Cessione totalitaria di quote societarie e riqualificazione in cessione di azienda

Giovambattista Palumbo
09 Febbraio 2024

La Corte di Cassazione, con la Sentenza in commento, ha chiarito rilevanti profili in tema di qualificazione o meno della cessione totalitaria di quote societarie come cessione di azienda.

Massima

La cessione della partecipazione societaria non è produttiva degli effetti giuridici propri della cessione aziendale, discostandosene quanto ad estraneità di istituti tipici. Ancor più quando non sia neppure espressiva del trasferimento di un compendio produttivo organizzato, idoneo, ex art. 2555 c.c., a fungere da azienda o ramo di essa.

Il caso

L'Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza con la quale la Commissione Tributaria Regionale, in riforma della decisione di primo grado, aveva ritenuto illegittimo l'avviso di liquidazione notificato, per responsabilità solidale, ai contribuenti in recupero dell'imposta proporzionale di registro su atto pubblico con il quale era stata ceduta l'intera partecipazione da loro detenuta in un'azienda agricola. Ciò previa riqualificazione dell'atto di cessione delle quote, ex art. 20 TUR, in una cessione di ramo aziendale.

La Commissione Tributaria Regionale aveva in particolare osservato che la modificazione apportata all'art. 20 cit., dall'art. 1, comma 87, l. n. 205/2017, (esclusione degli elementi extratestuali dal procedimento di qualificazione dell'atto) non era qui rilevante, poichè l'accertamento muoveva esclusivamente dalla valutazione dell'atto presentato alla registrazione e non anche di elementi a questo esterni, ovvero di atti collegati.

Contrariamente a quanto affermato però dall'Amministrazione finanziaria, secondo la CTR, la cessione totalitaria delle quote sociali e la cessione di azienda non avevano la medesima funzione economica, nè gli stessi effetti giuridici (tanto più che l'art. 11 Tariffa, prima parte, d.p.r. n. 131/1986 , espressamente prevede la tassazione in misura fissa degli atti aventi ad oggetto la negoziazione di quote di partecipazione in società).

L'atto dedotto in giudizio conteneva infatti la cessione, anche se con disposizioni formalmente riunite, di più quote sociali da parte di più cedenti ed a favore di più cessionari, senza che nessuno degli stipulanti disponesse della partecipazione totalitaria e tale atto non costituiva una cessione di ramo aziendale, anche perchè comunque relativo a quote sociali che non rappresentavano più un complesso di beni organizzati per l'esercizio dell'impresa, ex art. 2555 c.c., "dato che l'attività di allevamento di bovini da latte non era più esercitata nè esercitabile a seguito della cessione degli animali, della conversione delle colture, nonchè della cessazione del rapporto di lavoro con i dipendenti del ramo allevamento".

Con un primo motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate lamentava dunque la violazione del citato art. 20 d.p.r. n. 131/1986, art. 11 Tariffa, Prima Parte, degli artt. 1362 c.c. e segg., e degli artt. 2112 e 2555 c.c., per avere la Commissione Tributaria Regionale erroneamente escluso la qualificazione dell'atto in termini di cessione aziendale, nonostante che questa qualificazione si imponesse nella considerazione della causa concreta dell'atto in questione e del suo risultato giuridico finale; il che doveva essere affermato, sulla base di circostanze fattuali pacifiche tra le parti, pur nella sopravvenuta riformulazione dell'art. 20 cit..

Con un secondo motivo di ricorso si lamentava poi l'omesso esame della residua, concreta, potenzialità produttiva dei beni oggetto dell'atto in questione, integrativi di un compendio organizzato suscettibile di essere ceduto quale ramo aziendale.

Pur a seguito della precedente dismissione del ramo bovini da latte da parte della società ceduta, residuavano infatti in capo a quest'ultima diverse attività agricole di coltivazione dei terreni ed allevamento di bestiame da carne. Significativo di cessione aziendale, secondo l'Agenzia delle Entrate, era inoltre il fatto che l'atto prevedesse anche la cessione dei debiti e dei crediti inerenti.

La questione

L'art. 1, comma 87, lett. a), l. 27 dicembre 2017, n. 205, ha modificato l'art. 20 TUR in tema di "interpretazione degli atti", la cui previgente formulazione trova oggi una più circoscritta definizione normativa.

