La supersocietà di fatto nella “vecchia” legge fallimentare e nel codice della crisi

05 Marzo 2024

La Cassazione torna ad occuparsi della supersocietà di fatto, in conformità ad un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, analizzandone natura e configurabilità anche alla luce del codice della crisi e dell'insolvenza.

Massima

Una volta ammessa la configurabilità di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi del 1° comma dell'art. 147 l. fall., non vi è alcuna ragione che, nell'ipotesi disciplinata dal 5° comma – in cui l'esistenza della società emerga in data successiva al fallimento automaticamente dichiarato di uno solo dei soci – possa giustificarne un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo.

Una volta acquisito che la cooperazione fra un soggetto persona fisica ed una società a responsabilità limitata ha operato anche solo per facta concludentia sul piano societario, secondo i consolidati tratti dell'esercizio in comune dell'attività economica, della esistenza di fondi comuni e dell'effettiva partecipazione ai profitti e alle perdite, dunque di un agire nell'interesse dei soci, nonché dell'assunzione ed esteriorizzazione del vincolo anche verso i terzi, ne deriva, in via discendente, dalla conseguente società di persone, di fatto ed irregolare, la necessaria responsabilità personale dei suoi esponenti componenti, così instaurandosi il presupposto per le rispettive dichiarazioni di fallimento ritenute le due vicende dei commi 4 e 5 (dell'art. 147 l. fall.), soltanto esemplificative e di valore organizzatorio.

Il caso

Il Tribunale di Messina, dopo aver dichiarato il fallimento di una società a responsabilità limitata in liquidazione, su istanza del curatore, aveva dichiarato, in estensione, il fallimento, rispettivamente, della società di fatto tra la società già fallita e il titolare di una ditta individuale, e dei suoi soci illimitatamente responsabili (la s.r.l. e l'imprenditore individuale) e di una s.r.l.s., quale socio di fatto della società di fatto tra la predetta s.r.l. in liquidazione e l'imprenditore individuale.

Il Tribunale aveva valorizzato il ruolo attivo ricoperto dal proprietario dei rami d'azienda (una pasticceria e una trattoria) concessi in locazione alla società già dichiarata fallita, all'interno della stessa società affittuaria, avendo egli usato la compagine sociale come mero schermo per continuare la sua attività d'impresa dietro il velo formale del contratto d'affitto d'azienda, ma ponendo le scelte gestorie al di fuori delle ordinarie dinamiche societarie. Il Tribunale aveva altresì sottolineato la sostanziale estraneità del legale rappresentante alla direzione e gestione della società, in uno con l'ingerenza gestionale e dell'effettiva eterodirezione della s.r.l. in liquidazione sempre da parte dell'affittuario, così affermando l'esistenza di un vincolo sociale di fatto tra la società di capitali conduttrice dell'azienda e il proprietario dell'azienda stessa/imprenditore individuale.

La Corte d'Appello di Messina, dopo aver rilevato che, effettivamente, i rami d'azienda (della pasticceria e della ristorazione) erano stati gestiti in un primo momento dalla s.r.l. e, successivamente, dalla s.r.l.s., e che era indubbiamente emersa la continua e preponderante ingerenza gestoria imprenditoriale del titolare dell'omonima ditta individuale, nella s.r.l. in liquidazione, aveva, invece, escluso che tali fatti fossero sufficienti a dimostrare l'esistenza di una società di fatto, rimarcando che la costante ingerenza gestoria del concedente nella s.r.l. in liquidazione, anche se dimostrata, non potesse configurare una società di fatto tra gli stessi, ma, semmai, attribuirgli la qualifica di amministratore di fatto della stessa. La Corte d'Appello aveva ritenuto, inoltre, che la preponderanza del concedente i due rami d'azienda nella gestione e nell'amministrazione della s.r.l. avrebbe potuto far propendere, piuttosto, per la configurazione di una holding personale di fatto che depone anch'essa in senso contrario all'esistenza della supersocietà di fatto.

