Ruolo e rilevanza di un’amministrazione di fatto nel sistema della responsabilità da reato delle persone giuridiche

Ciro Santoriello
22 Febbraio 2024

La parte più interessante della pronuncia in esame è quella dedicata alla rilevanza, ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, di soggetti che, pur privi di qualsiasi rapporto formale con l'impresa e pur non rivestendo alcun ruolo all'interno della stessa, esercitano di fatto un potere di gestione e controllo sulla medesima.

Massima

Nel novero delle “persone che esercitano, anche di fatto, … il controllo della società” e di cui fa menzione l'art. 5, lett. a), ultima parte, d.lgs. n. 231/2001, rientrano anche quanti svolgano attività di verifica ed incidenza nella realtà economico patrimoniale della società, sovrapponibile a quella dei sindaci o degli altri soggetti formalmente deputati a tali attività, con conseguente possibilità per la società di dover rispondere anche per i reati commessi dai componenti formali del collegio sindacale i quali in concreto svolgano anche il ruolo di amministratori di fatto dell'ente.

Il caso

Nell'ambito di un procedimento penale per il reato di accesso abusivo a sistema informatico, una società era condannata in sede di merito per l'illecito amministrativo di cui agli artt. 615-ter c.p. e 24-bis d.lgs. n. 231/2001 ed era altresì condannata a risarcire la costituita parte civile. Nel caso di specie, il delitto presupposto della responsabilità dell'ente era commesso, nell'interesse ed a vantaggio della persona giuridica, da un soggetto (né dipendente, né titolare della funzione gestoria della stessa, ma) esterno all'ente collettivo, ma che i giudici ritenevano esercitasse in via di fatto la funzione di amministratore della società condannata.

In sede di ricorso per cassazione, la società in primo luogo contestava la costituzione di parte civile nei confronti della società, sostenendo che dal testo dell'atto di costituzione di parte civile emergeva come l'azione di risarcimento era esercitata solo nei confronti degli imputati e non anche della società, citata solo in qualità di responsabile civile.

In secondo luogo, si sosteneva che gli autori dei reati presupposti della responsabilità dell'ente erano, come detto, estranei alla società condannata e quindi non poteva operare il disposto di cui all'art. 5 d.lgs. n. 231/2001.

La questione

Sulla costituzione di parte civile nel processo nei confronti di enti collettivi, la Cassazione ha più volte escluso che un'istanza di risarcimento potesse essere formulata nei confronti dell'ente collettivo giacché — oltre a doversi differenziare fra illecito dell'ente e reato commesso dalla persona fisica — non sarebbe «individuabile un danno derivante dall'illecito amministrativo, diverso da quello prodotto dal reato» (Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 2011, n. 2251, in Cass. Pen., 2011, 2539. Nel medesimo senso si è espressa Cass. pen., sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 3786. C. cost., 18 luglio 2014, n. 218, in Dir. Proc. Pen., 2014, 11, 68. Si veda il commento di Sala, Ancora in tema di azione civile nel processo penale de societate: la Corte costituzionale ammette la citazione dell'ente come responsabile civile, in dirittopenalecontemporaneo.it). A fronte di questo quadro consolidato, tuttavia in tempi recenti si registra una nuova, difforme, presa di posizione della giurisprudenza di merito, che dà spazio all'esercizio dell'azione civile nel processo verso gli enti, come sostenuto da Corte di assise di Taranto, 4 ottobre 2017 (a commento si veda Riccardi, “Sussulti” giurisprudenziali in tema di costituzione di parte civile nel processo de societate: il caso Ilva riscopre un leitmotive del processo 231, in Giurisprudenza Penale, 4/2017, 23 maggio 2019; Marino, La costituzione di parte civile nei confronti dell'ente-imputato. A proposito del diritto vivente stabilmente instabile, in Discrimen, 1/2021, 233), Tribunale di Trani, ord. 7 maggio 2019, Pres. Pavese, n. 689/2019 e Tribunale di Lecce, II sezione, del 29 gennaio 2021 (su cui Russo, Ancora sulla vexata quaestio della costituzione della parte civile nel procedimento a carico dell'ente ai sensi del d.lgs. 231/2001: un nuovo assenso della giurisprudenza di merito, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2/2021, 263).