Riaffermato il principio basilare di prevalenza della sostanza sulla forma, l'intervento legislativo ha infatti ristretto l'oggetto dell'interpretazione al solo atto presentato alla registrazione, ed agli elementi soltanto da quest'ultimo desumibili, non rilevando quindi più, come espressamente indicato dal legislatore, gli elementi evincibili da atti eventualmente ad esso collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali.

Questo nuovo assetto normativo è stato poi fatto oggetto di ulteriore intervento legislativo con l'art. 1, comma 1084, l. 30 dicembre 2018, n. 145, secondo cui: “La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), costituisce interpretazione autentica del Testo Unico di cui a l D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 , art. 20, comma 1”.

In tal modo il legislatore ha dunque ritenuto di attribuire espressamente alla previsione citata portata di interpretazione autentica della disposizione-base di cui all'art. 20 TUR. E ciò al fine di assegnare efficacia retroattiva alla riformulazione di quest'ultima disposizione, così da renderla applicabile - fermi i rapporti di registrazione ormai esauriti - anche agli atti negoziali posti in essere prima del 1° gennaio 2018.

Tali interventi legislativi sono stati infine anche vagliati, sotto vari profili, dalla Corte Costituzionale, la quale (sentenza n. 158/2020) ha ritenuto non fondati i dubbi sollevati, essendo la scelta del legislatore non arbitraria ed anzi coerente con i principi ispiratori dell'imposta di registro (cfr., Corte Cost., sentenza n. 39/2021).

All'esito di tale evoluzione normativa, la giurisprudenza di legittimità - preso atto del mutato quadro di riferimento - ha osservato che, in tema di imposta di registro, le operazioni strutturate mediante conferimento d'azienda seguito dalla cessione di partecipazioni della società conferitaria non possono essere riqualificate in una cessione d'azienda e non configurano, di per sè, il conseguimento di un indebito vantaggio realizzato in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario.  Oggetto di tassazione è infatti il solo atto presentato per la registrazione, attesa l'irrilevanza degli elementi extratestuali e degli atti collegati (cfr., Cass. n. 25601/2021).

L'Amministrazione finanziaria, nell'attività di qualificazione degli atti negoziali, deve dunque attenersi alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici dell'atto presentato alla registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extra-testuali e gli atti, pur collegati, ma privi di qualsiasi nesso testuale con l'atto medesimo, salve le diverse ipotesi espressamente regolate (cfr., da ultimo, Cass. nn. 2677/2022; Cass. nn. 11429/2022, 13006/2022, 14490/2023, 15193/2023, 24668/2023).

L'accesso ad elementi negoziali o comportamentali estrinseci è invece consentito nella diversa ottica (estranea però all'art. 20 cit.) dell'emersione di un abuso del diritto ed elusione fiscale, nel qual caso l'Amministrazione finanziaria deve osservare il contraddittorio preventivo, il procedimento e le garanzie di cui all'art. 10-bis l. n. 212/2000.

Osservazioni

Tanto premesso, secondo la Corte, nel caso di specie, la tesi dell'Amministrazione finanziaria ricorrente era infondata.

Evidenziano i giudici di legittimità che era vero che l'affermazione della Commissione Tributaria Regionale circa il fatto ostativo che non ci si sarebbe trovati di fronte ad un'unica cessione totalitaria delle quote sociali, bensì ad una cessione frazionata in capo tanto ai cedenti quanto ai cessionari, ben poteva essere superato in ragione del fatto che la "sommatoria" delle cessioni ed il suo confluire in un trasferimento totalitario della partecipazione già detenuta dai cedenti emergevano dall'atto stesso presentato (unitariamente) alla registrazione, il che soddisfava il requisito della qualificazione negoziale per intrinseco alla luce della modifica normativa.

Ma comunque restava insuperabile il diverso ed ulteriore aspetto secondo cui la cessione della partecipazione societaria, non solo non era produttiva degli effetti giuridici propri della cessione aziendale (ancorchè l'atto in esame prevedesse in realtà anche la separata trasmissione dei debiti e crediti sociali), discostandosene quanto ad estraneità di istituti tipici (v. artt. 2556 c.c. e segg., art. 2112 c.c.), ma neppure era stata dal giudice di merito ritenuta espressiva del trasferimento di un compendio produttivo organizzato, idoneo, ex art. 2555 c.c., a fungere da azienda o ramo di essa.