Sempre secondo la Corte, non v'era prova dell'esistenza di un vincolo di collaborazione che andasse oltre l'affectio familiaris, posto che i soggetti coinvolti nell'intricata vicenda erano legati da vincoli di parentela, escludendo, in tal modo, l'affectio societatis; neppure era emersa l'esistenza di un patrimonio comune, di una struttura e un'attività comuni strumentali alla realizzazione e al conseguimento dello scopo sociale dell'unica entità di fatto, né di un'effettiva partecipazione dei tre soggetti coinvolti ai profitti e alle perdite generati dall'esercizio dell'attività d'impresa, essendo, piuttosto, emerso che le società di capitali (la s.r.l. prima e poi la s.r.l.s.) avessero funzionato, progressivamente, solo quale schermo per consentire all'impresa individuale di svolgere la sua attività fuori dagli schemi societari, ossia, in altre parole, quale contenitore da cui prelevare elementi patrimoniali, aziendali e altre utilità.

In conclusione, la Corte d'Appello aveva, quindi, in totale riforma delle due sentenze pronunciate dal Tribunale di Messina, revocato i) tanto il fallimento della società di fatto tra la s.r.l. in liquidazione e l'imprenditore individuale titolare dell'omonima ditta individuale, nonché di quest'ultimo quale socio illimitatamente responsabile, ii) quanto il fallimento della s.r.l.s., quale socia della predetta società di fatto.

Il Fallimento della s.r.l. in liquidazione e della società di fatto tra quest'ultima, la s.r.l.s. nonché degli stessi quali soci illimitatamente responsabili della società di fatto, chiedeva, per sette motivi, la cassazione della sentenza della Corte d'Appello di Messina.

Di tali motivi è stato accolto solo il quarto, con assorbimento degli altri sei.

Sinteticamente, il Fallimento ricorrente, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui, pur avendo accertato una situazione di confusione patrimoniale e di commistione gestoria fra diverse entità – persone fisiche e società – esercenti la medesima attività commerciale, ha escluso la sussistenza della dedotta supersocietà di fatto, omettendo di considerare che i) la società di fatto nasce da comportamenti concludenti dei soci, reiterati nel tempo e orientati all'esercizio dell'attività comune, senza che sia necessario un preciso atto di volontà con cui le parti aderiscono al contratto sociale; ii) la collaborazione di tutti e di ciascuno dei soci all'impresa comune può essere ben costituita anche da un atteggiamento di mera tolleranza e inerzia da parte degli amministratori legalmente nominati delle società socie, rispetto all'esercizio di fatto, poiché proprio questa condotta consente di configurare una organizzazione comune e reale fra i soggetti coinvolti, apprezzata e riconosciuta come tale anche dai terzi;  iii) la formazione di un fondo comune può derivare anche dalla disposizione delle risorse sociali come cosa propria da parte dell'esercente reale dell'impresa, così come dal non contabilizzare correttamente entrate e uscite, facendo transitare il patrimonio aziendale dalla prima società affittuaria decotta alla nuova.

La questione e le soluzioni giuridiche

La sentenza in rassegna si pone decisamente nel solco dell'ormai consolidato insegnamento giurisprudenziale che, partendo dalla società di fatto, ha disegnato l'architettura della c.d. supersocietà di fatto come reazione all'abuso della personalità giuridica.

La società di fatto

La società di fatto ha preceduto, nella macrostoria del diritto, il contratto convenzionale di società.  È stato icasticamente precisato che essa non chiese – per nascere ed impiantarsi – il permesso a nessuno Stato e a nessun legislatore. Non nacque con il proposito di sanare la nullità del contratto convenzionale. La società di fatto, come ogni altro rapporto fattuale (come il possesso, come il consorzio di fratelli, come la potestà parentale) esisteva quando l'uomo non scriveva, esisteva quando l'uomo non concludeva convenzioni, ed esisteva quando l'uomo non parlava.

