Sul requisito dell’esercizio imprenditoriale per la apertura della liquidazione giudiziale

Antonio Maria Leozappa
04 Marzo 2024

Il presente lavoro contiene alcuni spunti di riflessione attorno ad una questione: può la figura dell’imprenditore che esercita un’attività commerciale ex art. 1 CCII ritenersi equivalente a quella dell’imprenditore commerciale ex art. 121 CCII?

Nel Codice della crisi, l'art. 121 assoggetta alla disciplina della liquidazione giudiziale gli “imprenditori commerciali” salvo che dimostrino il possesso dei requisiti dimensionali che, ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. d), contrassegnano l'impresa minore.

La previsione ha il suo antecedente, logico e giuridico, nell'art. 1 CCII, ove viene definito l'ambito di applicazione dell'intero Codice.

Quest'ultimo assume a termine di riferimento la situazione di crisi o di insolvenza del “debitore”, alla cui categoria – per quanto, qui, di interesse – afferisce l'“imprenditore che eserciti, anche non a fini di lucro, un'attività commerciale, artigiana o agricola” operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo, gruppo di imprese o società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti pubblici.

L'art. 121 CCII viene, dunque, a circoscrivere l'ambito operativo della liquidazione giudiziale sia sotto il profilo oggettivo, richiedendo lo stato di insolvenza, sia sotto quello soggettivo, riservandola agli “imprenditori commerciali”. In questa prospettiva la figura dell'imprenditore commerciale ex art. 121 viene a identificarsi con (e a sovrapporsi a) quella dell'imprenditore che esercita un'attività commerciale ex art. 1.

Tale risultato, nella sua apparente linearità, può tuttavia presentare profili problematici ove si consideri che, in un'ottica giuscommercialistica, la qualità di imprenditore e l'esercizio imprenditoriale rappresentano, dal punto di vista ricostruttivo, due momenti concettuali di diversa rilevanza giuridica.

Notoriamente, la qualità di imprenditore consegue, secondo il principio di effettività, all'esercizio di una attività che presenta i requisiti stabiliti dall'art. 2082 c.c., a nulla rilevando l'iscrizione a registri e albi ovvero le autorizzazioni richieste per l'impresa esercitata.  Tuttavia, tra gli interpreti è affatto diffusa la tesi per la quale tale principio non operi avendo riguardo alle società che abbiano ad oggetto l'esercizio dell'impresa commerciale. Queste ultime assumerebbero la qualità sin dal momento della costituzione e, dunque, a prescindere dal compimento di atti che lo realizzino. È stato prospettato che la costituzione stessa sia da intendersi alla stregua di un atto di organizzazione, ma, in vero, secondo detta prospettiva, l'atto sarebbe imputabile ai soci e non già alla società. 

In questo ordine di idee, se l'esercizio di un'attività rilevante ai sensi dell'art. 2082 c.c. determina l'assunzione della qualità di imprenditore e, laddove svolta nei settori ex art. 2195 c.c., di imprenditore commerciale, non è ragionevole assumere che la qualità di imprenditore (commerciale) postuli l'esercizio, nell'attualità, di un'impresa (commerciale).

Per questo motivo, la figura dell'imprenditore che esercita un'attività commerciale ex art. 1 CCIInon può ritenersi, di per sé, equivalente a quella dell'imprenditore commerciale ex art. 121 CCII.

Con il che una lettura che colga la portata della disposizione dell'art. 121 in coerenza con la previsione generale ex art. 1 genera l'interrogativo circa la rilevanza da riconoscere all'esercizio imprenditoriale ai fini della determinazione dell'ambito soggettivo di applicazione della disciplina sulla liquidazione giudiziale.

La questione viene qui posta, se del caso, anche ai fini di una chiarificazione in vista del correttivo al Codice della crisi, che è in corso di predisposizione.

Essa si impernia sul valore da riconoscere all'espressione “imprenditore che eserciti (…) un'attività commerciale” contemplata dall'art. 1 CCII, ossia se abbia valore meramente enunciativo, a intendere l'imprenditore commerciale, ovvero prescrittivo e, dunque, la sua portata andrebbe valutata in funzione della selezione dei soggetti destinatari della disciplina da operarsi sulla base dell'effettivo esercizio dell'attività.

