Prevalenza del sequestro preventivo finalizzato alla confisca sulla procedura fallimentare: sviluppi normativi e profili ermeneutici

20 Febbraio 2024

Le Sezioni Unite Penali sono tornate a pronunciarsi sul dibattuto tema dei rapporti tra fallimento e sequestro preventivo finalizzato alla confisca, confermando la prevalenza della misura ablatoria. La decisione pone un (almeno temporaneo) arresto ad una complessa diatriba giurisprudenziale, pur lasciando aperti spiragli e dibattiti sui quali si sofferma il presente lavoro.

La Massima

L’avvio della procedura fallimentare non osta all’adozione o alla permanenza, se già disposto, del provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca relativa ai reati tributari.

Il caso

La vicenda, sottesa al provvedimento in commento, originava dalla crisi d'impresa di una s.n.c., dichiarata fallita nel 2019. La Curatela aveva agito per la revocatoria di alcuni atti compiuti dai soci illimitatamente responsabili – segnatamente, la costituzione di un trust – al fine di vedere affermata l'inefficacia rispetto alla massa fallimentare di tali atti dispositivi. Pur pervenuta tale declaratoria d'inefficacia nel corso del 2021, risultava tuttavia nel frattempo essere stato disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 di tutti i beni conferiti dai soci nel predetto trust: tale sequestro preventivo si innestava nel procedimento penale promosso contro i soci stessi per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, ex art. 11 del medesimo d.lgs. n. 74/2000.

La Curatela fallimentare agiva dunque per ottenere il dissequestro di tali beni, ottenendo tuttavia il rigetto delle proprie istanze e proponendo, infine, ricorso dinanzi alla Suprema Corte sulla base di due ordini di argomentazioni: i) la procedura concorsuale determina lo spossessamento dei soggetti sottoposti alla procedura (i.e. nel caso di specie i soci illimitatamente responsabili), il che contrasterebbe con il tenore dell'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000, che rende sottoponibili a sequestro finalizzato alla confisca i beni che costituiscono il prodotto o il prezzo della condotta illecita “salvo che appartengano a persona estranea al reato”; ii) la dichiarazione di fallimento era intervenuta in data anteriore rispetto al sequestro, dovendo dunque risultare prevalente rispetto a quest'ultimo.

La questione

Premessa

Con la recente pronuncia n. 40797/2023 le Sezioni Unite Penali hanno (nuovamente) avuto l'occasione di misurarsi con la dibattuta tematica del rapporto tra sequestro preventivo finalizzato alla confisca e procedura fallimentare, già oggetto, negli ultimi due decenni, di una marcata polarizzazione giurisprudenziale: su un versante, la tesi della prevalenza, in ogni caso, della “misura ablatoria penale”; sul versante opposto, le argomentazioni a sostegno dell'impossibilità di sottoporre a sequestro preventivo i beni già attratti alla massa fallimentare per effetto della dichiarazione di fallimento.

Nel dirimere la controversia in favore della prima delle due ipotesi, le Sezioni Unite colgono l'occasione per sondare in profondità le ragioni dell'una e dell'altra, valorizzando altresì i precedenti arresti di legittimità e (quantunque non applicabili al caso di specie ratione temporis) la “nuova” disposizione di cui all'art. 317 d.lgs. n. 14/2019 (Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza). Al contempo, pur nella chiarezza della soluzione prescelta, la pronuncia della Suprema Corte lascia spazio a quesiti di non poco momento, sui quali è opportuno soffermarsi per comprendere il portato logico-giuridico della prevalenza “assoluta” dello strumento penale sulla procedura concorsuale.

