Licenziamento nullo e Jobs Act: incostituzionale la previsione del termine “espressamente”

28 Febbraio 2024

La Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per eccesso di delega, l'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alla parola «espressamente») in tal modo eliminando la differenziazione, operata dal legislatore delegato, tra licenziamenti la cui nullità è “testuale” (ossia esplicitamente prevista dalla legge) da quelli in cui è meramente “virtuale”, con conseguente operatività, in ogni caso, della tutela reintegratoria c.d. “piena”.

Massima

È costituzionalmente illegittimo, per eccesso di delega, l'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alla parola «espressamente».

Il caso

La tutela applicabile nell'ipotesi di nullità del licenziamento non prevista espressamente dalla legge

Un dipendente autoferrotranviario agisce in giudizio per l'ottenimento della declaratoria di invalidità del provvedimento di destituzione emesso dal datore di lavoro, cui tale facoltà non spettava in conseguenza dell'obbligatoria devoluzione del potere sanzionatorio, a seguito di apposita richiesta del lavoratore, in capo al Consiglio di disciplina (ai sensi della normativa speciale per gli autoferrotranvieri di cui agli artt. 53 e 54 del R.d. n. 148/1931).

La sentenza di rigetto del Tribunale viene parzialmente riformata dal giudice del gravame, che, ritenuto nullo il licenziamento e dichiarato estinto il rapporto di lavoro, applica la tutela indennitaria, escludendo l'operatività di quella reintegratoria, in quanto prevista dal citato art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 (applicabile alla fattispecie, rientrando il lavoratore nella categoria dei “nuovi assunti”), solo nell'ipotesi - non ricorrente nella fattispecie - di “nullità espressamente prevista dalla legge”.

La S.C. (cfr. Cass. 7 aprile 2023, n. 9530, sul cui commento sia consentito il rinvio a L. Di Paola, Licenziamenti nulli e tutela reintegratoria: la Cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del Jobs Act (d.lgs. n. 23/2015), in IUS Lavoro/ilGiuslavorista (ius.giuffre.it) del 12 aprile 2023), investita del giudizio, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 - nella parte in cui prevede la delimitazione della tutela reintegratoria ai casi di nullità del licenziamento «espressamente previsti della legge» -, in riferimento all'art. 76 Cost. e ad altri eventuali parametri derivati, per contrasto con la norma della legge-delega (art. 1, comma 7, lett. c), della l. n. 183/2014), che dispone che il legislatore delegato preveda, per le nuove assunzioni, la limitazione del «diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato».

Il Giudice delle leggi, condividendo il dubbio di legittimità costituzionale espresso dalla S.C., dichiara la illegittimità costituzionale della disposizione denunziata, con riferimento alla parola «espressamente».

La questione

La legittimità costituzionale, o meno, dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015

Nel caso in esame, si trattava di stabilire se il già più volte richiamato art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 - il quale prevedeva, tra l'altro, che “Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto” - fosse rispettoso, o meno, della delega conferita dal legislatore (e concernente, per quanto qui interessa, la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio (…), limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori”) ai sensi dell'art. 1, comma 7, lett. c), della l. n. 183/2014.

Le soluzioni giuridiche

Le opzioni interpretative in materia di tutela avverso il licenziamento nullo e la scelta compiuta dalla Corte costituzionale

Come è noto, all'indomani dell'entrata in vigore della disposizione denunziata si erano formati, con riguardo al peso da attribuire al termine “espressamente”, tre orientamenti di fondo.

Secondo il primo, al termine in questione non poteva essere riconosciuta alcuna valenza effettivamente prescrittiva, poiché il sistema, nel suo complesso, esclude che le nullitàtestuali” possano essere caratterizzate da un indice di maggiore gravità rispetto a quelle “virtuali”; sicché sarebbe stata sufficiente una mera operazione interpretativa di taglio sistematico e funzionale per sterilizzare la portataspecializzante” dell'avverbio.

