Formulazione della prova testimoniale e poteri d’ufficio del giudice del lavoro
05 Marzo 2024
Massima Nel rito del lavoro, la riformulazione dei capitoli di prova testimoniale mediante l'eliminazione degli aspetti valutativi e suggestivi rientra nei poteri istruttori del giudice previsti dall'art. 421 c.p.c., in funzione dell'esigenza di contemperamento del principio dispositivo con la ricerca della verità. Il caso Il ricorrente per Cassazione, tra i motivi di censura alla pronuncia di merito, assumeva lo svolgimento dell'indagine istruttoria sul punto decisivo della controversia in violazione dell'art. 414 c.p.c., per mancanza di specifiche allegazioni del lavoratore, e in violazione dell'art. 421 c.p.c., al di fuori dei limiti posti all'esercizio dei poteri ufficiosi, avendo il tribunale provveduto, nella sostanza, a riformulare il capitolo di prova che era stato redatto dalla parte in modo generico e valutativo, quindi inammissibile. Il motivo veniva ritenuto dalla Corte di legittimità infondato, in quanto, in relazione al primo aspetto, la Corte d'Appello aveva ritenuto, congruamente motivando, la sufficienza della piattaforma assertiva fornita dal ricorrente. Quanto all'assunta violazione dell'art. 421 c.p.c., la riformulazione dei capitoli di prova testimoniale, mediante eliminazione degli aspetti valutativi e suggestivi, e ferma la deduzione di fatti oggettivi rilevanti ai fini di causa, doveva ritenersi certamente ricompresa nei poteri istruttori del giudice del lavoro, in funzione dell'esigenza di contemperamento del principio dispositivo con la ricerca della verità. La questione La specialità del rito laburistico, nello specifico segmento della fase istruttoria, trova una declinazione articolata su tre cardini fondamentali. Da un lato, si registrano strumenti istruttori e mezzi di prova tipici del processo del lavoro. Dall'altro, con riferimento ai mezzi di prova tipici, comuni al rito di cognizione ordinaria, vanno annoverate regole integrative o specifiche modalità di esperimento del mezzo di prova. Di assoluto rilievo è, infine, la presenza di ampi poteri d'ufficio in capo al giudice del lavoro, che introduce una significativa deroga al principio dispositivo. Tali prerogative poteri risultano compendiate nella disposizione di cui all'art. 421 c.p.c., rubricata «poteri istruttori del giudice». L'esistenza di poteri istruttori d'ufficio è caratteristica comune al rito ordinario di cognizione, e risponde all'esigenza di assicurare una migliore approssimazione della verità processuale al concreto dispiegamento dei fatti rilevanti per la decisione finale, nei ristretti limiti che il principio dispositivo consente. Le maggiori ampiezza e sistematicità dei poteri istruttori, appannaggio del giudice del lavoro, originano da precise scelte di politica legislativa, raffinate dalla successiva elaborazione di principi giurisprudenziale, il cui fondamento va reperito nell'idea della disparità sociale ed economica tra le parti del processo del lavoro, e nella maggiore difficoltà di accesso alle fonti di prova della parte debole. Il giudice risulta, conseguentemente, investito di prerogative funzionali al temperamento della fisiologica disparità, ed alla ricerca della verità materiale, per assicurare la tendenziale corrispondenza tra la verità processuale e l'effettiva realtà fattuale e giuridica, substrato della res controversa. Le soluzioni giuridiche Il primo alinea dell'art. 421 c.p.c. attribuisce al giudice la facoltà di indicare alle parti, «in ogni momento», le irregolarità degli atti e dei documenti «che possono essere sanate», assegnando un termine per provvedervi, «salvo gli eventuali diritti quesiti». Tipica fattispecie di applicazione in giurisprudenza dell'art. 421, comma 1, c.p.c. è quello di articolazione della prova testimoniale carente di indicazione della generalità dei testi (Cass., sez. VI, 25 giugno 2020 n. 12573), che spesso discende dalla difficoltà di