Per una ricostruzione della tematica in dottrina, Ranaldi, Parte civile e processo de societate: profili di un'esclusione ragionevole, in Arch. Pen. Web, 2013, 12; Bassi-D'Arcangelo, Il sistema della responsabilità da reato dell'ente. Disciplina e prassi applicative, Milano, 2020, 562; Santoriello, Responsabilità da reato degli enti: problemi e prassi, Milano 2023, 337.

Quanto al tema della responsabilità degli enti in ragione di condotte non riferibili a soggetti apicali o dipendenti della società ma in relazione a comportamenti criminali assunti da "persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo” dell'ente, secondo quanto prevede l'art. 5, lett. a), ultima parte, del d.lgs. n. 231/2001, sul tema si era già pronunciata in altra occasione la Cassazione (Cass. pen., sez. V, 19 novembre 2019, n. 2714), in cui legge che «la ricostruzione del profilo di amministratore di fatto deve essere effettuata sulla scorta delle concrete attività dispiegate in riferimento alla società oggetto di analisi, riconducibili, secondo validate massime di esperienza, ad indici sintomatici quali la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l'intervento nella declinazione delle strategie di impresa e nelle fasi nevralgiche dell'ente economico».

Anche la dottrina sostiene che la ricostruzione del significato e dell'ambito di applicazione del citato art. 5, lett. a), ultima parte vada operata alla luce di quanto dispone l'art. 2639 c.c. (Santoriello, La responsabilità amministrativa delle società per gli illeciti commessi nel loro interesse da parte dei cd. gestori di fatto, in Riv. Resp. Amm. Enti, 1/2007, 119; Parrotta – Urbinati, Reato dell'amministratore di fatto e la relativa responsabilità dell'ente e dell'organismo di vigilanza, ivi, 2/2017, 283; Muscatiello, La struttura assente. la responsabilità della persona giuridica fra amministratore di fatto e associazione per delinquere, ivi 4/2020, 299).

In proposito, si ricorda che secondo la giurisprudenza perché possa parlarsi di amministratore di fatto non è sufficiente che il singolo episodicamente si intrometta nella gestione dell'azienda per il compimento di singole attività, ma occorre un esercizio continuativo e significativo dei relativi poteri secondo quanto indica l'art. 2639 c.c. (Cass. pen., sez. V, 17 aprile 2023, n. 16269), anche se non è necessario che il singolo eserciti tutti i poteri dell'organo di gestione, essendo sufficiente l'esercizio di una apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale (Cass. pen., sez. V, 23 giugno 2021, n. 24575); ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori e clienti ovvero in qualsiasi settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare (Cass. pen., sez. V, 9 giugno 2023, n. 25030).

Si discute se la prova della qualifica di amministratore possa ricavarsi dal conferimento di una procura generale ad negotia (in questo senso, Cass. pen., sez. V, 7 luglio 2017, n. 33256. Contra, Cass. pen., sez. V, 5 gennaio 2017, n. 547).

Si ricorda che l'accertamento degli elementi sintomatici di tale gestione o cogestione societaria costituisce oggetto di apprezzamento di fatto che è insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione congrua e logica (Cass. pen., sez. V, 23 giugno 2021, n. 24575).

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato giudicato fondato con riferimento ad entrambi i profili.

Quanto all'esercizio dell'azione civile nei confronti della società, viene ribadito che nel processo instaurato per l'accertamento della responsabilità da reato dell'ente non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che l'istituto non è previsto dal d.lgs. n. 231/2001 che in ogni sua parte non fa mai riferimento alla parte civile o alla persona offesa e ciò che induce a ritenere che non si sia trattato di una lacuna normativa, quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica.

Inoltre, la sentenza in esame sottolinea che, sul piano sistematico, l'illecito amministrativo ascrivibile all'ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende, sicché deve escludersi che possa farsi un'applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al "reato" in senso tecnico (Cass. pen., sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 2251).