Per un altro orientamento, contrapposto, il termine andava invece preso alla lettera e valutato nella sua portata normativa, con la conseguenza che la tutela reintegratoria avrebbe potuto interessare solo il licenziamento affetto da nullità “testuale”, mentre quello viziato da nullità “virtuale” sarebbe stato sanzionato, a seconda dei punti di vista, con la tutela prevista per la nullità di diritto comune (imperniata sul ripristino del rapporto e sul riconoscimento di posta risarcitoria dalla data della “mora accipiendi”) oppure con quella indennitaria.

Un ulteriore orientamento optava, invece, per la illegittimità costituzionale della disposizione, o per eccesso di delega, o per irragionevolezza intrinseca ove si fosse prescelta, nel caso, la strada della tutela indennitaria, non potendo un vizio meno grave, quale quello dell'ingiustificatezza qualificata di cui all'art. 3, comma 2, del citato d.lgs., in materia di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, essere sanzionato più efficacemente di quello, invece più incisivo, rappresentato dalla nullità.

Il Giudice delle leggi, respinto il primo orientamento - sul rilievo che “una diversa lettura della norma in senso inclusivo di tutte le nullità previste dalla legge, pur sostenuta da una parte della dottrina, renderebbe inutiliter datum l'avverbio «espressamente»; si tratterebbe di un'inammissibile interpretatio abrogans” -, ha accolto quello, prospettato dal giudice rimettente, fondato sull'eccesso di delega, rilevando che nella «lettera» del criterio direttivo “manchi del tutto la distinzione tra nullità «espressamente» previste e nullità conseguenti sì alla violazione di norme imperative, ma senza l'espressa loro previsione come conseguenza di tale violazione.

Il prescritto mantenimento del diritto alla reintegrazione è contemplato per i «licenziamenti nulli» tout court, laddove una eventuale distinzione, inedita (…) rispetto alla disciplina previgente dei licenziamenti individuali, avrebbe richiesto una previsione (questa sì) espressa. In secondo luogo, il senso letterale dell'espressione contenuta nell'art. 1, comma 7, della legge n. 183/2014 risulta ancora più univoco se posto in correlazione con la successiva limitazione a «specifiche fattispecie» riferita esclusivamente al «licenziamento disciplinare ingiustificato»; quindi il criterio direttivo ha previsto sì una distinzione, ma solo per il licenziamento disciplinare (per giustificato motivo soggettivo). Se il legislatore delegante avesse voluto una qualche distinzione anche tra le nullità l'avrebbe parimenti prevista, come per il licenziamento disciplinare. La distinzione tra nullità espresse e nullità che tali non sono, non è, dunque, riconducibile al criterio di delega nella sua “portata testuale”.

La Corte, ad ulteriore supporto, muove anche dall'interpretazione sistematica, evidenziando che “il legislatore delegato, con la limitazione dell'ambito applicativo dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 ai licenziamenti per i quali la nullità è espressamente prevista, ha dettato una disciplina la cui incompletezza conferma la sua incoerenza rispetto al disegno del legislatore delegante. Sono rimasti privi di regime sanzionatorio le fattispecie di licenziamenti nulli privi della espressa (e testuale) previsione della nullità, i quali per un verso, non avendo natura «economica», non possono rientrare tra quelli per i quali la reintegra può essere esclusa, ma, per altro verso, in ragione della disposizione censurata, non appartengono a quelli per i quali questa tutela va mantenuta, senza che ad essi possa alternativamente applicarsi la tutela indennitaria, di cui al successivo art. 3, che riguarda le diverse fattispecie dei licenziamenti privi di giustificato motivo, soggettivo e oggettivo, o dell'art. 4, che opera in relazione ai soli vizi formali e procedurali riconducibili al requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma secondo, della legge n. 604 del 1966 o alla procedura di cui all'art. 7 statuto lavoratori”.