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Gli orientamenti giurisprudenziali

La questione rimessa alle Sezioni Unite concerne, in ultima istanza, i rapporti tra fallimento e sequestro preventivo, con specifico riferimento ai soli casi in cui la procedura concorsuale sia anteriore alla misura cautelare (“Se […] l'avvenuto spossessamento del debitore erariale per effetto dell'apertura della procedura concorsuale osti al sequestro stesso, ovvero se, invece, il sequestro debba comunque prevalere […]). Nulla quaestio, infatti, nel caso in cui il sequestro intervenga prima della procedura, poiché in tal caso i beni sottoposti a vincolo cautelare non potrebbero mai essere attratti dalla massa fallimentare.

Ciò premesso, le Sezioni Unite sottolineano come la questione sia stata già affrontata dalla stessa composizione della Suprema Corte in tre diverse occasioni, con esiti e responsi tra di loro contraddittori.

La genesi è infatti da individuarsi nella sentenza “Focarelli” (Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951), che, nell'affermare la legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni di un'impresa dichiarata fallita, sottolineava la necessità che il giudice desse “motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare”. Si trattava di una soluzione di compromesso – viziata dalla fideistica convinzione che le Autorità avrebbero garantito uno “scambio di informazioni e di conoscenze” atto a fornire al giudice i presupposti della motivazione nel caso concreto – e, in quanto tale, rimasta ampiamente disattesa, tenuto altresì conto dell'assenza di previsioni legislative in allora adeguate alla fattispecie scrutinata.

Non minori criticità si erano infine originate in merito alla nozione di “persona estranea al reato”. Infatti, la sentenza Focarelli aveva ritenuto che la curatela fallimentare non fosse un “terzo estraneo al reato”, poiché “il concetto di appartenenza di cui all'art. 240 cod. pen. ha una portata più ampia del diritto di proprietà, e che pertanto l'assoggettamento dei beni alla procedura concorsuale determini un mero spossessamento (rectius: un vincolo di indisponibilità), destinato a consolidarsi in mutamento della proprietà, dalla società fallita ai creditori, solo al momento della vendita fallimentare.

Tale principio veniva, mutatis mutandis, confermato dalle Sezioni unite “Uniland” del 2014 (Cass., sez. un., 25 settembre 2014, n. 11170), le quali negavano che il curatore fallimentare potesse impugnare il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni della fallita, poiché “non è titolare di diritti sui beni in sequestro né può agire in rappresentanza dei creditori, non essendo anche questi ultimi, prima dell'assegnazione dei beni e della conclusione della procedura, titolari di alcun diritto sugli stessi”.

Ma il predetto indirizzo veniva pochi anni dopo apertamente sconfessato dalla sentenza, anch'essa a Sezioni unite, “Fallimento Mantova Petroli” (Cass., sez. un., 26 settembre 2019, n. 45936) la quale, in aperto e dichiarato conflitto con la “Uniland”, affermava la legittimazione del curatore fallimentare a chiedere la revoca del sequestro e ad impugnare i provvedimenti cautelari, avendo egli una posizione qualificata derivante dal carattere pubblicistico della sua funzione nella gestione dei beni; per di più, tale legittimazione non si limiterebbe ai beni sottoposti a sequestro dopo la dichiarazione di fallimento, ma anche a quelli per i quali il vincolo cautelare dovesse essere stato disposto prima della stessa, in quanto anch'essi rientranti nella massa attiva nella “disponibilità” della curatela.

Dietro a queste autorevoli sentenze, in aperto e insanabile conflitto, si sono allineate nel corso degli anni numerose pronunce delle sezioni semplici, ora in favore della prevalenza della misura ablatoria penale, ora in favore della misura concorsuale preesistente, ora (più raramente) alla ricerca di una soluzione di compromesso.

