Licenziamento ritorsivo: la sproporzione della sanzione espulsiva non determina ex se l’automatica qualificazione di illiceità del recesso datoriale

07 Marzo 2024

Nel licenziamento ritorsivo, il carattere unico e determinante del motivo illecito non può desumersi unicamente dalla mancata integrazione, per difetto di proporzionalità, dei parametri normativi della giusta causa, ma è necessario che la prova poggi su elementi ulteriori, idonei a giustificare la collocazione dell'atto datoriale nella sfera della illiceità, così da evitare ogni indebita confusione e sovrapposizione tra le categorie della nullità e della illegittimità del recesso.

Massima

[…] poiché il licenziamento per ritorsione costituisce la reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, ove il potere di recesso sia esercitato a fronte di una condotta inadempiente di rilievo disciplinare, la concreta valutazione di gravità dell'addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva, se pure può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento, occorrendo, perché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinate, che la ragione addotta e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l'intimazione del licenziamento, sì che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo […].

Il caso

Carenza di proporzionalità della sanzione espulsiva e ricorrenza dell'efficacia determinativa esclusiva

La fattispecie oggetto della presente trattazione di commento trae origine dal ricorso promosso da un dipendente di una Società operante nel settore della vendita di capi d'abbigliamento, avverso il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla datrice di lavoro.

Più nel dettaglio, il lavoratore, svolgente le mansioni di gerente del negozio, aveva in precedenza impugnato il suo disposto trasferimento lavorativo dalla sede di Roma a quella di San Giuliano Milanese, ottenendone la declaratoria di illegittimità in sede giudiziale, con conseguente ordine di ripristino del rapporto di lavoro presso la sede di Fiumicino.

Rientrato in azienda il lavoratore aveva, suo malgrado, riscontrato un clima di forte ostilità nei suoi confronti, avendo il proprio superiore gerarchico sollecitato i dipendenti a segnalare tutte le possibili mancanze del medesimo, con conseguente formalizzazione di una serie di contestazioni disciplinari, seguite da altrettante sanzioni conservative applicate dalla Società.

Tuttavia, la condotta posta a fondamento del comminato licenziamento aveva riguardato una discussione intervenuta sul posto di lavoro tra il dipendente ed una sua collega, in relazione a questione sui recuperi di ore straordinario, che sarebbe degenerata con lo strattonamento per un polso della donna e con temporaneo impedimento alla stessa di allontanarsi dalla zona ove la discussione si svolgeva, unitamente alla contestazione della non corretta disposizione della merce nel negozio e dell'errore di indicazione dello sconto promozionale in un cartellino esposto al pubblico.

Ricevuta la comunicazione di risoluzione del rapporto, il lavoratore licenziato aveva provveduto a rivolgersi alla competente Autorità Giudiziaria per far dichiarare la nullità o, in subordine, l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla datrice.

Senonché, in primo grado, il Giudice del lavoro adito, all'esito della fase sommaria, aveva provveduto a respingere il ricorso giudicando legittimo il licenziamento, ma il medesimo Tribunale, con sentenza emessa nel giudizio di opposizione, aveva ribaltato la valutazione, dichiarando l'illegittimità del provvedimento espulsivo per difetto di proporzionalità della sanzione, con applicazione della tutela prevista dall'art. 18, quinto comma, legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012.

Approdata la vicenda in sede di appello, la Corte territoriale aveva disposto l'accoglimento del reclamo principale del lavoratore e, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato nullo, perché ritorsivo, il licenziamento in menzione, condannando la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno commisurato all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino all'effettiva reintegra.

Secondo i Giudici del gravame, infatti, non poteva ritenersi corretto l'assunto della difesa della reclamata secondo cui la mera sussistenza del fatto addebitato consentirebbe di escludere che vi sia un unico ed esclusivo motivo determinante il licenziamento costituito dall'intento ritorsivo, in quanto, diversamente, basterebbe verificare la sussistenza di qualsiasi fatto, seppure di minimo rilievo disciplinare, per consentire al datore di licenziare il dipendente senza che l'intento di rappresaglia rilevi.