In buona sostanza, secondo la Corte, “l'eccesso di delega per violazione del sopra richiamato criterio direttivo trova riscontro sia nell'univoca «lettera» di quest'ultimo, che ammette distinzioni per i licenziamenti disciplinari, ma non anche per quelli nulli, sia nell'interpretazione sistematica per la contraddittorietà di una distinzione che non si accompagni, diversamente che per i licenziamenti disciplinari, alla previsione del tipo di tutela applicabile alla fattispecie esclusa dal regime della reintegrazione”.

Osservazioni

Ai fini della individuazione del licenziamento affetto da nullità è necessario che la disposizione imperativa rechi un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti

La pronunzia in commento è certamente da condividere, poiché il vizio di eccesso di delega è, nel caso in esame, incontestabile, sicché non residuano margini di opinabilità circa la soluzione (unicamente auspicata dal giudice “a quo”) prescelta, la più agevolmente percorribile, del resto, rispetto alle altre sopra illustrate.

Qualche lieve dubbio potrebbe sorgere sulla linearità delle argomentazioniulteriori” a supporto, incentrate sulla interpretazione sistematica, in ragione della (sopra indicata) ravvisata “contraddittorietà”, evincibile, secondo la Corte, dalla mancata previsione, ad opera del legislatore delegato, dell'effetto sanzionatorio discendente dalla nullità virtuale, non ricavabile né dal sistema speciale del diritto del lavoro, né da quello generale (cfr., sul punto, il passaggio della motivazione nella quale è affermato che il nuovo assetto disegnato per i c.d. nuovi assunti “risulta adeguato rispetto all'obiettivo del legislatore, nell'ottica di ricomprendere nella nuova disciplina tutta la possibile casistica di licenziamenti illegittimi, con una netta demarcazione tra le ipotesi di nullità, sempre meritevoli della più grave sanzione in forma specifica, e quelle di illegittimità sanzionate in termini esclusivamente monetari”).

Infatti, ove anche il legislatore delegato avesse espressamente previsto una sanzione apposita, per le nullità virtuali, diversa dalla reintegra, la prospettiva non sarebbe mutata, rimanendo fermo l'insanabile vizio di eccesso di delega, attinente alla operata distinzione tra nullità testuali e virtuali, comportante una diversificazione sul piano delle relative conseguenze.

Neppure del tutto chiaro sembra il passo della motivazione ove è affermato che “Non è senza rilievo, infine, l'inedito ribaltamento della regola civilistica dell'art. 1418, primo comma, c.c., che prevede la nullità come sanzione della violazione di norme imperative e la esclude qualora si rinvenga una legge che disponga diversamente; qui la previsione «diversa» serve, all'opposto, a derogare alla nullità che consegue alla violazione di norme imperative”.

Infatti, la previsione censurata non sembra derogare a detta nullità in quanto vizio (che è sempre identico a sé stesso), ma postula solo una diversità di trattamento sanzionatorio tra nullità testuali e virtuali (che è certamente un inedito nel panorama normativo, essendo al vizio di nullità ordinariamente riconnesse, in ambito civilistico, sempre le stesse conseguenze, ossia la non produttività di effetti dell'atto nullo).

Vediamo, ora, le implicazioni immediate della pronunzia.

Non potendo distinguersi tra nullità testuali e virtuali, ogni ipotesi di licenziamento nullo - ivi compresi, pertanto, i casi più significativi, che la stessa Corte ha avuto cura di individuare nella sentenza, in cui manca un'espressa previsione della nullità - è sanzionata, nell'area del “Jobs Act”, con la tutela reintegratoria c.d. “piena”; ai fini della individuazione della nullità (deve ritenersi, virtuale) è però necessario che “la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti”.

La precisazione è importante, poiché sgombra il campo da equivoci che potrebbero insorgere ove l'atto espulsivo sia, ad esempio, connotato negativamente dal legislatore per le modalità di attuazione e manchi la previsione di una determinata sanzione; qui, ciò che rileva, ai fini della valutazione circa la natura imperativa della norma, è che quest'ultima ponga un divieto dell'atto in sé, a prescindere dal meccanismo procedurale posto a monte.