Nel ricostruire lo scenario, la sentenza in commento individua, dunque, i due principali orientamenti già richiamati, nello specifico:

  1. l'orientamento maggioritario, per il quale, in primo luogo, i beni della massa fallimentare non possono dirsi “appartenenti a persona estranea al reato”, non ostando dunque al provvedimento di confisca la previsione di cui all'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000. Ulteriormente, il carattere obbligatorio della confisca, cui il sequestro è finalizzato, nell'ottica pubblicistica di contrasto alle fattispecie di reato, non potrebbe che prevalere sulla disciplina concorsuale, pur sempre finalizzata al più ridotto scopo di soddisfare i creditori. Inoltre, ragionando a contrario, il carattere sanzionatorio della confisca verrebbe mitigato e financo estinto in maniera eccentrica, non essendo in alcun modo previsto che la pendenza di una procedura concorsuale possa produrre un effetto preclusivo rispetto alla misura penale (Cass. pen., sez. III, 1° marzo 2016, n. 23907);
  2. l'indirizzo minoritario, consolidato da alcune pronunce della Terza Sezione e da alcune autorevoli opinioni dottrinali, afferma invece che la dichiarazione di fallimento “comporta il venir meno in capo al fallito del potere di disporre del proprio patrimonio”, con contestuale subentro del curatore, terzo estraneo al reato, nella gestione del patrimonio al fine di evitarne la dispersione e il depauperamento. In tale ottica, la legittimazione del curatore all'impugnazione dei provvedimenti cautelari costituirebbe l'indice di un più ampio potere rispetto ai beni costituenti l'attivo fallimentare, tale da consentire di qualificare il curatore quale “soggetto estraneo al reato” e, dunque, ad escludere il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di quei beni che, in quanto già attratti alla massa fallimentare, “apparterrebbero” al curatore stesso. Ulteriormente, si sottolinea la necessità di non far ricadere sui creditori del fallito le conseguenze, indubbiamente pregiudizievoli, della prevalenza del vincolo ablativo; nonché l'inopportunità di favorire (indirettamente) il Fisco, la cui posizione creditoria risulterebbe potenzialmente favorita dal sequestro rispetto a quella degli altri creditori, obbligati ad essere soddisfatti da quanto eventualmente residuato all'esito della confisca.

Bene notare come ambedue gli orientamenti concordino in merito all'obbligatorietà della misura penale, facendone tuttavia discendere conseguenze differenti. Se per il primo indirizzo il provvedimento di sequestro, antecedente o sopravvenuto, costituisce un limite invalicabile per la procedura concorsuale, il secondo ravvisa delle motivazioni per favorire la priorità temporale della dichiarazione di fallimento, in punto di tutela dei creditori e di salvezza dei rapporti giuridici. Ciò posto, lì dove le due interpretazioni divergono maggiormente è nella qualificazione giuridica del curatore (e, conseguentemente, nella sua titolarità o meno all'impugnazione dei provvedimenti cautelari), nonché nel momento di realizzazione dell'effetto traslativo dei beni dalla società fallita ai creditori, con differente qualificazione dell'attivo fallimentare (beni appartenenti alla società fallita, seppur spossessata, o beni “appartenenti” a un terzo estraneo al reato).

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La disciplina del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza e la sua inapplicabilità ratione temporis

Conclusa l'ampia rappresentazione del contesto giuridico, le Sezioni Unite si soffermano sulle importanti novità introdotte dal d.lgs. n. 14/2019, Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza (CCII), il quale ha esplicitamente introdotto, all'art. 317, una clausola di prevalenza della misura cautelare reale rispetto alle procedure concorsuali, a valere dalla data del 15 luglio 2022 in virtù delle scansioni temporali dettate dal legislatore per l'entrata in vigore della nuova normativa.

L'art. 317 CCII, come ricordato dalle Sezioni Unite, trova il suo antecedente logico nel d.lgs. n. 159/2011, c.d. Codice Antimafia, la cui impronta genetica è rinvenibile nella stessa formulazione testuale della norma (“Le condizioni e i criteri di prevalenza rispetto alla gestione concorsuale delle misure cautelari reali […]  sono regolate dalle disposizioni del Libro I, titolo IV del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 […] Per misure cautelari reali di cui al comma 1 si intendono i sequestri delle cose di cui è consentita la confisca […]”), sicché non solo la piena comprensione della regola di prevalenza deve apprezzarsi nella lettura in parallelo delle due normative, ma, per di più, l'art. 317 viene ad estendere omnibus la disciplina antimafia, in origine circoscritta e specifica, tanto da renderla la misura di tutti i rapporti tra procedure concorsuali e vincoli ablativi di stampo penalistico.

