Nullità del licenziamento ritorsivo del dirigente-socio: tra principi consolidati, evoluzioni sul tema e qualificazione dell’azione
01 Marzo 2024
Massima Per accogliere la domanda di accertamento della nullità di un licenziamento basato su un motivo illecito, è necessario accertare che la ritorsione del datore di lavoro sia stata l'unico motivo determinante il recesso dal rapporto di lavoro. Una volta esclusa l'effettività delle ragioni formali indicate dall'azienda a sostegno del recesso, non è necessario confrontare il motivo illecito con altre cause possibili di licenziamento. Il caso Licenziamento dei dirigenti soci di minoranza nullo perché ritorsivo e determinato da conflittualità nella gestione dell'azienda La Corte di Appello di Bologna, in accoglimento del reclamo proposto da tre dirigenti nonché soci di minoranza dell'azienda datrice di lavoro, riformava la sentenza di primo grado e dichiarava nullo il licenziamento in quanto ritorsivo e dettato da motivo illecito determinante, ordinando la reintegrazione dei dirigenti nel posto di lavoro condannando la società all'indennità risarcitoria di legge. La Corte distrettuale, per quel che rileva, considerava insussistente il motivo di licenziamento esplicitato nelle lettere di recesso datoriale osservando che la riorganizzazione aziendale ivi menzionata non si era mai tradotta in uno specifico progetto organizzativo e, valutata una molteplicità di elementi indiziari fra loro gravi, precisi e concordanti ex art. 2729 c.c, riteneva che i licenziamenti fossero stati ispirati da un unico e determinate intento ritorsivo. Particolarmente interessanti, che rendono peculiare la fattispecie, sono proprio gli elementi indiziari su cui il giudice di appello ha condotto la propria valutazione presuntiva rinvenuti, tra gli altri, nel gravissimo conflitto societario che aveva visto su posizioni contrapposte in merito ad importanti scelte gestionali, da un lato i ricorrenti in appello, soci di minoranza, e dall'altro i soci di maggioranza (tutti fratelli e nipoti), il dichiarato risentimento che i soci di maggioranza provavano per alcune problematiche delle quali attribuivano la colpa ai fratelli, soci di minoranza, la tempistica dei licenziamenti intervenuti pochi giorni dopo la nomina ad Amministratrice Unica di un soggetto esterno alla società di espressione dei soci di maggioranza (nomina contrastata dai soci di minoranza), la quale non avrebbe potuto in tempi ristretti acquisire una compiuta conoscenza della situazione societaria tale da consentirle di porre mano al progetto riorganizzativo dichiaratamente alla base dei licenziamenti, la sostanziale solidità e la assenza di specifici elementi di criticità del modello organizzativo a struttura familiare dell'impresa adottato con successo sin dalla costituzione della stessa, la coincidenza del numero di posizioni dirigenziali soppresse con quelle rivestite dai soci di minoranza, l'assenza di comparazione, come, viceversa, richiesto dal principio di correttezza e buona fede, tra le posizioni dei soci licenziati e quelli dei dirigenti di più recente nomina (figli dei soci di minoranza). L'azienda datrice di lavoro ricorre in Cassazione sollevando cinque motivi di censura con cui lamenta, violazione di legge (ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) in relazione alla riserva di opportunità imprenditoriale circa l'organizzazione aziendale ex art. 41 Cost. e circa la ritenuta tardività della produzione documentale della relazione di prima attuazione del MOG ex d.lgs. n. 231/2001 in rito Fornero; omissione nell'esame delle circostanze decisive ( ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.) relative alla progettata riorganizzazione aziendale richiamata nei motivi dei licenziamenti (e portata dalla predetta relazione) e al fatto che l'Amministratrice Unica neo nominata fosse già consulente amministrativa e contabile della società e quindi a conoscenza dell'organizzazione dell'azienda; violazione di legge (artt. 1345 e 2697 c.c. e art. 18 Stat. Lav.) laddove la Corte avrebbe disatteso il principio di interpretazione giurisprudenziale secondo cui il motivo illecito determinante il licenziamento che ne produce la nullità deve essere unico ed esclusivo e non concorrente con altre ragioni legittime sussistenti. La questione Individuazione del criterio valutativo e prioritario di accertamento, anche tramite presunzioni, nel caso di licenziamento ritorsivo alla luce degli oneri di allegazione e probatori delle parti Si tratta di capire quale sia il criterio valutativo e prioritario nel caso di licenziamento ritorsivo e dettato da motivo illecito determinante rispetto ai rispettivi oneri di allegazione e probatori delle parti e all'accertamento da parte del giudicante delle ragioni (lecite e illecite) sottostanti il licenziamento anche tramite presunzioni. La soluzione giuridica L'intento ritorsivo datoriale determinato da conflittualità nella gestione dell'azienda come efficacia determinativa esclusiva del licenziamento dei dirigenti soci di minoranza La Corte di cassazione ha respinto il ricorso