla circolazione e al realizzo delle partecipazioni (prelazioni, diritti di prima offerta o primo rifiuto, gradimenti, diritti di seguito e di trascinamento, diritti di recesso convenzionali, obblighi legati all'exit).

Le modifiche potranno riguardare non solo le situazioni attive, ma anche quelle di soggezione a poteri altrui (ad esempio la sottoposizione a un diritto di riscatto).

Il tutto con il solo limite finalistico del buon esito della ristrutturazione.

Un tema che si profila è relativo alla natura dei diritti interessati: se essi siano soggetti al potere della maggioranza o modificabili solo con il consenso di tutti i soci (quali i diritti particolari disciplinati dall'art. 2468, comma 4, c.c.).  Dato che il potere degli amministratori è sostitutivo di quello di tutti i soci, inclineremmo a ritenere che non vi sia alcuna differenza tra le due tipologie, e che pertanto entrambe possano essere soggette alle modifiche in discorso.

Naturalmente, le modifiche proponibili dagli amministratori dovranno essere compatibili con le norme imperative – pensiamo ad esempio al divieto di patto leonino – e con le regole specifiche non solo del tipo societario ma anche di settori specifici dell'ordinamento (pensiamo alla disciplina delle società quotate che fa divieto di porre vincoli alla circolazione delle azioni).

Il diritto di recesso

Questione di grande rilievo è costituita dalla sussistenza del diritto di recesso.

La circostanza che l'art. 116, comma 5, CCII preveda espressamente la sospensione di tale diritto fino all'attuazione del piano nel caso lo stesso contempli operazioni di trasformazione, fusione e scissione, farebbe ritenere, secondo alcuni, con ragionamento a contrariis, che tale diritto si mantenga in relazione alle altre modificazioni statutarie.

Ma si tratta di un approccio che non fa del tutto i conti con le sue gravi conseguenze.

Postulare la conservazione del diritto di recesso significa minare il principio del concorso secondo le regole distributive previste dal Codice della crisi.  Infatti, i soci recedenti si troverebbero ad avere diritto a un pagamento che potrebbe scavalcare in grado quello dei creditori anteriori alla domanda, il che sovvertirebbe ogni ordine di riparto, sia esso stabilito con la regola di priorità assoluta che con quella relativa.

Non solo, se si considera il meccanismo attuativo del recesso, come delineato dall'art. 2437-quater c.c. e dall'art. 2473, comma 4, c.c., si deve arrivare ad ammettere che, in mancanza di acquisto da parte dei soci o di terzi, il prezzo delle partecipazioni per le quali si è esercitato tale diritto debba essere pagato dalla società utilizzando utili o riserve disponibili, il che metterebbe a rischio la fattibilità del piano per il dover destinare a scopi estranei risorse finanziarie che devono essere vincolate a favore dei creditori concorsuali e alla continuità aziendale.

Per tacere del fatto che, qualora il valore della partecipazione – determinato ai sensi dell'art. 2437-ter c.c., e quindi con il criterio del fair value – superi la misura degli utili e delle riserve disponibili, si dovrà convocare l'assemblea straordinaria per deliberare la riduzione del capitale sociale e, in caso di sua incapienza, financo lo scioglimento della società.

Infine, il diritto di recesso qui postulato riguarderebbe tutti i soci e non solo la loro minoranza, ben potendo le modifiche forzate colpire anche i soci che esercitino il controllo: ciò condurrebbe a uno snaturamento dell'istituto concepito come bilanciamento del potere della maggioranza esercitato in pregiudizio della minoranza.

D'altra parte, il recesso si porrebbe in alternativa al sistema delle tutele specifiche che il legislatore ha apprestato per i soci di società soggette a regolazione della crisi e di cui tratteremo infra.

Per questo ci pare che sia ben più conforme a sistema postulare che il diritto di recesso dei soci non sussista per le modificazioni statutarie decise dagli amministratori ai sensi dell'articolo in commento.

Una questione connessa a quella fin qui trattata è relativa alla validità dei patti parasociali che impongano ai soci di deliberare all'unanimità il recesso di un socio al verificarsi delle modificazioni statutarie volute dagli amministratori nell'ambito del piano.  Se fosse corretta la conclusione da noi fin qui tratta, simili previsioni finirebbero per cozzare contro una norma imperativa, e in ogni caso contro l'interesse sociale, e sarebbero da considerare invalide o inefficaci.