In altri termini, le Sezioni Unite, incaricate di dirimere un così aspro contrasto, tendono a rimarcare come il problema sia, invero, già risolto pro futuro, avendo il legislatore regolato i rapporti tra sequestro preventivo a fini di confisca nel senso di “un'inequivocabile prevalenza dello strumento penale”. Pertanto, in tutti i casi in cui sulla massa fallimentare insistano sia la procedura concorsuale sia il provvedimento ablativo, quest'ultimo prevarrà, indipendentemente dalla scansione temporale delle due misure: e la prevalenza è così marcata da imporre la chiusura della procedura concorsuale se il patrimonio della fallita contenga solo beni oggetto di sequestro finalizzato alla confisca. Ferma la possibilità di riassunzione della procedura in caso di revoca della misura penale, non residuano all'oggi spazi per la procedura concorsuale che non siano quelli di una pressoché completa subalternità.

Di fronte a un così cristallino scenario, la Corte non cede tuttavia alla tentazione di servirsi ultra vires della norma di cui all'art. 317 CCII, ricordando che il 15 luglio 2022, quale termine di entrata in vigore di tale parte della riforma (art. 390 CCII), costituisce un limite invalicabile in via interpretativa. Se, come nel caso di specie, i fatti di causa risultano essere avvenuti prima di tale data, il giudice non può ricondurli, pena la violazione dei cardini dell'interpretazione giuridica di cui all'art. 11 delle preleggi, nell'alveo della normativa sopravvenuta, imponendosi dunque la risoluzione del nodo interpretativo per altra via.

La soluzione giuridica

La costruzione ermeneutica delle Sezioni Unite prende le mosse da una constatazione tanto lineare quanto risolutiva: i rilievi dell'orientamento minoritario, volti a preservare uno spazio di sopravvivenza per la procedura concorsuale, non hanno in realtà sviluppato “argomentazioni ulteriori rispetto a quelle già esaminate e decise nella sentenza “Focarelli: è dunque a tale sorgente che è necessario fare ritorno per rinvenire quanto necessario a dirimere la controversia in favore della misura penale.

Invero, le Sezioni Unite ricordano che, in linea di principio, la natura obbligatoria della misura ablatoria (e del precedente sequestro), posta a tutela del superiore interesse pubblico, non può che sopravanzare il recessivo interesse dei privati a veder soddisfatto il loro credito. In tal senso, con specifico riferimento alla confisca del profitto dei reati tributari, il “sacrificio” dei creditori privati non è ritenuto irragionevole, laddove si consideri che l'interesse del Fisco al recupero di quanto evaso incorpora e sottintende il concorrente obbligo di impedire la circolazione, anche sotto forma di ripartizione dell'attivo fallimentare, di beni provenienti da evasione.

Ciò replicato in punto di (presunte) deroghe alla par condicio creditorum, le Sezioni Unite si occupano di chiarire i punti focali della controversia, ovvero: i) gli effetti della dichiarazione di fallimento sulla titolarità dei beni; ii) la qualificazione del curatore e la sua legittimazione all'impugnazione dei provvedimenti cautelari.

