Nessun obbligo di esperire la mediazione nel caso di proposizione di domande riconvenzionali
27 Febbraio 2024
Massima La condizione di procedibilità prevista dall'art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l'intero corso del processo e laddove possibile. Il caso Proposta azione di risoluzione del contratto di locazione per avveramento della condizione risolutiva prevista nel contratto medesimo, con ordine di rilascio e fissazione di termine minimo per l'esecuzione, il resistente, nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda principale, proponeva in via riconvenzionale azione di condanna del locatore alla restituzione del deposito cauzionale. Il tribunale adito, rilevato che, a differenza dell'attore, il resistente non aveva esperito il tentativo di mediazione (obbligatorio, trattandosi di materia locatizia), sollevava la questione pregiudiziale relativa alla necessità anche in capo a quest'ultimo dell'obbligo di introduzione della procedura di mediazione-conciliazione e, ricorrendone i presupposti, disponeva il rinvio pregiudiziale alla Corte Suprema ex art. 363-bis c.p.c. La questione Viene così sottoposta alle Sezioni Unite la seguente questione: premesso che le materie tipizzate di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 impongono il tentativo obbligatorio di mediazione quando si esercita l'azione, vi è da chiedersi se analogo onere sussista in capo al convenuto che intenda proporre nel processo domanda riconvenzionale. Le soluzioni giuridiche Le Sezioni Unite della Cassazione escludono che il tentativo obbligatorio di conciliazione sia condizione di procedibilità della proposizione della domanda riconvenzionale sulla base di una serie di argomenti. In primo luogo, osservano le Sezioni unite che, come affermato anche dal Giudice delle leggi (Corte cost. 20 gennaio 2022, n. 10 e 18 aprile 2019, n. 97), il decreto n. 28/2010 prevede all'art. 5 una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, specificamente «con finalità deflattiva». Più precisamente, la mediazione, avendo il fine di conciliare le liti, mira ad evitare che l'attore debba attendere i tempi dell'ordinaria giustizia civile; deve pertanto escludersi che la domanda riconvenzionale possa ritenersi sottoposta al previo esperimento del tentativo di mediazione obbligatoria, giacché essa è stata esperita senza esito positivo con riguardo alla domanda principale. A ben vedere, infatti, la mediazione obbligatoria «si collega non alla domanda sic et simpliciter, ma al processo, che ormai è pendente, onde, essendo la causa insorta, la funzione dell'istituto viene meno, non avendo avuto l'effetto di prevenzione per la instaurazione del processo». Secondariamente, se la precipua finalità della mediazione obbligatoria è quella di evitare «il proliferare di cause iscritte innanzi all'organo giudiziario», allora deve escludersi l'imposizione di un successivo tentativo di mediazione per ogni domanda proposta all'interno del processo, in quanto quest'ultimo, oltre a non essere in grado di evitare la pendenza del processo, determina nel contempo il differimento della trattazione per altri tre mesi (o più) in aperto contrasto con le finalità deflattive volute dalla legge. Quanto appena osservato con riguardo alla riconvenzionale collegata all'oggetto o alla causa petendi della domanda principale vale a fortiori anche per la c.d. riconvenzionale “eccentrica”, cioè quella priva di alcun collegamento con la domanda dell'attore. In tale ultimo caso, a escludere la condizione di procedibilità, oltre a quanto già osservato, concorrono il principio della certezza del diritto, che si oppone alla causazione di ulteriore contenzioso sul punto, e quello della ragionevole durata del processo. Ripudiando i precedenti giurisprudenziali che, sebbene allo scopo di tutelare i diritti delle parti di volta in volta coinvolti, hanno operato specifici distinguo, in quanto forieri di un pregiudizio per la certezza del diritto, la decisione che qui si commenta osserva come il d.lgs. n. 28/2010 abbia espressamente manifestato un'aperta diffidenza avverso il c.d. “eccesso di mediazione”: ciò si evince dall'art. 3 del d.lgs. cit. che esclude l'ipotesi del concorso della mediazione con altre e diverse procedure di conciliazione, dall'art. 5, comma 2, secondo periodo, del decreto che contiene il rilievo del mancato esperimento del tentativo di mediazione entro un limite processuale assai ristretto rappresentato dalla prima udienza, nonché dall'art. 6 dello stesso decreto che fissa in un periodo circoscritto la durata massima del procedimento di mediazione, altresì preoccupandosi di affermare che tale periodo non si computa ai fini del computo del termine ragionevole di cui all'art. 6 Cedu (art. 7 d.lgs. cit.). Insomma, come anche più volte affermato dalla giurisprudenza costituzionale e comunitaria, «la mediazione obbligatoria svolge un ruolo proficuo, solo se non si presti ad eccessi o abusi. La mediazione, più che accertamento di diritti, è “contemperamento di interessi”, con semplicità di forme e rapidità di trattazione, anche senza verifiche fattuali: è una sorta di “esperimento” finalizzato ad un accordo negoziale, che va certamente tentato, nella prospettiva assunta dal legislatore, ma prima di intraprendere la causa in funzione di scongiurare la originaria iscrizione a ruolo, e che non avrebbe senso diluire e prolungare oltre misura» (così la decisione in commento al § 3.3.2.3). Al contrario, ammettere l'esperimento di tante successive mediazioni quante sono le domande che potrebbero essere proposte nel corso del processo condurrebbe ad una «poco efficiente gestione separata dei conflitti», con una trattazione «disordinata e disarticolata» del processo, in aperto contrasto con l'esigenza deflattiva che il