Dalla pronunzia dovrebbe, inoltre, uscire confermata la tesi che non vi è spazio per l'operatività, nel regime dei licenziamenti, della nullità di diritto comune - ossia degli effetti ordinari civilistici che conseguono al vizio di nullità - non ipotizzata né nell'ordinanza interlocutoria della S.C. né nel pronunciato del Giudice delle leggi.

Interessanti sono anche le implicazioni indirette che potrebbero eventualmente cogliersi in alcuni passi della sentenza.

Viene in primo luogo in rilievo l'affermazione che “il legislatore del 2012 ha ritenuto di riservare la tutela della reintegrazione ai licenziamenti la cui illegittimità è conseguenza di una violazione, in senso lato, «più grave», prevedendo per gli altri una compensazione indennitaria. Si è così introdotto un criterio di graduazione e di differenziazione che ha modificato radicalmente la logica precedente della reintegrazione quale conseguenza unica del licenziamento illegittimo nelle realtà occupazionali non piccole”.

In tal modo, sembra avallata l'idea che, nella nostra materia, la sanzione civilistica non sia tanto rapportata al danno (che, nella sua dimensione maggiormente percepibile, è per lo più sempre lo stesso, in quanto integrato dalla perdita ingiusta del posto di lavoro), quanto, piuttosto, alla illegittimità, secondo varie graduazioni, della condotta del datore, la quale - pur potendo determinare, ovviamente, riflessi negativi sulla persona del lavoratore, in termini di “gravità” dell'offesa subita (si pensi, ad esempio, al licenziamento ritorsivo o discriminatorio) -, sembra costituire, tuttavia, il punto di riferimento oggettivo di un giudizio sostanzialmente punitivo, che solo di riflesso viene a riguardare il ristoro per la parte danneggiata dall'atto illegittimo.

Inoltre, la puntualizzazione - già presente nella sentenza n. 7 /2024 - che il legislatore del “Jobs Act” ha eliminato la tutela reintegratoria nell'ipotesi di licenziamento economico, risolvendosi nella evidenziazione della sussistenza di una netta scelta di politica legislativa, sembra sciogliere preventivamente ogni ipotetico dubbio circa la coerenza di detta scelta, sul piano generale, con il sistema.

Ci si potrebbe, pertanto, legittimamente chiedere se da una tale “ribadita” puntualizzazione possano già affiorare segnali impliciti di riposte ai sospetti di illegittimità costituzionale che possano insorgere in materia, in ragione di una ipotetica disparità di trattamento sanzionatorio tra licenziamento disciplinare viziato per insussistenza del fatto e licenziamento per giustificato motivo oggettivo rivelatosi illegittimo.

Infine, la Corte, a chiusura della motivazione, ribadisce, in conformità a quanto già osservato nella sentenza n. 150/2020, che “spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell'avvicendarsi di interventi frammentari”.

Con tale monito, la Corte stessa pare farsi interprete del comune sentire di larga parte degli operatori, i quali, a seguito degli interventi riformatori, hanno patito il disagio di dover cimentarsi con una normativa non sempre di agevole lettura e generatrice, di conseguenza, di orientamenti, su molti profili, contrastanti, alcuni dei quali ancora in attesa di trovare un plausibile assestamento.

L'ulteriore auspicio è che, in una materia così delicata, l'eventuale opera di rivisitazione possa essere condotta - al di là delle scelte rimesse alla discrezionalità del legislatore nei limiti dei vincoli dettati dalla Carta costituzionale - secondo un modello improntato non solo a chiarezza e linearità di linguaggio, bensì a coerenza del contenuto prescrittivo, verosimilmente in base ad un approccio non atomistico dei singoli istituti, ma complessivo ed armonico, nonché coerente con l'impianto generale del diritto civile. 

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