Il diritto di informazione dei soci

Il terzo comma dell'art. 120-bis impone agli amministratori di informare i soci dell'avvenuta decisione di accedere a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza e di riferire periodicamente sul suo andamento.  Si tratta di un dovere informativo che si aggiunge e non sostituisce quelli ordinari (si pensi al bilancio di esercizio, o alle relazioni che sono dovute in caso di fusione o scissione, o anche a quelle che occorrono in presenza di aumenti di capitale con limitazione o esclusione del diritto di opzione).

Ciò dovrebbe porre i soci nelle condizioni di esercitare in modo informato i loro diritti, siano essi quelli speciali che la legge conferisce loro in rapporto al procedimento di regolazione della crisi, siano essi i diritti ordinari di voto, impugnazione e azione.

La sopravvivenza dei diversi diritti dei soci

Circa la posizione complessiva dei soci nel processo di ristrutturazione è da chiedersi se restino attivi i vari diritti che l'ordinamento riserva loro nel diritto comune.

In linea generale, va detto che durante la ristrutturazione la vita della società continua senza una vera a propria soluzione di continuità.  Nulla pertanto osta a che i soci rimangano investiti dei loro poteri di voto, di controllo e di reazione agli atti e alle deliberazioni volute dalla maggioranza dei soci, dagli amministratori e dai sindaci.

Così resteranno in vigore i poteri di impugnativa delle delibere assembleari (artt. 2377,2379 e 2479-ter c.c.) e del bilancio di esercizio (art. 2434-bis c.c.), come pure quello di iniziativa dell'azione di responsabilità sociale contro gli amministratori e sindaci (artt. 2393 e 2393-bis e 2476 c.c.) – con il potere concorrente del liquidatore giudiziale nei concordati con cessio bonorum – nonché il potere di agire individualmente contro gli amministratori (art. 2395 c.c.) con la particolarità che l'azione di responsabilità, quando deliberata da almeno un quinto del capitale sociale, non potrà provocare la revoca d'ufficio degli amministratori, come disposto in tema di società per azioni dall'art. 2393, comma 5, c.c., ma dovrà essere vagliata, per questo effetto, dal Tribunale, ai sensi dell'art. 120-bis.  Peraltro, la formulazione di tale ultima norma, secondo cui “La deliberazione di revoca deve essere approvata con decreto dalla sezione specializzata del tribunale delle imprese competente” potrebbe far ritenere che non sia solo soggetta ad approvazione la revoca, ma anche la delibera di esercizio dell'azione di responsabilità che ne è la causa e che la implica come conseguenza officiosa.  Diverso è il modo di porsi del tema nelle società a responsabilità limitata, ove la promozione dell'azione di responsabilità non provoca la revoca d'ufficio ma costituisce presupposto, se mossa in presenza di gravi irregolarità nella gestione, per la richiesta al giudice di una misura cautelare ad hoc.  Il giudice adito in tal caso valuterà la sussistenza dei motivi di revoca, scartando quelli connessi all'accesso alla procedura di ristrutturazione se ravvisasse l'esistenza delle condizioni per tale accesso).

Parimenti resta attivo il potere di agire, nelle forme dell'art. 2407 c.c., contro i sindaci per violazione dei loro doveri, nonché di denuncia al collegio sindacale e al Tribunale ai sensi degli artt. 2408 e 2409 c.c.

Nulla poi ci pare osti a che la stessa deliberazione con la quale gli amministratori promuovono la procedura di ristrutturazione possa essere oggetto di impugnativa ai sensi dell'art. 2388, comma 4, c.c.(non conformità della legge o dello statuto e lesività dei diritti dei soci) o sia fonte di loro responsabilità, qualora i soci ritengano non sussistenti le condizioni di legge per l'accesso allo strumento di ristrutturazione, o che le misure proposte non siano funzionali o siano esorbitanti rispetto al buon fine dello stesso.

La proposta concorrente dei soci

Un rimedio che il Codice della crisi accorda ai soci contro gli effetti della proposta presentata dagli amministratori è costituito dal loro potere – purché rappresentino almeno il dieci per cento del capitale sociale – di promuovere proposte concorrenti (art. 120-bis, comma 5, CCII). 