legislatore ha inteso perseguire con l'introduzione della mediazione obbligatoria nel nostro ordinamento. Ciò posto, resta fermo che da un lato spetta al giudice, laddove lo ritenga possibile tentare la conciliazione al fine di «risparmiare risorse giurisdizionali e non emettere la sentenza» e che dall'altro è compito del mediatore «esortare le parti a mettere ogni profilo “sul tappeto”, ivi comprese altre richieste del convenuto», essendo non solo possibile, ma anche auspicabile che vengano trattati contestualmente le posizioni e gli interessi di cui le varie parti del conflitto sono portatrici. Osservazioni La decisione in commento, che si contraddistingue per chiarezza, coerenza ed efficacia, mette finalmente un punto su una questione che ha agitato la giurisprudenza di merito dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 28/2010. Un primo orientamento (Trib. Palermo, sez. Bagheria, 11 luglio 2011; Trib. Palermo, 6 maggio 2017; Trib. Alessandria, 22 agosto 2022, n. 769; Trib. Roma, 13 ottobre 2022, n. 14986) escludeva che il giudice dovesse imporre al convenuto l'esperimento del tentativo di mediazione osservando che l'esperimento di un tentativo di conciliazione stragiudiziale non avrebbe potuto determinare l'improcedibilità dell'intero giudizio, ma solo della domanda riconvenzionale, senza comportare la produzione dell'effetto deflattivo auspicato dal legislatore; al contrario, l'imposizione dello svolgimento della mediazione avrebbe allungato i tempi di definizione del giudizio (in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo consacrato dall'art. 111 Cost.). Si osservava inoltre che: 1)- le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all'esercizio del diritto di agire in giudizio (art. 24 Cost.), non possono essere interpretate in senso estensivo e che, anzi, l'interpretazione restrittiva era da ritenersi conforme alla direttiva 2008/52/CEE; 2)- il tentativo di mediazione non avrebbe mai modo di essere esperito in via preventiva; 3)- occorre evitare che la parte convenuta formuli domande riconvenzionali a scopo dilatorio. Per l'opposto indirizzo che assoggettava alla condizione di procedibilità la domanda riconvenzionale (Trib. Como, sez. Cantù, 2 novembre 2012; Trib. Monza, 23 febbraio 2015; Trib. Verona, 12 maggio 2016; Trib. Brindisi, 21 gennaio 2021; App. Palermo 14 luglio 2023, n. 1334), invece, la soluzione positiva andava patrocinata per una serie di ragioni: in primo luogo, nella materia agraria si è da sempre affermata l'estensione della condizione di procedibilità alla domanda riconvenzionale del convenuto, per cui non vi era motivo di non estendere tale conclusione anche al procedimento di mediazione-conciliazione; in secondo luogo, diversamente opinando, sarebbe stata vulnerata la ratio sottesa alla mediazione c.d. obbligatoria, in quanto il convenuto non mirerebbe a conciliare, ma a tacere "per poi aggredire meglio e di più", confliggendo tale comportamento anche con il principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.; peraltro, in tal modo sarebbe stato violato l'art. 3 Cost. trattando le parti processuali in modo diverso, costringendo l'attore a tentare previamente la mediazione, a differenza del convenuto, libero poi in sede processuale di proporre la domanda riconvenzionale. Infine, si osservava che la riconvenzionale è azione a tutti gli effetti, perché permette al convenuto di passare al contrattacco, così rendendo applicabile l'art. 5 del d.lgs. n. 28/2010. A prescindere dai numerosi argomenti portati avanti dall'una e dall'altra tesi, mi sembra che l'interpretazione restrittiva sia quella indubbiamente da preferire per la fondamentale ragione che il continuo esperimento del procedimento di mediazione determinerebbe un inevitabile allungamento dei tempi processuali favorendo la parte meno interessata ad una rapida definizione del processo e danneggiando l'attore che ha richiesto la tutela. Condivisibile è poi la scelta di non effettuare un distinguo a seconda del tipo di collegamento esistente tra la domanda riconvenzionale e quella proposta in via principale, in quanto ammettere la necessità dell'esperimento del filtro soltanto a fronte di domande che non presentino una connessione forte con quella principale o che comunque non siano legate da un nesso di pregiudizialità-dipendenza impone al giudice l'ulteriore compito di effettuare tali distinzioni all'interno del processo, in tal modo introducendo ulteriori questioni procedimentali capaci solo di rallentare lo svolgimento dello stesso impedendo che il giudicante possa concentrarsi sulla domanda di tutela fatta valere dalle parti. Infine, premesso che nessuna questione è destinata a porsi nel caso di intervento adesivo dipendente o semplice di cui all'art.105, comma 2, c.p.c. (giacché il terzo in questa ipotesi non propone alcuna domanda ma si limita a sostenere la posizione di una delle parti), l'interpretazione restrittiva è da preferirsi anche in relazione alle domande proposte da o nei confronti dei terzi per le già menzionate ragioni di economia processuale e di certezza del diritto evidenziate supra. Riferimenti Borselli, Il problema della mediazione obbligatoria sulla controversia oggetto di domanda riconvenzionale: la parola alle sezioni unite, in www.judicium.it; Cuomo Ulloa, La mediazione nel processo civile riformato, Bologna 2011, 121 ss. Dalfino, Mediazione civile e commerciale, in Commentario del codice di procedura civile fondato da S. Chiarloni, Bologna 2022, 315 ss. Della Pietra, Domande in corso di causa e tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale, in Dir. e giur., 2003, 410 ss.; Tiscini, Le domande in corso di causa nelle controversie di lavoro alla prova del tentativo obbligatorio di conciliazione, in Giust. civ., 2000, I, 910 ss. |