  1. In punto di titolarità dei beni, la Corte osserva come il fallito rimanga, fino alla ripartizione dell'attivo o alla vendita, titolare dei beni attratti alla massa fallimentare, seppur nella peculiare condizione che deriva dallo spossessamento subito per effetto della procedura concorsuale. A parere della Corte, ciò che si determinerebbe sarebbe dunque una perdita di potere (i.e. non essere più liberi di disporre del patrimonio), non una perdita dello status di proprietario: a riprova, l'art. 42 l. fall. dispone che alla sentenza dichiarativa di fallimento consegua la privazione “dell'amministrazione e della disponibilità” dei beni, non la soppressione del diritto di proprietà, il quale continuerebbe ad esistere, seppur gravato e compresso dalla pendenza del fallimento. Sul punto, le Sezioni Unite sottolineano come il peculiare “status del fallito” sia stato, invero, approfondito anche dalla giurisprudenza costituzionale, che, dopo alcune prime oscillazioni, da oltre un ventennio è costante  nel negare che sussista nell'ordinamento “una norma di carattere generale che privi il fallito della capacità di agire”: da ciò (invero, in modo non del tutto lineare) discenderebbe, a parere della Corte, una condizione di incapacità del fallito ad operare da solo, essendogli “inibito di compiere efficacemente atti giuridici (negoziali e non) di disposizione e di amministrazione”.
  2. Se, pertanto, il fallito è un soggetto che non può agire da solo, appare consequenziale alle Sezioni Unite che il curatore rivesta un peculiare ruolo di amministrazione. Per un verso, egli opera a sostegno delle ragioni dei creditori, nel cui interesse la massa fallimentare è vincolata; per altro verso, nondimeno, la fonte dei poteri del curatore risiede nella “sostituzione di questi al fallito nel compimento di attività giuridiche incidenti sul patrimonio fallimentare”. In altri termini, la redazione dell'inventario non comporta la materiale apprensione delle cose da parte del curatore, il quale diviene mero detentore, senza alcuna sottrazione ope legis delle stesse al fallito”: l'eventuale spossessamento seguirà alla vendita dei beni o al riparto dell'attivo, non avendo fino ad allora i creditori nulla più che un diritto, più o meno qualificato, di credito.

Pertanto, la disposizione di cui all'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000, nell'escludere dall'area di operatività della confisca i beni appartenenti a “persona estranea al reato”, non riguarderebbe in alcun modo il curatore, “mero gestore-detentore dei beni dell'imprenditore”: gli unici diritti opponibili alla confisca sarebbero dunque “il diritto di proprietà [e] gli altri diritti reali che gravano sui beni” acquisiti dai terzi in buona fede (e non quelli dei creditori in quanto tali).

A riprova, le Sezioni Unite ricordano come le norme di cui agli artt. 42 e 104-ter l.fall. (artt. 142 e 213 CCII), dispongano il ritorno dei beni al fallito nel caso in cui la loro conservazione nella massa fallimentare sia considerata antieconomica. Si tratta della c.d. derelictio, la cui peculiare disciplina viene utilizzata dalle SS.UU. per manifestare come, in taluni casi, il soggetto fallito possa ritornare ad essere pieno proprietario dei beni, attraverso la ri-espansione della posizione soggettiva prima compressa dalla pendenza della procedura.

Quanto alla legittimazione del curatore all'impugnazione dei provvedimenti cautelari, essa è strumentale solo a “consentire l'esercizio processuale delle richieste attinenti alla misura” e non implica né la declinazione di un principio generale, come sostenuto dall'orientamento minoritario, né la prevalenza delle ragioni della procedura rispetto all'obbligatorietà della misura penale.

Conclusioni e profili aperti

La pronuncia in commento costituisce il logico esito di una diatriba che, nella sua estrema polarizzazione, aveva esacerbato le opposte letture giurisprudenziali e dottrinali in merito alle sovrapposizioni tra sequestro e procedura concorsuale. L'accoglimento (pressoché totale) delle argomentazioni della tesi maggioritaria cristallizza la prevalenza del vincolo “pubblico” – finalizzato alla repressione dei reati – rispetto al vincolo “privato” a tutela dei creditori, il cui sacrificio, lungi dall'essere irragionevole, deve necessariamente soccombere a fronte dell'interesse ad evitare la circolazione di beni derivanti da illeciti (segnatamente, nei reati tributari, da condotte di evasione).