Anche la seconda censura è stata ritenuta fondata, evidenziando come nelle decisioni di merito la responsabilità della società ricorrente è correlata a condotte poste in essere dagli imputati prima che entrassero a far parte della compagine sociale. Questa circostanza non necessariamente comportava l'assoluzione dell'ente alla luce di quanto prevede l'art. 5, lett. a), ultima parte, d.lgs. n. 231/2001, che riconosce rilevanza anche ai comportamenti di "persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo” dell'ente e non solo alle condotte tenute da singoli incardinati nella struttura o dipendenti della società.

Tuttavia, evidenzia la decisione in commento, che, laddove il reato presupposto non sia stato commesso da soggetti apicali o dipendenti dell'impresa, occorre procedere ad un compiuto accertamento circa gli effettivi rapporti fra la società ed i singoli qualificati come soggetti che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo, accertamento che nel caso di specie, secondo la Cassazione, è mancato.

Dopo questa osservazione, la Cassazione, nella parte più interessante della vicenda, indica quali valutazioni occorre operare per poter asserire che un soggetto è, con una società, in quei rapporti indicati dall'art. 5 citato, tale da potere coinvolgere, in caso di assunzione di comportamenti criminosi, anche la persona giuridica, dovendosi individuare i presupposti in presenza dei quali specie un controllo di fatto possa ritenersi esercitato.

Secondo i giudici di legittimità, occorre all'uopo fare riferimento alla previsione, sostanzialmente analoga, presente nell'art. 2639 c.c. ed agli indici presuntivi ivi enucleati ai fini della perimetrazione della categoria dell'amministratore di fatto. In proposito, la pronuncia in esame differenzia l'ipotesi in cui si sia in presenza di un amministratore di fatto dal caso in cui possa parlarsi di controllo di fatto.

Con riferimento alla prima circostanza, ai fini dell'attribuzione della qualifica di amministratore di fatto, può essere valorizzato l'esercizio, in modo continuativo e significativo, e non meramente episodico od occasionale, di tutti i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione o anche soltanto di alcuni di essi (Cass. pen., sez. II, 24 maggio 2022, n. 36556; Cass. pen., sez. V, 20 giugno 2013, n. 35346).

Più complessa è l'individuazione delle situazioni nelle quali si può affermare che un soggetto il quale pure non riveste una carica formale nell'ente societario eserciti sullo stesso un controllo in via di fatto.

Secondo una prima interpretazione, di tenore restrittivo, il controllo cui fa riferimento l'art. 5, comma 1, lett. a), ultimo periodo, d.lgs. n. 231/2001, non potrebbe essere quello del collegio sindacale, dovendo invece lo stesso essere inteso esclusivamente come dominio sulla società secondo il paradigma dell'art. 2359 c.c. Nell'indicata prospettiva, poiché deve trattarsi di un controllo esercitato "di fatto" a venire in rilievo sarebbero i reati commessi da soggetti che non abbiano la maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria della società ma che possano, nondimeno, esercitarvi un'influenza dominante anche in virtù di rapporti contrattuali: chiaro il riferimento – stante anche la connessione richiesta dalla norma tra controllo e gestione – alla figura del c.d. "socio tiranno" il quale non solo condiziona in modo decisivo la volontà assembleare, ma gestisce anche di fatto in prima persona la società medesima. Di qui si assume, in sostanza, che il riferimento letterale, contenuto nell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001, ai soggetti che esercitano di fatto "la gestione e il controllo" degli enti, deve essere interpretato come riferito non alla funzione di vigilanza ma ad un ruolo di governo e di "penetrante dominio" sulla società.