dell'azienda sulla base del seguente iter logico. Per accogliere una richiesta di accertamento della nullità di un licenziamento basato su un motivo illecito, è necessario accertare che l'intenzione del datore di lavoro di prendere provvedimenti punitivi sia stata l'unico motivo determinante il recesso dal rapporto di lavoro. Non è necessario confrontare questo motivo con altre cause possibili di licenziamento, potendosi il giudice limitare a verificare l'effettività o meno delle ragioni indicate dall'azienda a sostegno del recesso. L'onere allegativo e probatorio circa tali ultime ragioni spetta al datore di lavoro, mentre la responsabilità di dimostrare l'intento ritorsivo spetta al lavoratore, ma può essere dimostrata anche mediante presunzioni. L'uso di tutti gli elementi disponibili può contribuire a stabilire, anche in via presuntiva, la presenza del motivo ritorsivo. Per quanto riguarda la valutazione del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, il giudice non può interferire nelle decisioni gestionali ed organizzative dell'impresa, che sono protette dalla libertà di iniziativa economica. Tuttavia, se il giudice trova prove concrete che le ragioni organizzative o produttive addotte dal datore di lavoro non siano veritiere o siano pretestuose, il licenziamento sarà considerato ingiustificato. Secondo la Suprema Corte la sentenza impugnata ha rispettato le predette linee guida, limitandosi a verificare la non effettività della riorganizzazione aziendale basata sui tre licenziamenti, senza entrare nella valutazione della convenienza di tale scelta. Invece, ha considerato altre informazioni relative al contesto delle vicende societarie alla base della decisione di recedere dai rapporti di lavoro come elementi indiziari che supportano l'affermazione del carattere ritorsivo dei licenziamenti. Inoltre, non ha cercato di sindacare la scelta imprenditoriale del datore di lavoro, ma ha valutato se questa scelta fosse veramente giustificata o pretestuosa. A tale ultimo riguardo, osserva la Corte, la sentenza impugnata ha escluso, sulla base di un'articolata valutazione delle emergenze in atti, l'effettività della riorganizzazione aziendale posta a base dei tre licenziamenti anche con riferimento alle vicende relative alla nomina dell'Amministratrice Unica avvenuta solo una settimana prima della comunicazione dei licenziamenti. L'attività di consulente svolta in precedenza dalla commercialista nominata Amministratrice Unica, infatti, non supporta l'idea che la stessa conoscesse così bene la società da poter rapidamente elaborare un progetto di riorganizzazione che comportasse il licenziamento di tre dirigenti. Il percorso argomentativo giuridico seguito dalla Corte è semplice e richiama principi consolidati sia in termini di onere probatorio in caso di licenziamento per motivi organizzativi ritenuti nulli per motivo illecito determinante, sia in relazione alla valutazione giudiziale presuntiva e indiziaria delle circostanze rilevanti ai fini della valutazione della ritorsività datoriale. Sotto il primo profilo, la Corte richiama il principio secondo il quale in caso di azione di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito (per intento ritorsivo datoriale) l'onere della prova della esistenza del motivo ritorsivo determinante ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all'art. 2697 c.c., non operando l'art. 5 l. n. 604/1966, che può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 20742/2018; Cass. n. 18283/2010). In particolare, il giudice di merito può valorizzare a tal fine il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo di recesso, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale, consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. n. 21715/2018; Cass. n. 3819/2020; Cass. n. 23583/2019). L'allegazione, da parte del lavoratore, dell'esistenza di un intento ritorsivo ispiratore del licenziamento non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 604/1966, l'esistenza del motivo formale del recesso; ove tale prova sia fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo e, dunque, l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso (Cass. n. 6501/2013; Cass. n. 27325/2017; Cass. n. 26035/2018). Viceversa, ove il motivo formale del recesso non sia (dimostrato come) sussistente non è necessario confrontare il motivo illecito con altre cause possibili di licenziamento. Sotto il secondo profilo, la sentenza in commento è coerente con la giurisprudenza sul tema che ritiene che l'onere probatorio del lavoratore possa essere assolto anche mediante presunzioni, con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza il motivo ritorsivo (Cass. n. 21465/2022). In questo senso, la valutazione giudiziale per presunzioni, secondo i canoni di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., spetta al giudice di merito ed è insindacabile in Cassazione (a meno che sia assolutamente illogica e contraddittoria, restando inoltre escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo - cfr. Cass. n. 22360/2023). Il giudice territoriale