Per tali ragioni, la Corte d'appello, accertata la inidoneità dell'addebito, per difetto di proporzionalità, ad integrare la giusta causa di licenziamento, ha ritenuto che l'unico motivo determinante il licenziamento fosse costituito dall'intento ritorsivo della società, da cui l'assunta decisione di declaratoria di nullità con reintegra piena del dipendente.

Avverso tale pronuncia la Società datrice di lavoro ha deciso di ricorrere in Cassazione, contestando, in particolare e per quel che rileva ai fini della presente trattazione, la violazione o falsa applicazione dell'art. 1345 c.c. e dell'art. 18, primo comma, legge n. 300/1970, modificata dalla legge n. 92/2012.

Secondo la datrice ricorrente, la Corte di merito avrebbe delibato in contrasto con l'orientamento di legittimità, secondo cui il motivo illecito deve essere determinante (costituendo l'unica effettiva ragione di recesso) ed esclusivo (nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale), mentre nel caso in esame, il motivo lecito formalmente addotto, cioè l'addebito contestato, risultava certamente sussistente ed accertato, se pure giudicato tale da non integrare una giusta causa di recesso.

La questione

Il solo difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva il motivo ritorsivo?

La questione sottesa alla pronuncia in esame riguarda l'ampiezza della valutazione dell'efficacia determinativa esclusiva dell''intento ritorsivo rispetto alla volontà di recesso dal rapporto di lavoro e, più in particolare, se la stessa possa essere ancorata al mero accertamento della inidoneità dell'addebito, per difetto di proporzionalità ad integrare una giusta causa di licenziamento, in assenza di ulteriori elementi idonei a giustificare la collocazione dell'atto datoriale nella sfera della illiceità, anziché in quella della illegittimità.

La soluzione giuridica

La sola valenza presuntiva della sproporzione della sanzione espulsiva non basta a qualificare ritorsivo il licenziamento

La Suprema Corte, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, parte dallo scrutinio dell'assorbente motivo di doglianza sostenuto dalla datrice di lavoro ricorrente.

Gli Ermellini, infatti, in primo luogo richiamano il costante orientamento di legittimità, secondo cui l'accoglimento della domanda di nullità del licenziamento fondato su motivo illecito esige la prova che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso e idonei a configurare un'ipotesi di legittima risoluzione del rapporto, dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento.

Poiché, invero, il motivo illecito attiene alla sfera dell'elemento psicologico o alla finalità dell'atto datoriale, la sua efficacia determinativa esclusiva deve essere verificata in relazione all'assenza di altre motivazioni o ragioni astrattamente lecite, restando su un piano ancora diverso la valutazione di tali ragioni rispetto ai parametri normativi di giusta causa o giustificato motivo.

L'onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava, pertanto, sul lavoratore, che nondimeno può ricorrere all'utilizzo di presunzioni, idonee a giustificare la collocazione dell'atto datoriale nella sfera della illiceità, anziché in quella della illegittimità.

Eppure, per ricadere nell'alveo di operatività della disciplina propria del licenziamento nullo perché ritorsivo, il carattere unico e determinante del motivo illecito non può, tuttavia, desumersi unicamente dalla mancata integrazione, per difetto di proporzionalità, dei parametri normativi della giusta causa, ma è necessario che la prova presuntiva poggi su elementi ulteriori, anche rispetto alla scala valoriale espressa dalla contrattazione collettiva.

Ed infatti, poiché il licenziamento per ritorsione costituisce la reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, ove il potere di recesso sia esercitato a fronte di una condotta inadempiente di rilievo disciplinare, la concreta valutazione di gravità dell'addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva, se pure può avere rilievo presuntivo, non può per ciò solo portare a giudicare come automaticamente ritorsivo il licenziamento.