Tale ragione decisoria, rileva la Cassazione, era stata sì contestata dall'Agenzia delle entrate, ma sulla base di tutta una serie di elementi, estranei all'atto. E quindi, al di là del fatto che si trattava comunque di una delibazione di merito che il giudice di appello aveva adeguatamente argomentato e che, come tale, non poteva essere rivista in sede di legittimità, risultava in ogni caso dirimente l'aspetto tecnico-giuridico rappresentato dalla preclusione, nell'attuale formulazione dell'art. 20 cit., alla (ri)qualificazione negoziale sulla base di elementi esterni o attività collegate.

Si trattava dunque, conclude la Corte, di un caso emblematico di qualificazione negoziale per estrinseco, attraverso la valorizzazione di elementi che non emergevano dall'atto presentato alla registrazione; il che, come visto, non è (più) consentito, laddove, chiarisce ancora la Cassazione, l'alienità, rispetto all'atto, dell'elemento escluso ex lege non viene meno per il solo fatto che quest'ultimo possa risultare pacifico in giudizio perchè riconosciuto anche dalle parti contraenti che vi abbiano dato causa.

Conclusioni

In definitiva e a prescindere dallo specifico caso processuale, giova evidenziare quanto segue.

Come visto, la legge di Bilancio 2019 ha stabilito la natura interpretativa autentica e dunque retroattiva delle modifiche già apportate dalla Legge di Bilancio 2018 all'art. 20 del d.p.r. n. 131/1986, in tema di riqualificazione ai fini imposta di registro.

La Corte di Cassazione (vedi Sentenza n. 4589/2018) non aveva mai condiviso la tesi della retroattività della norma, in quanto gli artt. 10 e 11 delle disposizioni sulla legge in generale prevedono che una norma non ha effetto retroattivo, salvo contraria, espressa, disposizione. Evidenziava inoltre la Suprema Corte che, anche a voler prescindere, da un lato, dall'assenza di un'espressa menzione della retroattività del nuovo art. 20 nel corpo della legge e, dall'altro, da un'indagine circa la ragionevolezza della norma, non si riscontravano in tali fattispecie quegli «adeguati motivi di interesse generale», ritenuti necessari per sostenere la retroattività della norma.

A sposare la linea della Cassazione era stata del resto anche una risposta ad interrogazione parlamentare (n. 5-0064), che, il 28.11.2018, aveva confermato la irretroattività delle modifiche fatte con la precedente Legge di Bilancio.

In un tale (intricato) contesto è infine intervenuta, al fine di chiarire ogni dubbio, la legge di Bilancio 2019 (art.1, comma 1084), la quale, come detto, superando l'orientamento della Suprema Corte, ha stabilito la natura interpretativa autentica e dunque retroattiva delle modifiche già apportate dalla Legge di Bilancio 2018.

E infine, come visto, la Corte Costituzionale ha sancito anche la legittimità costituzionale di tale intervento.

Quello che, al di là della conclusione, salta all'evidenza è comunque un vero e proprio contrasto tra poteri (legislativo e giudiziario e anche giudiziario/giudiziario nella diversa impostazione Cassazione/Consulta), che deve far suonare una campanella di allarme sullo stato di salute del nostro Ordinamento.

Contrasto che era peraltro anche interno alla stessa Cassazione, anche sotto il profilo della “natura” antielusiva o meno della disposizione di cui all'art. 20 d.p.r. n. 131/1986, laddove l'orientamento poi dominante aveva concluso nel senso di ritenere che non fosse disposizione predisposta al recupero di imposte "eluse", anche perché l'istituto dell'abuso del diritto, ora disciplinato dall'art. 10-bis L. n. 212/2000, presuppone una mancanza di "causa economica", che non è viceversa prevista per l'applicazione dell'art. 20 citato.

In ogni caso l'impostazione ad excludendum e retroattiva della norma, dopo l'intervento della Consulta, ha ormai trovato definitiva soluzione.

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