Si tratta di un potere speciale che bilancia la soggezione all'iniziativa degli amministratori e anche l'esclusione dei soci non raccolti in classe dal concorso alla approvazione del piano di ristrutturazione.

La norma contiene un rimando alla disciplina dell'art. 90 CCII, che potrebbe fare concludere che tale facoltà sia inibita ai soci dalla circostanza che la percentuale offerta ai creditori chirografari con la proposta dell'organo gestorio raggiunga il trenta per cento (o il venti se la società abbia utilmente avviato la procedura di composizione negoziata).

Ma è da chiedersi se tale rinvio si limiti alle norme procedurali dell'art. 90, e non si estenda anche a questa limitazione di potere.  Un'analisi attenta della norma da ultimo citata fa comprendere come essa sia una misura offerta ai creditori insoddisfatti per impossessarsi dell'impresa del debitore, quando questi voglia trattenere per sé troppo valore a loro scapito.  Tale potere si esaurisce, però, se il debitore offre una percentuale ritenuta dal legislatore, in via astratta, di soddisfazione.

Traslando l'art. 90 nel campo della situazione dei soci, il suo presupposto di regolazione di interessi, quelli dei creditori contro quelli del debitore, e quindi, nelle società, e ultimamente, contro i soci, viene meno.

E si profila un'altra situazione di conflitto: quello dei soci “vecchi” contro i soci “nuovi”, questi ultimi anche nei panni di soci vecchi che immettano nuova finanza.  In questo quadro la percentuale offerta ai creditori diventa irrilevante, perché non sono loro nell'arena.  È giusto quindi consentire ai soci “vecchi” di competere senza limiti per il controllo della società quale che sia la percentuale offerta ai creditori, fra l'altro facendo così l'interesse di questi ultimi.

Il classamento dei soci

L'art. 120-ter CCII affronta il tema del classamento dei soci.

Si tratta di una misura facoltativa quando vi siano soci cui lo statuto, anche per effetto delle modifiche che il piano prevede, riconosca “diritti diversi”. 

Circa la natura di questi diritti si deve pensare che siano quelli che deviano dal modello egualitario predicato come naturale dall'art. 2348, comma 1, c.c. e dall'art. 2468, comma 2, c.c. 

Il problema che si pone è se, una volta che siano stati attribuiti tali diritti “diversi” a un socio o una categoria di soci, gli altri soci, quelli i cui diritti non sono stati modificati rispetto al modello ordinario, debbano essere ritenuti portatori a loro volta di diritti diversi.  Infatti, una volta rotta l'uguaglianza tra i soci, tutti loro sono portatori di diritti diversi.  Così potrebbe bastare che al “cavaliere bianco” siano promesse azioni munite di diritti particolari o una quota cui siano associati particolari diritti per rendere tutti gli altri soci portatori di diritti diversi.  Propenderemmo per questa soluzione, perché ci pare quella più in linea con l'intento protettivo della misura.

I diritti “diversi” si profilano come un'ampia categoria in cui si collocano diritti amministrativi, patrimoniali e di circolazione delle partecipazioni.

Ai sensi del secondo comma dell'art. 120-ter, vi è un gruppo di diritti, quelli di partecipazione, la cui modificazione rende la classificazione obbligatoria.  La norma citata non dice quali siano in concreto questi diritti, ma la definizione collima con quei diritti la cui modificazione, secondo l'art. 2437, comma 1, lett. g), c.c., abilita al recesso, posti in tale locus legis a fianco dei diritti di voto, ma da essi distinti.  Non solo, ma sempre nell'art. 2437 c.c., al secondo comma, si citano come categoria a sé i diritti di circolazione.  Ciò fa concludere che i diritti di partecipazione siano quelli relativi al concorso alla percezione degli utili – o alla sopportazione delle perdite – e al risultato della liquidazione: insomma, in altro gergo, i diritti patrimoniali.

La classificazione è sempre poi obbligatoria per i soci di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.

I soci riuniti in classi acquistano il diritto di voto, che sarà un voto di classe, nel senso che si esprimerà all'interno di essa in proporzione alla partecipazione che ogni socio abbia al capitale, e concorrerà all'approvazione della ristrutturazione. 