Entrando nel merito, giova ricordare che il Codice demanda all'art. 2 il compito di dettare le definizioni dei termini e delle espressioni utilizzate nell'articolato e, tra queste, per quanto concerne le tre figure nelle quali si declina la categoria del debitore, si registra un enunciato solo per il consumatore, nulla risultando per il professionista e l'imprenditore.    

Quanto a quest'ultimo, deve, dunque, assumersi che la nozione sia quella del Codice civile, che, notoriamente, è posta all'art. 2082 c.c., pacificamente considerato dagli interpreti il modello totalizzante di comportamento imprenditoriale.

In quest'ottica, deve, dunque, osservarsi che il riferimento all'“imprenditore” sarebbe già, di per sé, adeguato a comprendere l'intera gamma delle figure in cui quest'ultimo si articola sia ai sensi del Codice civile che della legislazione speciale, tanto in ragione della dimensione organizzativa (piccolo imprenditore e imprenditore non piccolo), quanto della natura del risultato produttivo (imprenditore commerciale, imprenditore agricolo, imprenditore artigianale e, ove se ne accetti la elaborazione, imprenditore civile).

Per converso l'art. 1 CCII fa riferimento a: i) l'imprenditore; ii) che esercita un'attività commerciale, artigianale ed agricola.

Qual è, dunque, il valore di questa specificazione?

Si noti come la questione non si porrebbe laddove si fosse, ad esempio, parlato di soggetto che esercita un'impresa commerciale, agricola, artigianale ovvero, più direttamente, di imprenditore commerciale, imprenditore artigiano e imprenditore agricolo.   

D'altra parte, è difficile spiegare l'ulteriore specificazione ex art. 1 in merito all'attività con la volontà del legislatore delegato di evitare ogni incertezza in ordine alla portata della nozione di imprenditore, in quanto il carattere generale della nozione ex art. 2082 c.c. è pacifico.

In questo ordine di idee, sussistono spunti sufficienti quantomeno per esplorare in che termini la portata della previsione possa declinarsi in funzione della valorizzazione dell'attualità dell'esercizio imprenditoriale quale requisito di assoggettamento alla procedura.

Si tratta di un tema rilevante posto che, così ragionando, laddove si condivida che la disposizione dell'art. 121 CCII vada interpretata in coerenza con la previsione generale ex art. 1, si dovrebbe concludere che, ai fini dell'apertura della liquidazione giudiziale, il requisito decisivo verrebbe ad essere rappresentato dall'esercizio di un'attività commerciale atta al riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale. Una condizione, questa, che risulterebbe affatto innovativa con riferimento alle società commerciali, posto che l'accertamento di tale qualità non sarebbe più sufficiente, di per sé, ai fini dell'apertura della liquidazione giudiziale.  

 Per esplorare tale opzione ricostruttiva – che non può essere pregiudizialmente negata, anche al di là delle intenzioni del legislatore delegato, essendosi in presenza non di una mera novella della normativa concorsuale, ma di un intervento di sistema a livello codicistico - vale approfondirne l'attendibilità alla luce delle disposizioni che, nella disciplina sulla liquidazione giudiziale, fanno riferimento all'esercizio imprenditoriale.

A venire in evidenza è, in primis, l'art. 211 CCII, laddove esclude che l'apertura della liquidazione giudiziale comporti, di per sé, “la cessazione dell'attività di impresa”.

Notoriamente, la previsione capovolge la prospettiva della legge fallimentare che, all'art. 104, sembrava assumerne l'arresto, con il demandare alla sentenza dichiarativa del fallimento il potere di disporre l'esercizio provvisorio. In quest'ottica, l'art. 211 sembra offrire un positivo riscontro alla ricostruzione qui in esame, risultando non solo affatto coerente, ma immediata conseguenza dell'esigenza dell'attualità dell'esercizio imprenditoriale quale requisito per l'assoggettamento alla procedura.  Ciò tanto più ove si consideri che la previsione non può certo essere stata ispirata dall'esperienza della legge fallimentare, ove, notoriamente, l'apertura della procedura a carico di imprese ancora in esercizio è risultata affatto residuale.  

Un ulteriore indice può essere tratto dal primo comma dell'art. 33 CCII, che stabilisce che la liquidazione giudiziale possa essere disposta entro un anno dalla “cessazione dell'attività del debitore, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo”. La portata della disciplina si coglie appieno ove la si compari con la disciplina dell'art. 10 l. fall.: mentre quest'ultima assumeva a termine di riferimento la cancellazione dal registro delle imprese, l'art. 33 lo indica nell'“attività” e, dunque, in piena coerenza con l'impostazione dell'art. 1.