Nondimeno, dietro un'apparente granitica solidità, le conclusioni della Suprema Corte lasciano spiragli e dibattiti ancora aperti, sui quali è opportuno soffermarsi.

In primo luogo, è utile sottolineare come la scelta interpretativa delle SS.UU., nonostante le rivendicazioni di “autonomia” (cfr. p. 13-14 della sentenza), riposi in larga parte sul dato normativo sopravvenuto. Nell'affrontare ed elidere le posizioni dell'orientamento minoritario, le argomentazioni della Corte si riducono invero all'affermazione del primato dello strumento penalistico: primato che, tuttavia, risulta affermato solo ex post, con la normativa del 2019. In altri termini, se è vero che pro futuro la legge ha cristallizzato la legittimità del “sacrificio” dei creditori privati, le vicende precedenti a tale data non godono di alcun appiglio normativo che giustifichi la prevalenza dell'interesse dell'Amministrazione Fiscale. Ciò è tanto più vero se si considera come, già in vigore il Codice della Crisi d'Impresa, la stessa Cassazione, seppur a sezioni semplici, aveva convintamente affermato che “l'orientamento del legislatore sia quello di privilegiare le ragioni del fallimento rispetto a quelle dell'Erario” (Cass. civ., sez. III, n. 47299/2021). Sotto tale luce, dunque, la scelta delle SS.UU. di valorizzare il dato testuale dell'art. 317 CCII, per quanto convincente, non è di per sé sola risolutiva delle obiezioni ultraventennali dell'orientamento avverso, destinate probabilmente a serpeggiare finché saranno pendenti vicende per fatti precedenti al 15 luglio 2022 (i.e. entrata in vigore del Codice della Crisi).

In secondo luogo (ed è rilievo che è tanto più valido quanto più si consideri il nuovo art. 317 CCII), è lecito esprimere dei dubbi sull'adeguatezza della prevalenza assoluta delle misure cautelari sulla pendenza della procedura: se l'impianto teorico è infatti condivisibile, i limiti pratici di un'applicazione rigida della normativa appaiono tutt'altro che remoti. Ad esempio, si consideri, con specifico riferimento ai reati tributari, che i fatti di reato – per complessità degli accertamenti e per la natura stessa delle condotte – potrebbero essere scoperti e contestati anche ad una considerevole distanza temporale e, per quanto più d'interesse, in una fase in cui la procedura concorsuale potrebbe già trovarsi in stato avanzato. In un simile scenario, un sequestro “tardivo”, innestatosi su una procedura già avviata, produrrà indubbiamente conseguenze pregiudizievoli, anche molto severe, per gli incolpevoli creditori e per il curatore, i cui prospetti potrebbero essere compromessi dalla diminuzione della massa fallimentare in conseguenza dell'apposizione del vincolo. Che tale sacrificio sia tollerabile senza condizioni è circostanza di cui è lecito dubitare e sulla quale la giurisprudenza, nonostante la pronuncia delle SS.UU., sarà in futuro chiamata a confrontarsi. Nella prassi giudiziaria, la mitigazione della rigidità della nuova normativa potrà forse essere attuata – recuperando il suggerimento delle Sezioni Unite Focarelli – attraverso un migliore coordinamento tra organi della procedura (in principalità, il tribunale fallimentare e il giudice delegato) ed indagini penal-tributarie, ma i confini di una tale, auspicabile, collaborazione appaiono incerti e rimessi, caso per caso, alle spontanee iniziative dell'una o dell'altra parte.

Di certo, in assenza di diverse indicazioni normative e giurisprudenziali, l'irrigidimento dei rapporti tra sequestro finalizzato alla confisca e procedure concorsuali, nel risolvere un perdurante conflitto interpretativo, porta con sé il rischio di una difficile applicabilità in concreto, con esiti e conseguenze di difficile prevedibilità.

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