Affinché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinate, occorre, invero, che la ragione addotta e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l'intimazione del licenziamento, sì che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo.

Per la Suprema Corte, quindi, la sentenza d'appello impugnata non si sarebbe attenuta al rispetto di tali principi, posto che, se pure i Giudici del gravame hanno accertato la commissione dell'illecito disciplinare (respingendo l'appello incidentale del lavoratore basato sulla non credibilità della dipendente che ne era stata vittima), confermando così la valutazione del Tribunale in ordine alla sproporzione della sanzione espulsiva, tuttavia, a differenza del primo giudice (che aveva applicato la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5 cit.), gli estensori della pronuncia di secondo grado hanno attribuito efficacia determinativa esclusiva al motivo ritorsivo solo a causa della inidoneità dell'addebito, per difetto di proporzionalità, a integrare una giusta causa di licenziamento, così finendo per confondere e per sovrapporre le categorie della nullità e della illegittimità del recesso.

Per tali ragioni, gli Ermellini hanno accolto il motivo di ricorso proposto dalla datrice di lavoro, ritenendo assorbiti gli altri motivi, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla medesima Corte d'appello, in diversa composizione, per un nuovo esame della fattispecie in conformazione ai principi richiamati.

Osservazioni

I presupposti di nullità del licenziamento ritorsivo

La pronuncia in esame ci consente di avanzare alcune considerazioni di sintesi sul tema del licenziamento ritorsivo, ancorabile, sotto un profilo classificatorio di matrice prettamente dogmatica, all'interno del macro-comparto delle risoluzioni affette da nullità e, in particolare, a quella derivata dalla rilevanza causale del motivo illecito determinante, ex art. 1345 c.c.

Siamo, dunque, al cospetto di una fattispecie operativa particolarmente invisa all'ordinamento, siccome caratterizzata da una intollerabile ed ingiusta reazione datoriale a carattere spiccatamente vendicativa, posta in essere con l'intento punitivo di quei dipendenti divenuti “scomodi” per l'azienda, in quanto colpevoli di aver adottato comportamenti del tutto legittimi, ma che risultano, nondimeno, sgraditi al datore di lavoro, che, per tale sola ragione, decide di espellerli dal contesto lavorativo.

Il costante e granitico orientamento giurisprudenziale in materia considera, del resto ed in maniera tranciante, affetto da nullità insanabile il licenziamento fondato sull'esclusivo motivo ritorsivo, quale unica e totalizzante componente determinativa della volontà di recesso datoriale, in ossequio al principio ricavabile dal combinato disposto dell'art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c.

La ratio sottesa a tale assunto giurisprudenziale, invero, è da ricondurre alla valorizzazione atipica del disposto di cui all'art. 1345 c.c., che, derogando al principio secondo il quale i motivi dell'atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto (ma lo stessa valga per atti unilaterali, laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali) qualora determinati da un motivo contrario a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume.

Ecco, allora, che appare evidente come il “motivo illecito” si collochi su di un piano nettamente distinto dal (giustificato) motivo soggettivo e oggettivo di licenziamento, previsto dall'art. 3 della legge n. 604/1966, in quanto quest'ultimo, al pari della giusta causa (art. 2119 c.c.), costituisce presupposto del legittimo esercizio del potere (disciplinare o organizzativo) attribuito al datore di lavoro, la cui mancanza è causa di annullabilità del licenziamento.

Diversamente, il licenziamento ritorsivo rappresenta, invece, l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore interessato, il che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta, avente efficacia diretta (se attuata nei confronti dello stesso lavoratore) o indiretta (se ricadente su di altra persona ad esso legata).

Come abbiamo visto, però, tale motivo, che rende l'atto datoriale contrario ai valori ritenuti fondamentali per l'organizzazione sociale e ne determina la nullità, deve avere una efficacia determinativa esclusiva, così da rilevare indipendentemente dalla giustificazione formalmente addotta, come del resto recita l'art. 18, comma 1, della legge n. 300/1970, nella versione modificata dalla legge n. 92/2012 (secondo una formula già presente nell'art. 4, l. n.  604/1966).