Questa impostazione interpretativa non è però accolta nella pronuncia in epigrafe, nella quale si afferma che non vi sono ragioni per riferire il termine controllo di cui al citato art. 5 solo ed esclusivamente alla nozione di controllo della società delineata dall'art. 2359 c.c. e non ricomprendere anche un'attività di "controllo" e di vigilanza o, comunque, di verifica ed incidenza nella realtà economico patrimoniale della società, sovrapponibile a quella dei sindaci o degli altri soggetti formalmente deputati a tali attività. Quest'ultima interpretazione, infatti, sarebbe preferibile perché è maggiormente fedele alla formulazione letterale dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001, nonché coerente con le finalità sottese all'introduzione nel nostro ordinamento della responsabilità amministrativa delle società per i reati commessi nell'interesse e a vantaggio di esse, garantendo in maniera più compiuta il raggiungimento dell'obiettivo di sanzionare l'attività sempre più insidiosa anche dal punto di vista criminale posta in essere dalla società mediante soggetti che a vario titolo operano per raggiungere le finalità, talora illecite, che essa si propone.

Inoltre, viene sottolineato come il legislatore richieda, rispetto alla connessione tra gestione e controllo, evidenziata dall'utilizzo della congiunzione "e" presente nel citato art. 5, che almeno una di queste funzioni (e dunque non necessariamente entrambe) sia esercitata in via di mero fatto da parte del soggetto che ha commesso il reato all'interno della compagine sociale. Ne deriverebbe, dunque, che ad esempio la società può essere chiamata a rispondere - ove, beninteso, il reato sia stato commesso nel suo interesse o vantaggio - anche per i reati commessi dai componenti formali del collegio sindacale i quali in concreto svolgano, come attestato dalla ricorrenza degli indici disvelatori della qualifica ex art. 2639 c.c., anche il ruolo di amministratori di fatto dell'ente.

Al termine della decisione, la Cassazione poi precisa che, a fronte della commissione di reati nell'interesse o a vantaggio dell'ente da parte di soggetti che nei termini sinora delineati rivestano all'interno di esso in via di fatto ruoli di gestione e controllo, non può operare, per elidere la responsabilità dell'ente medesimo, la previsione dettata dall'art. 6 d.lgs. n. 231/2001, poiché, se la società è gestita e controllata in modo occulto, ciò significa che la stessa non si è dotata, se non sul piano meramente formale, di assetti organizzativi per la prevenzione dei reati, che dunque non possono considerarsi adeguati, anche ove gli stessi siano conformi ai codici di comportamento approvati dal Ministero della giustizia ex art. 6, comma 3, d.lgs. n. 231/2001.

Osservazioni

La decisione in commento è decisamente ricca di suggestioni, che sollecitano riflessioni di significativo interesse.

In primo luogo, va sottolineata la riaffermazione del principio secondo cui non può esercitarsi l'azione civile nel processo de societate, non tanto in ragione del contenuto di tale conclusione – posto che, come detto, già in due precedenti occasioni, la Cassazione si era pronunciata in maniera analoga -, quanto considerando il fatto che questa presa di posizione della Corte di cassazione sembra ormai sbarrare definitivamente le porte alla giurisprudenza di merito che invece, come si è visto, in più occasioni ha ammesso la costituzione di parte civile nei confronti delle società.

Decisamente più interessante, tuttavia, è la parte della decisione dedicata alla rilevanza, ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, di soggetti che, pur privi di qualsiasi rapporto formale con l'impresa e pur non rivestendo alcun ruolo all'interno della stessa, esercitano di fatto un potere di gestione e controllo sulla medesima. Le riflessioni che la sentenza conduce su tale argomento possono raccogliersi intorno a due poli,

Un primo aspetto su cui soffermarsi attiene alla rilevanza che assume (prima ancora che la circostanza che il delitto sia stato commesso da un “gestore di fatto” dell'ente) la presenza nella persona giuridica fra qualifica formale ed effettivo esercizio dei poteri di amministrazione e controllo. Raccogliendo il suggerimento di parte della dottrina (Bassi-D'Arcangelo, Il sistema della responsabilità da reato dell'ente, cit., 332), la Cassazione legge in termini assolutamente critici la presenza, nel board dirigenziale dell'azienda, di forme occulte di gestione o controllo, ritenendo che tali profili di opacità in ordine alla riconducibilità delle scelte dirigenziali siano indice di un'inadeguatezza della governance dell'impresa, tali da rendere di per sé inadeguato il modello organizzativo.