Così è stato affermato, sinteticamente, che nel linguaggio della  giurisprudenza, è definita società di fatto la società di persone che non abbia compiuto l'iter necessario per la sua regolare costituzione; oppure si configura una società di fatto quando due o più soggetti agiscono tra loro come soci pur non avendo manifestato esplicitamente né per scritto né verbalmente la volontà di sottoscrivere un contratto di società: ove abbia per oggetto un'attività commerciale, la società di fatto è da considerare una società collettiva irregolare. Tale fenomeno è assai diffuso, emergendo a livello giurisprudenziale al momento dell'insolvenza ai fini della dichiarazione della liquidazione giudiziale.

La supersocietà di fatto

La supersocietà di fatto - di creazione giurisprudenziale - si configura qualora una società, anche di capitali, partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone oppure, in termini simili, qualora persone fisiche, società di persone, società di capitali e ogni altro soggetto partecipino, di fatto, ad un'impresa societaria.

Secondo la giurisprudenza, tratto distintivo della supersocietà di fatto è lo svolgimento in comune di un'attività economica da parte delle società che ne fanno parte, le quali, organizzate orizzontalmente, cooperano per un fine economico unitario mettendo a disposizione risorse ed attività e partecipando ai profitti e alle perdite. La supersocietà di fatto si caratterizza per un comune intento sociale perseguito, per la messa in comune del patrimonio e dell'attività comune, per l'effettiva partecipazione ai profitti e alle perdite dei soggetti interessati e per il vincolo di collaborazione tra soci, con quote che si presumono uguali (ex artt. 2253 e 2263 c.c.). In ciò distinguendosi dal ben diverso fenomeno dell'organizzazione verticale delle società, soggette ad un'attività di direzione e coordinamento (c.d. holding di fatto), in cui ciascuna agisce nell'interesse proprio, oppure nell'interesse di una o più società, anche con l'utilizzo strumentale dell'altra o delle altre società. Fenomeno che può dar luogo alla responsabilità della società dominante per i danni cagionati all'altra, a norma dell'art. 2497 c.c., ma non può comportare estensione del fallimento (recte: liquidazione giudiziale) dell'una o dell'altra.

Osservazioni

La sentenza in commento afferma che la Corte d'Appello non si sarebbe attenuta agli anzidetti principi ormai divenuti diritto vivente, e, in particolare, per quello che qui più interessa, avrebbe ritenuto che il disinteresse gestionale dei legali rappresentanti delle società di capitali, l'eterogestione delle società ad opera del concedente, utilizzate dallo stesso come schermo per continuare la sua attività d'impresa dietro il velo formale del contratto d'affitto d'azienda, ponendo le scelte gestorie al di fuori delle dinamiche societarie, deponessero più che altro per l'esistenza di un'amministrazione di fatto da parte del concedente dei rami d'azienda presi in affitto dalla s.r.l. in liquidazione prima e dalla s.r.l.s. poi, o, al più, di una holding di fatto nei cui confronti il curatore può agire in responsabilità e che può essere dichiarata autonomamente fallita. La Suprema Corte corregge, dunque, la Corte d'Appello che avrebbe omesso di considerare, per un verso, che la società di fatto tra una o più persone fisiche ed una o più società non è completamente esclusa, almeno nella fase costitutiva, dalla successiva utilizzazione delle stesse “come schermo” per consentire a chi le controlla di svolgere la propria attività d'impresa e, per altro verso, che la sussistenza della società di fatto può essere affermata anche quando, almeno nella fase costitutiva, le stesse società abbiano conferito, addirittura anche tramite un amministratore di fatto, in un fondo comune, tutto quanto è necessario per il conseguimento dell'oggetto sociale, allo scopo di trarne un vantaggio economico e i risultati ottenuti attraverso il fondo formato con i rispettivi apporti, ricadano su tutti i partecipi, secondo le regole fissate, anche tacitamente dai compartecipi, come nel caso di specie. Quanto precede, si concretizzerebbe, sempre secondo la Suprema Corte, ove risulti lo svolgimento da parte dei compartecipi, siano essi persone fisiche e/o società, della stessa attività facente capo all'imprenditore o alla società inizialmente fallita; la comunanza tra i diversi compartecipi dell'organizzazione aziendale a tale fine utilizzata, come i locali, le insegne, le utenze, con i relativi dipendenti, unitamente agli apporti patrimoniali come beni aziendali, somme di denaro, prestazione di servizi, ecc.; la distribuzione in favore dei partecipanti dei benefici economici conseguenti.