Il potere di questa classe non è irrilevante.  Essa, infatti, decide del raggiungimento, ai fini dell'omologazione del piano, della totalità delle classi consenzienti o della loro maggioranza aprendo alla possibile ristrutturazione trasversale, nel caso in cui almeno una classe di favorevoli sia costituita da creditori privilegiati.

I soci non possono invece concorrere alla creazione delle condizioni per il secondo scenario di ristrutturazione trasversale regolato dall'art. 112, comma 2, lett. d) CCII, quello in cui il voto favorevole sia dato da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando le cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione, perché tale classe deve essere di creditori, appunto, e non di soci.

Come pure di creditori e non di soci deve essere la classe che dissente e blocca l'accesso alla ristrutturazione trasversale ai sensi della lett. b) del secondo comma dell'art. 112.

Pur con queste limitazioni, il voto dei soci può essere decisivo per il successo della procedura, in specie nello scenario che vede attuata la ristrutturazione trasversale in virtù del voto favorevole della maggioranza delle classi.

I criteri di formazione delle classi saranno soggetti a controllo da parte del Tribunale quando effettua il giudizio di omologazione (art. 112, comma 1, CCII) e in tale sede il Tribunale potrà ben sventare manovre abusive.

Ai soci è poi riservata la facoltà di opporsi all'omologazione se essa pregiudica i loro diritti rispetto alla alternativa liquidatoria (art. 120-quater, comma 4, CCII), caso che si porrà in quelle situazioni in cui la crisi sia di tipo finanziario e la liquidazione giudiziale dei beni, al riparo delle procedure esecutive individuali, possa portare a un risultato di piena soddisfazione dei creditori con un residuo attivo a favore dei portatori di strumenti di equity.  Si tratta di un estremo rimedio contro manovre espropriative del valore implicito della partecipazione da parte non già dei creditori, ma di altri soci, presumibilmente portatori di nuova finanza.

L'esecuzione delle modifiche statutarie

L'art. 120-quinquies CCII, ricalcando l'art. 185, comma 6, l. fall., affronta il problema dell'esecuzione delle modificazioni statutarie, stabilendo che il provvedimento di omologazione sia lo strumento che le determini, demandando agli amministratori l'adozione di ogni atto necessario a darvi esecuzione nei trenta giorni successivi e prevedendo, in caso di loro inottemperanza, la nomina di un amministratore giudiziario che abbia i poteri per sopperire alla loro inerzia, disponendone la revoca per giusta causa.

L'art. 120-quinquies si chiude con la previsione che il cambio di controllo, conseguente all'esecuzione di uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza, non possa costituire causa di risoluzione o di modificazione dei contratti stipulati dalla società, con conseguente inefficacia dei patti contrari.

Conclusioni

Si è qui voluto iniziare ad indagare le norme che il Codice della Crisi d'impresa e dell'Insolvenza ha posto per regolare alcuni aspetti della vita delle società allorché esse accedano a uno strumento di regolazione.

Si tratta di tema molto complesso che presenta diverse implicazioni, sia sul funzionamento della società che sull'avanzamento della procedura di ristrutturazione, e che dovrà trovare un suo assestamento mercé il lavorio della dottrina e l'elaborazione della giurisprudenza, come sta avvenendo per altri istituti innovativi contenuti nel Codice.

Giocano, come abbiamo visto, due termini:  da un lato il volere del legislatore di neutralizzare l'interferenza, viziata ontologicamente dal conflitto di interessi, dei soci con il corso della ristrutturazione, ponendo al centro del sistema, come dominus sociale, l'amministratore;  ma dall'altro, e questo è forse l'aspetto più innovativo – derivato dal calco della direttiva UE 1023/2019 – dando ai soci dignità di parti interessate, con uno statuto di diritti che non poca influenza può avere sull'esito delle ristrutturazioni (si pensi al gioco delle classi e alla formazione delle maggioranze ai fini della ristrutturazione trasversale).

Insomma, un vero e proprio ius specialis che convive con lo ius generalis, con linee di demarcazione tra i due diritti difficilmente definibili in astratto, ma da cogliere in concreto avendo riguardo sia alla tipologia degli atti compiuti che alla loro funzionalità.

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