può quindi liberamente valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, senza che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. n. 22360/2023). Osservazioni Il licenziamento ritorsivo del dirigente-socio: la qualificazione dell'azione e le conseguenze anche in termini di oneri probatori tra motivo illecito determinante e discriminazione Se la decisione in commento non presenta particolari peculiarità rispetto all'enunciazione e rassegna dei predetti principi, singolare è la loro applicazione alla fattispecie oggetto del giudizio che verte su rapporti di lavoro con, ad un tempo, dirigenti e soci di minoranza in situazione di conflittualità societaria. La prima considerazione (scontata, ma da tenere comunque presente) è che alla tutela reale forte conseguente al licenziamento nullo per motivo illecito determinante (per ritorsione nello specifico) ha accesso anche il dirigente il cui recesso è, secondo un primo ordine di verifica, accertato come ingiustificato per insussistenza del motivo organizzativo addotto dall'azienda datrice di lavoro (il che solo darebbe però diritto unicamente all'indennità supplementare determinata dal CCNL). La decisione si caratterizza, invece, per una interpretazione estensiva della definizione tradizionale giuslavoristica di licenziamento ritorsivo che si configura quale ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (Cass. n. 14928/2015; Cass. n. 17087/2011). La Corte (così come i giudici dei gradi precedenti), infatti, ha valorizzato, ai fini della rilevanza della reazione datoriale, le circostanze indiziarie relative alle tensioni societarie e gestionali che hanno coinvolto i tre controricorrenti non nella loro qualità di lavoratori-dirigenti, ma di soci di minoranza della medesima società datrice di lavoro. In effetti, le ragioni recondite della decisione aziendale (attribuibile ai soci di maggioranza della società) di licenziare i tre dirigenti (soci di minoranza della medesima società) non attengono ai rapporti di lavoro con i tre dirigenti, né a comportamenti legittimi degli stessi quali lavoratori, ma sono integralmente riconducibili al conflitto societario e gestionale intercorso tra i soci e inerente alle scelte di conduzione dell'azienda (tra cui la nomina del nuovo amministratore unico). In definitiva, nella fattispecie, la decisione di recedere dai rapporti di lavoro inerisce alle prerogative sociali più che a diritti lavoristici. Si configura quindi una sottospecie particolare di ritorsione che, presentandosi come motivo illecito determinante tecnicamente estraneo al rapporto di lavoro, finisce forse più per configurare un'ipotesi di discriminazione (nello specifico relativa all'appartenenza dei tre controricorrenti alla compagine sociale non gradita). A parità di tutela cui hanno accesso entrambe le forme di licenziamento (ritorsivo o discriminatorio), la differente (e forse più corretta) editio actionis o qualificazione dei fatti giudiziale avrebbe potuto comportare un differente carico e ripartizione degli oneri probatori e, quindi, incidere sulla valutazione giudiziale. Il principio di diritto sopra richiamato, secondo cui in ipotesi di allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento occorre che l'intento ritorsivo del datore di lavoro sia determinante (cioè tale costituire l'unica effettiva ragione di recesso) ed esclusivo (nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale), opera in caso di domanda avente ad oggetto la nullità del licenziamento per ritorsività dello stesso. Il previo accertamento e la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva, invece, nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo (Cass. n. 2414/2022, Cass. n. 28453/2018, Cass. n. 6575/2016). Interessante è anche l'inserimento tra gli elementi utilizzati per accertare l'insussistenza del progetto riorganizzativo e il motivo illecito determinante i licenziamenti dei tre dirigenti, dell'omissione di comparazione da parte dell'azienda, “come, viceversa, richiesto dal principio di correttezza e buona fede”, tra le posizioni dei soci licenziati e quelli dei dirigenti di più recente nomina (figli dei soci di minoranza). Tale inciso - evidentemente frutto dell'elaborazione della Corte territoriale e acquisito nella sentenza - non viene sviluppato argomentativamente dalla Corte, ma pare riferito all'obbligo di selezione in base ai criteri di scelta oggettivi mediante applicazione analogica dei criteri previsti dall'art. 5 l. n. 223/1991 (cfr. Cass. n. 16856/2020) applicabile anche ai dirigenti in caso di licenziamento collettivo per effetto dell'art. 24, comma 1-quinquies, l. n. 223/1991. Resta però il fatto che la violazione di tale criterio di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., comporta per i dirigenti l'applicazione della sola tutela economica (indennità supplementare in caso di licenziamento individuale o indennità di legge prevista dalla predetta disposizione in caso di licenziamento collettivo) e non può, quindi nella fattispecie, essere valutato se non quale circostanza indiziaria presuntiva. |