Pare a chi scrive, in assenza degli atti e documenti processuali dei primi due gradi del giudizio, che la Corte del rinvio, seppur in diversa composizione, sarà costretta a percorrere un sentiero stretto e accidentato per “adeguarsi” ai precetti della sentenza della Suprema Corte, posto che si tratterebbe di delicatissime valutazioni di merito, già vagliate – da quanto sembra risultare - con cura: la spinta della Corte di Cassazione verso il riconoscimento del c.d. “gruppo orizzontale” e la responsabilità patrimoniale appare di tutta evidenza, a totale discapito della responsabilità risarcitoria.

Conclusioni

L'interpretazione estensiva dell'art. 147, comma 5, l. fall., che equipara la società di capitali all'imprenditore individuale ai fini dell'estensibilità del fallimento agli eventuali rispettivi soci di fatto, propugnata dalla Corte di Cassazione con l'avallo (esplicito) della Corte Costituzionale, sancisce la costruzione dogmatica e l'ammissibilità della c.d. supersocietà di fatto, nonostante il carattere eccezionale della disposizione (come espressamente riconosciuto dalla stessa Suprema Corte). A tal proposito – si afferma - l'indagine del giudice deve essere indirizzata all'accertamento sia dell'esistenza di una società occulta o di fatto cui sia riferibile l'attività dell'imprenditore già dichiarato fallito, sia della sua insolvenza, posto che il fallimento di tale società costituisce presupposto logico e giuridico della dichiarazione di fallimento, per ripercussione, dei soci illimitatamente responsabili.  L'art. 147, comma 5, l. fall., tuttavia, hanno dovuto spiegare i Supremi Giudici, non si presta all'estensione al dominus (società o persona fisica) dell'insolvenza del gruppo di società organizzate verticalmente e da questi utilizzate in via strumentale, ma, piuttosto, all'estensione ad un gruppo orizzontale di società, non soggetto ad attività di direzione e coordinamento, che partecipano, eventualmente anche insieme a persone fisiche, e controllano una società di persone (la c. d. supersocietà di fatto) e la prova della sussistenza della società di fatto deve essere fornita in via rigorosa, in primo luogo attraverso la dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all'interesse dei soci. Il fatto che le singole società perseguano invece l'interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce, piuttosto, prova contraria all'esistenza della supersocietà di fatto e, viceversa, prova a favore dell'esistenza di una holding di fatto, nei cui confronti il curatore potrà eventualmente agire in responsabilità e che potrà eventualmente essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l'autonoma insolvenza.

Poco convincente, per non dire decettivo e fuorviante, appare il riferimento al c.d. gruppo orizzontale seppur nell'ottica di chiarire i confini della supersocietà di fatto rispetto alla responsabilità (risarcitoria) derivante da attività di direzione e coordinamento, cercando, forse, di limitare l'uso della prima, posto che l'art. 2497- septies, c.c., stabilisce che le disposizioni in tema di direzione e coordinamento di società si applicano anche alla società o all'ente che esercita attività di direzione e coordinamento di società sulla base di un contratto con le società medesime o di clausole dei loro statuti, tipico del mondo cooperativo. Il significato che la Cassazione ha inteso dare al gruppo orizzontale non soggetto a direzione e coordinamento, non solo non appare facilmente intuibile ma risulta addirittura criptico, con la conseguenza che i giudici di merito dovranno fondare il loro convincimento su elementi sfuggevoli e scivolosi da indagarsi sul piano prettamente indiziario piuttosto che su norme e prove certe.

