Rinuncia alla servitù e regime probatorio
23 Febbraio 2024
Questo il principio affermato dalla ordinanza in commento, depositata il 21 febbraio 2024 dalla Suprema Corte e che offre lo spunto per fare chiarezza sul regime probatorio in tema di servitù. Il caso riguarda la divisione di alcuni terreni tra coeredi, a seguito della quale il fratello sottoscriveva una missiva in cui si impegnava a procedere alla chiusura di due varchi esistenti sul suo fondo ed aventi affaccio sulla proprietà della sorella. Assumendo l'inadempimento del fratello, la signora adiva il Tribunale di Lanciano onde sentirlo condannare alla ridetta chiusura, seppur l'obbligo non risultava trascritto nell'atto di divisione; il fratello si costituiva contestando gli addebiti e precisando che sui due fondi insisteva una servitù di passaggio, costituita per destinazione del padre di famiglia, a favore del proprio fondo e gravante su quello dell'attrice; in subordine, chiedeva l'accertamento dell'avvenuto acquisto della servitù per usucapione. All'esito del giudizio, il Tribunale accoglieva la domanda principale e condannava l'erede alla chiusura dei due ingressi; la decisione veniva confermata anche in sede di appello, laddove veniva valorizzato l'impegno scritto assunto dal fratello, confermato anche da prova testimoniale sul punto. Diversamente, la Corte escludeva l'esistenza di prove in ordine all'asserita servitù di passaggio ed affermava che non poteva essere dichiarata quella per destinazione del padre di famiglia, giacchè il proprietario originario non aveva mai utilizzato le due aperture per accedere sulla strada pubblica, piuttosto, si era servito di altro passaggio, ed il varco aperto dalla sorella sul proprio terreno era stato realizzato dopo l'assegnazione. Avverso la sentenza di gravame è stato interposto ricorso in Cassazione dal fratello, affidato a 12 motivi, la sorella ha resistito con controricorso. Il Collegio ha accolto le istanze del ricorrente: in particolare, la Corte ha rilevato che il giudice di seconde cure aveva omesso di valutare l'atto di frazionamento e la documentazione ad esso afferente che, invece, avevano valenza decisiva per affermare l'esistenza di opere visibili e permanenti, predisposte dall'unico proprietario, prima della divisione del fondo. Come noto, infatti, l'invocata servitù si costituisce, ope legis, per il fatto che al momento della separazione dei fondi o del frazionamento, vi siano segni manifesti ed inequivoci di una situazione oggettiva di subordinazione o di servizio, che integri il contenuto proprio di una servitù. Ciò, indipendentemente da qualsiasi volontà, tacita o presunta, dell'unico proprietario nel determinarla o mantenerla. In sintesi, per costituire la servitù prediale per destinazione del padre di famiglia è necessario che le opere destinate al suo esercizio, preesistano alla divisione e che, dopo la separazione, sia mancata una manifestazione di volontà contraria al perdurare della relazione di sottoposizione di un fondo, nei confronti dell'altro. Tale tipo di servitù non è soggetta nè a manifestazione di volontà, né a trascrizione, pertanto, nel caso di specie, sarebbe stato necessario accertare esclusivamente se le due aperture costituivano, o meno, segni visibili e permanenti all'esercizio della servitù di passaggio, mentre l'esame del titolo era necessario solo alla ricognizione dello stato dei luoghi. La Corte, dunque, ha ritenuto di cassare la gravata sentenza sul punto, come pure in riferimento all'eccepita violazione degli artt. 1350,1353 e 1362 c.c., avuto riguardo al presunto accordo sottoscritto dai fratelli, in sede di divisione. Il Collegio, infatti, ha osservato che la rinuncia al diritto di servitù deve manifestarsi per iscritto, a pena di nullità, e non può essere provata per testi o da fatti concludenti, così come aveva erroneamente fatto la Corte del merito. Né la rinuncia poteva risultare dalla missiva del 2010 inviata dal fratello alla sorella, poiché il documento si limitava a confermare il contenuto di un accordo verbale, in relazione ad un atto che richiedeva la forma scritta ad substantiam e non poteva essere idoneo a provare l'esistenza di un atto nullo, per difetto di forma (qualora si fosse accertata la rinunzia in forma orale). La prova di un contratto per il quale è richiesta la forma scritta, hanno chiarito gli Ermellini, non può discendere da un negozio di mero accertamento, il quale potrebbe, in tesi, eliminare le eventuali incertezze sulla situazione giuridica, non già sostituirne il titolo costitutivo. Ciò premesso, la sentenza è stata cassata con emanazione del seguente principio di diritto: «la rinuncia al diritto di servitù deve rivestire, ai sensi dell'art. 1350, n. 5, c.c. , la forma scritta sotto pena di nullità e non può quindi risultare da fatti concludenti né può essere provata con testi o da un atto di ricognizione o di accertamento». (tratto da dirittoegiustizia.it) |