identificazione dei medesimi, in strutture aziendali complesse. Ancora, fermo restando che, ai fini della completezza delle richieste di prova testimoniale, si ritiene sufficiente l'indicazione specifica dei fatti all'interno degli atti introduttivi, senza necessità di riformulazione in capitoli separati ai sensi dell'art. 244 c.p.c., si è affermato che il giudice possa assegnare alle parti termine, ai sensi dell'art. 421 1° co. c.p.c., per provvedere in tal senso (Cass., sez. lav., 5 ottobre 2016, n. 19915). Con riferimento al fronte della documentazione da regolarizzare, può accadere che il giudice si avveda della circostanza che uno o più documenti, ricompresi nell'indice delle produzioni documentali in calce all'atto, non risultino versati nel fascicolo telematico, o che per errore la parte abbia depositato un diverso documento da quello presente in elenco. In tal caso, avvalendosi delle facoltà di cui all'art. 421, comma 1, c.p.c., potrà fissare alla parte un termine per la regolarizzazione della produzione documentale, ciò anche al di fuori dei presupposti della rimessione in termini ai sensi dell'art. 153, comma 3, c.p.c. L'attività di regolarizzazione presuppone, innanzitutto, che i fatti costitutivi risultino sufficientemente allegati, sia pure implicitamente, negli atti introduttivi (Cass., sez. lav., 27 ottobre 2020, n. 23605), non potendosi utilizzare lo strumento per sopperire all'omessa o generica allegazione contenuta negli atti di parte. Al contempo, il mezzo istruttorio oggetto dell'attività di regolarizzazione deve risultare ammissibile, avuto riguardo alla maturazione delle preclusioni processuali. Osservazioni Nelle esemplificazioni giurisprudenziali dei poteri d'ufficio del giudice del lavoro, sopra esaminate, le coordinate dell'intervento suppletivo giurisdizionale risultano essere rispettose del disposto letterale di cui all'art. 421, comma 1, c.p.c. che prevede che al rilievo giudiziale dell'irregolarità degli atti e documenti, interpretata in senso ampio, alla stregua di carente o imperfetta formulazione dei capitoli di prova, non segua un intervento diretto, bensì uno stimolo per l'attività correttiva, attraverso l'indicazione dell'aspetto da regolarizzare e la fissazione di un termine alla parte per provvedervi. L'inosservanza di tale termine, stante la sua natura perentoria, non può che ridondare in una valutazione di inammissibilità della prova. Ciò appare, del resto, coerente con il principio dispositivo, pienamente operante nel processo del lavoro, benché con i temperamenti derivanti dall'esistenza dei poteri istruttori d'ufficio, che vuole che il giudice operi nei limiti delle allegazioni e dell'offerta di prova (alligata et probata). La pronuncia in commento appare, nella sua portata di principio, spingersi oltre, approfondendo il solco tracciato al principio dispositivo, in funzione del superiore obiettivo della ricerca della verità materiale. L'intervento giudiziale sull'offerta di prova della parte è diretto, e non di semplice stimolo correttivo di incongruenze ed incompletezze. Unico, invalicabile limite, appare essere quello della sufficienza della piattaforma assertiva, ovvero la compiuta allegazione dei fatti oggettivi, rilevanti ai fini della causa, sui quali l'attività istruttoria si concentra. La posizione non appare, del resto, isolata, trovando un antecedente nella pronuncia (Cass., sez. lav., 14 aprile 2021, n. 9823) secondo cui l'operato del giudice, che chieda al testimone di precisare, al di fuori della capitolazione di parte, circostanze indispensabili ai fini dell'accoglimento della domanda, deve ritenersi corretta, essendo «consentita, se non anche imposta, dall'art. 421 c.p.c.». Riferimenti M. Bove, Istruzione probatoria nel processo del lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 3, 2016, 909 e ss M. Mollo, Le peculiarità dell’istruttoria nel processo del lavoro, in AA.V.V., Il processo del lavoro, Maggioli, 2021, 435 e ss. |