Più problematica appare, invece, la previsione del secondo comma dell'art. 33, laddove prevede che “per gli imprenditori la cessazione dell'attività coincide con la cancellazione dal registro delle imprese e, se non iscritti, dal momento in cui i terzi hanno conoscenza della cessazione stessa”. La disposizione si presta ad una duplice interpretazione.

Stando al dettato testuale, stabilisce il termine ad quem per l'assoggettamento dell'imprenditore, iscritto al registro delle imprese, alla liquidazione giudiziale.

Al contempo, potrebbe sostenersi che la stessa introduca una sorta di presunzione circa il suo esercizio, ossia che lo stesso sia da intendersi attestato dalla mera iscrizione nel registro delle imprese. Il che porterebbe ad escludere che lo stesso, secondo l'opzione interpretativa in discussione, debba essere specificamente dimostrato ai fini dell'apertura della procedura.

Una tale presunzione, tuttavia, non appare del tutto convincente, in quanto risulterebbe ingiustificatamente discriminatoria rispetto all'imprenditore che, violando la legge, non ha adempiuto agli oneri di pubblicità, che può beneficiare della dimostrazione storica. 

In quest'ottica, la portata del secondo comma dell'art. 33 potrebbe essere intesa non nel senso che l'imprenditore risulti assoggettato alla procedura sino a quando non si cancella dal registro, quanto che, in caso di cancellazione dal registro camerale, la cessazione dell'impresa coincida con detto adempimento, a nulla rilevando che si sia determinata in precedenza come può, ad esempio, accadere nel caso in cui una società sia posta in liquidazione senza che venga disposto l'esercizio provvisorio dell'impresa ex art. 2487, comma 1, lett. d), c.c. Il che consentirebbe, dunque, all'imprenditore che ha cessato la sua attività senza essersi cancellato dal registro di, comunque, dimostrarne l'arresto e la sua conoscenza da parte dei terzi.

Una lettura questa che trova corrispondenza, seppur in opposta prospettiva, nella disciplina del terzo comma dell'art. 33, che, in caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, consente al creditore e al pubblico ministero di dimostrare l'effettivo momento della cessazione dell'attività medesima ai fini del calcolo del termine ad quem per l'apertura della liquidazione giudiziale. Anche qui, dunque, l'esercizio imprenditoriale non solo costituisce il termine di riferimento del dispositivo, ma il suo valore è destinato a prevalere sul dato formale della cancellazione dal registro delle imprese. 

In questa prospettiva emerge la radicale soluzione di continuità rispetto al fallimento per la posizione delle società commerciali. Quest'ultima risulterebbe equiparata a quella dell'imprenditore commerciale che non abbia ottemperato agli oneri di pubblicità, dovendo essere dimostrata dal ricorrente la qualità di imprenditore commerciale con riferimento all'esercizio dell'attività.      

Di tale onere, peraltro, beneficerebbero anche le imprese minori. È, infatti, con stretto riferimento al requisito dimensionale che l'art. 121 pone la prova a carico del debitore. Ne discende che la dimostrazione circa l'effettività dell'attività imprenditoriale competerebbe, in linea con i principi generali, all'attore, con la conseguenza che l'inattività risulterebbe ostativa alla apertura della liquidazione giudiziale e questo a prescindere dalla costituzione, o meno, del debitore. 

A compimento di questi spunti di riflessione sia consentita un'osservazione che va oltre il piano prettamente normativo.

La stagione che ha registrato l'entrata in vigore del Codice della crisi si connota per una serie di interventi legislativi sul sistema Giustizia funzionali a renderlo più efficiente, riducendo anche il carico del contenzioso pendente. Ora, è evidente l'effetto deflattivo che l'opzione ricostruttiva, qui esplorata, comporta: le risorse dei tribunali concorsuali potrebbero concentrarsi sul dissesto delle imprese ancora in esercizio, evitando così di essere, nuovamente, impegnate su quelle che sono solo formalmente tali, non risultando più alcuna attività, se non patrimonio. Sotto la vigenza della legge fallimentare, queste ultime sono state maggioritarie e la gestione delle procedure ha evidenziato come i benefici per i creditori siano stati, per lo più, ridottissimi e, certamente, non adeguati a giustificare un tanto gravoso investimento di professionalità e risorse.

Dunque, cui prodest?