Trattasi di conclusione su cui concordiamo pienamente: contrariamente a quanto da altri sostenuto (Centonze – Manacorda, Introduzione. Il «circolo virtuoso» della regolazione e l'evoluzione del d.lgs. n. 231/2001, in Id. (a cura di), Verso una riforma della responsabilità da reato degli enti. Dato empirico e dimensione applicativa, Bologna 2023, 12, secondo cui in caso di delitti commessi nell'interesse della società dall'amministratore di fatto della stessa non sarebbe possibile formulare un giudizio di inadeguatezza del modello organizzativo, posto che le procedure e le misure precauzionali presenti all'interno dello stesso non potrebbe vincolare i comportamenti e le scelte di soggetti non legati all'impresa da vincoli giuridici), riteniamo che la scelta del vertice aziendale di procedere ad una dissociazione fra titolarità formale delle cariche apicali ed effettivo esercizio dei poteri connessi alle stesse rappresenta non solo un fatto di disorganizzazione e confusione decisionale – già di per se censurabili ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 -, ma soprattutto è un'opzione diretta a camuffare le effettive dinamiche aziendali ed ad impedire l'identificazione degli effettivi responsabili degli illeciti. Un tale opzione è, da un lato, decisamente distonica rispetto agli obiettivi che il legislatore ha inteso perseguire con l'emanazione del d.lgs. n. 231/2001 e dall'altro indifferente rispetto all'applicazione delle prescrizioni e sanzioni ivi presenti, come dimostrato dalla previsione di cui alla lett. a) dell'art. 8 d.lgs. n. 231/2001 che riconosce la responsabilità dell'ente anche nel caso in cui il responsabile del delitto presupposto non è stato identificato: come detto in dottrina, la ratio di tale previsione si coglie laddove si comprenda come il legislatore ha inteso «riferire alla colpevolezza di organizzazione il ruolo fondativo dell'illecito, a discapito del fatto-reato di connessione, [per cui] si rinuncia a richiedere che quest'ultimo debba essere munito di tutti i suoi elementi costitutivi, essendo condizione necessaria e sufficiente, per la responsabilità della societas, che quest'ultima abbia agevolato, per carenze organizzative, la commissione del fatto (almeno tipico e/o antigiuridico), anche quando l'autore risulta sconosciuto» (Piergallini, Premialità e non punibilità nel sistema della responsabilità degli enti, in Dir. pen. e proc., 2019, 287. Nello stesso senso Mongillo, La responsabilità penale fra individuo ed ente collettivo, Torino, 2018, 310).

Meno rilevante, invece, ci pare l'altra riflessione condotta sul punto dalla Cassazione laddove afferma che la società può essere chiamata a rispondere anche per i reati commessi dai componenti formali del collegio sindacale i quali in concreto svolgano, come attestato dalla ricorrenza degli indici disvelatori della qualifica ex art. 2639 c.c., anche il ruolo di amministratori di fatto dell'ente. Da un lato, questa affermazione ribadisce l'ovvio; se decisivo per riconoscere la responsabilità dell'ente è che il delitto presupposto sia stato commesso da un amministratore di fatto della stessa, non vi è nessuna ragione per negare validità a tale conclusione nel caso in cui la gestione effettiva dall'azienda sia in capo ad un soggetto che, contestualmente e sempre all'interno della medesima persona giuridica, svolgo anche il ruolo di componente del collegio sindacale, posto che nulla esclude che il medesimo soggetto possa rivestire entrambe le qualifiche (una effettiva e l'altra formale), dall'altro, se la decisione intende affermare che la responsabilità della società può essere affermata anche in relazione ad illeciti commessi dai componenti dell'organo di controllo, si tratta di affermazione non corretta – salva l'ipotesi in cui il delitto sia stato commesso dai sindaci in concorso con gli amministratori della società – posto che i componenti del collegio sindacale non rientrano in nessuna delle categorie richiamate dalle lett. a) e b) dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001.

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