Pur con queste precisazioni, seppur nell'ottica di reprimere gli abusi della personalità giuridica, tuttavia, l'applicazione estensiva dell'art. 147, comma 5, l. fall., conduce all'estensione del fallimento della persona giuridica ad altri soggetti minando «l'orrore del legislatore verso la rottura del tabù dell'autonomia patrimoniale perfetta» e generando quella confusione patrimoniale che la stessa Corte costituzionale aveva voluto evitare, spostando completamente la responsabilità risarcitoria verso la responsabilità patrimoniale, con il fallimento (recte: liquidazione giudiziale) in estensione dei soci illimitatamente responsabili, senza che rilevi il loro stato di decozione, con i conseguenti innegabili vantaggi in termini di semplificazione delle procedure concorsuali.

I pericoli che tanta parte della dottrina ha cercato di scongiurare, purtroppo, si sono materializzati con il nuovo art. 256, comma 5, ccii che, recependo l'iter argomentativo sviluppato dalla giurisprudenza, ha introdotto l'inciso “o di una società”, istituzionalizzando la possibilità di dichiarare il fallimento in estensione di tutti i soci illimitatamente responsabili (perché ritenuti soci di una società di fatto), originariamente pronunciato nei confronti non più e non solo di un imprenditore individuale, ma anche di una società.

Alea iacta est: il vulnus al sistema della invulnerabilità della persona giuridica e della conseguente responsabilità limitata per le obbligazioni sociali è stato perpetrato in accoglimento, si badi bene, di un percorso argomentativo, nella migliore delle ipotesi, gravemente claudicante, perché si basa su discutibilissime interpretazioni di chiare norme giuridiche (art. 2361, comma 2, c.c.); che preferisce non distinguere tra singoli “atti” e “attività” di gestione; che “adatta” situazioni tipiche delle società di capitali alle società di persone (art. 2332 c.c.) senza, per altro, avvedersi delle contraddizioni rese palesi dallo stesso ragionamento sottostante; che “rottama” il principio della spendita del nome a tutto vantaggio di un sistema basato sulla responsabilità patrimoniale anziché su quella risarcitoria; che valorizza il c.d. gruppo orizzontale confondendo, nell'applicare la tecnica dell'estensione, l'affectio societatis tra persone fisiche e persone giuridiche, con l'abuso strumentale delle seconde da parte delle prime; che ha portato la propria elaborazione giurisprudenziale all'estrema conseguenza con il concepimento, oserei dire, in vitro, della supersocietà di fatto, al fine di sopperire a procedure concorsuali con attivo insufficiente, facendo confusione tra le tecniche offerte dall'ordinamento rispetto ai fenomeni di eterogestione abusiva. Il riconoscimento legislativo della supersocietà di fatto non è un'innovazione ma un'involuzione del sistema che ora si trova nel pantano dei “facta concludentia”, all'interno dei quali i giudici dovranno ricostruire ex post e, come già sottolineato, con metodo indiziario, l'affectio societatis tra la società di capitali e gli stessi suoi soci o tra la società di capitali e altre società di capitali e altri soci, in una spirale, potenzialmente, senza fine. I principi cardine del diritto commerciale sono stati sacrificati sull'altare dell'efficientismo del diritto concorsuale, che li vede, oggi, purtroppo, l'un contro l'altro armato. Gli interpreti non abdicheranno al loro compito, continuando a proporre e sollecitare soluzioni che siano in linea con il sistema, anche se ben difficilmente, almeno per il momento, è prevedibile un intervento legislativo che non sia solo meramente correttivo, ma capace di bilanciare la certezza delle norme giuridiche con gli interessi dei creditori e la stabilità dei traffici giuridici. Mercato e investitori saranno osservatori attenti dell'interpretazione e dell'applicazione dell'art. 256 c.c.i.i., il cui uso inappropriato (ma, si spera, non smodato) ne rivelerà presto i limiti e l'intrinseca diabolicità.

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