Ecco che, allora, è possibile ricavare una prima derivazione di tale portata sostanziale sul connesso profilo della ripartizione dell'onere probatorio in materia e, in particolare, sul presupposto della potenziale incidenza della sussistenza di un motivo legittimo di licenziamento in funzione ostativa alla qualificazione di ritorsività del recesso datoriale.

Se, invero, e come abbiamo visto, in caso di denuncia del carattere ritorsivo del licenziamento occorre che l'intento vendicativo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro per accordare la tutela che l'ordinamento riconosce, appare evidente come tale verifica debba essere condotta in relazione all'assenza di altre motivazioni o ragioni astrattamente lecite, restando su un piano diverso la valutazione di tali giustificazioni rispetto ai parametri normativi di giusta causa o giustificato motivo. Ciò in quanto l'allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera, infatti, il datore di lavoro dall'onere di provare, ai sensi della l. n. 604/1966, articolo 5, l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso.

Eppure, il legislatore nostrano riconduce in capo al lavoratore denunciante l'onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale, in stretta applicazione del disposto dell'art. 2097 c.c., che scandisce il principio logico-argomentativo per cui chi vuole dimostrare l'esistenza di un fatto in giudizio, ha l'obbligo di fornire le prove per l'esistenza del fatto stesso.

Il lavoratore, pertanto, sarà tenuto non solo a provare l'esistenza di un motivo ritorsivo, ma anche a fornire la prova che detto motivo sia stato l'unico a determinare la volontà datoriale di recedere dal contratto in essere, dovendo indicare elementi idonei ad individuare la sussistenza di un rapporto di causalità tra il recesso e l'asserito intento di rappresaglia.

Considerata, però, la particolare difficoltà di tale probatio imposta al lavoratore, siccome inerente all'aspetto volitivo e motivazionale di altro soggetto (nella specie il datore), si ritiene comunemente ammesso il ricorso all'utilizzo di presunzioni, idonee a giustificare la collocazione dell'atto datoriale nella sfera della illiceità, anziché in quella della illegittimità.

Ecco che, in tal senso, la portata nomofilattica della pronuncia in commento si manifesta in tutta la sua effettiva consistenza, avendo la Suprema Corte correttamente rilevato come la concreta valutazione di gravità dell'addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva, se pure può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento, occorrendo, perché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinate, che la ragione addotta e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l'intimazione del licenziamento, sì che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo.

E qui si coglie, sotto diverso profilo, la netta distinzione marcata, nel tempo, tra la fattispecie di licenziamento ritorsivo e quella di licenziamento discriminatorio, in ossequio alla espressa duplicazione legislativa di cui all'art. 1, comma 42, della l. n. 92/2012, che, accanto al licenziamento discriminatorio, contempla quello “determinato da un motivo illecito determinante”, sul presupposto, peraltro, della possibile riconnessione sostanziale dell'ipotesi del licenziamento ritorsivo al fondamento di tutela sancito dall'art. 1345 c.c., diversamente dal licenziamento discriminatorio che trova la sua collocazione nel quadro della normativa antidiscriminatoria interna ed europea.

Tale divisione operativa, infatti, non è affatto speciosa, in quanto determinativa di una diversificazione profonda in tema di sussistenza e prova dell'elemento intenzionale, perché mentre nel licenziamento ritorsivo il lavoratore deve dimostrare non solo la sussistenza del motivo illecito che connota la punizione datoriale rispetto ad una condotta legittima del dipendente ma anche l'esclusività dell'intento ritorsivo, nel licenziamento discriminatorio, invece, non rileva affatto l'elemento soggettivo connesso alla volontà discriminatoria del datore di lavoro, inficiando la discriminazione la validità del licenziamento anche nel caso in cui concorrono altri motivi o finalità lecite a giustificazione del medesimo recesso.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.