Incapacità del legale rappresentante della società fallita a rendere testimonianza

12 Marzo 2024

depIl ricorso alla Corte di legittimità denuncia come erronea l'esclusione della dedotta prova testimoniale per avere i giudici di merito considerato incapace il rappresentante legale della società dichiarata fallita unitamente all'originario opponente: e ciò in violazione, asseritamente, degli artt. 113,115,116,183,246 c.p.c.; 178, 179, 2697 c.c.; 24 e 111 Cost.; e 6 della CEDU.   

Massima

depLa perdita della legittimazione processuale attiva e passiva del fallito, conseguente alla dichiarazione di fallimento, non impedisce allo stesso fallito di conservare la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento e, quindi, la qualità di parte in senso sostanziale nelle controversie inerenti a tali rapporti. Ne consegue che nei predetti giudizi il fallito non può assumere la veste di testimone, operando nei suoi confronti il generale principio di incompatibilità tra la qualità di teste e quella di parte nel medesimo giudizio. Nel caso di fallimento di una persona giuridica l'incompatibilità riguarda la persona fisica del suo legale rappresentante.

Il caso

depNel giudizio di merito fu respinta l'opposizione avverso lo stato passivo di una società fallita sull'assunto che la domanda proposta per la rivendicazione di beni dalla massa fallimentare non aveva trovato in atti idoneo riscontro probatorio per la mancanza di data certa nelle scritture private prodotte dall'opponente e per la ritenuta non correlazione tra dette scritture ed una serie di fatture di acquisto. Nelle more processuali era stato dichiarato il fallimento della stessa parte opponente, in estensione del fallimento della società di cui egli era socio di fatto, e di conseguenza era stata respinta la richiesta di poter fornire quel riscontro probatorio mancante mediante l'assunzione della testimonianza del legale rappresentante della fallita, per essersi ritenuto costui incapace per tale sua veste a rendere la prova orale in favore della società rappresentata. 

La questione

depIl ricorso alla Corte di legittimità denuncia come erronea l'esclusione della dedotta prova testimoniale per avere i giudici di merito considerato incapace il rappresentante legale della società dichiarata fallita unitamente all'originario opponente: e ciò in violazione, asseritamente, degli artt. 113, 115, 116, 183, 246 c.p.c.; 178, 179, 2697 c.c.; 24 e 111 Cost.; e 6 della CEDU.   

Le soluzioni giuridiche

depLa Corte ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso, ai sensi dell'art. 360-bis, n. 1, c.p.c. Costante, infatti, ha affermato, è l'orientamento secondo cui nelle controversie inerenti a rapporti economici compresi nel fallimento il fallito non può testimoniare nel giudizio civile poiché conserva pur sempre la qualità di parte in senso sostanziale, di modo che nei suoi confronti opera il principio generale della inconciliabilità con la veste di testimone. Il detto principio è stato ripetutamente applicato con riguardo al fallimento di persone fisiche mentre, certamente, si è affermato, esso ha una portata minore per quel che concerne le persone giuridiche. In riferimento ad esse, questa portata minore viene intesa nel senso che l'incapacità a testimoniare attiene alla persona fisica che di quella giuridica ha la rappresentanza legale. Per inciso si è aggiunto che, ove la testimonianza fosse resa, ne deriverebbe una nullità dell'atto di natura relativa, da farsi valere con eccezione proponibile al più tardi dopo la sua assunzione o all'udienza successiva, in caso di mancata presenza della parte che vi ha interesse: questione che comunque era rimasta del tutto estranea alla materia del giudizio di legittimità. Per quanto riguardava l'ipotizzata violazione della Convenzione europea, la Corte ha osservato che la regola della “parità delle armi” oggetto della tutela asseritamente violata comporta che l'inosservanza si verifichi quando una delle parti in causa è posta in posizione di svantaggio  rispetto all'altra da una norma processuale: mentre l'art. 246 c.p.c., in tema di incapacità a deporre, si applica a tutte le parti del processo, senza differenze tra esse e nella stessa maniera.   

Osservazioni

depCome la Corte ha affermato nella motivazione della decisione in oggetto, più volte è stato affermato che il fallito non può rendere testimonianza nel processo civile in relazione ai rapporti economici riguardanti il fallimento in quanto conserva in essi la qualità di parte sostanziale ed è principio generale e pacifico che la parte non è ammessa a testimoniare a proprio favore. Il testimone non deve essere connotato da interesse al giudizio, un interesse, si intende, diretto e giuridicamente tutelabile con l'entrata nel procedimento: e in tale posizione di estraneità non versa, per definizione, chi attraverso la deposizione intende proteggere l'interesse che gli appartiene e che intende difendere nella causa. Il fallito perde la propria capacità processuale ma ciò che veramente gli preclude la veste di testimone è la finalizzazione strumentale di questa veste al riconoscimento di una propria domanda. Quando una siffatta situazione non si realizza l'incapacità non ricorre: “Nel giudizio di revocatoria fallimentare non sussiste incapacità del fallito a testimoniare, non essendo egli titolare di un interesse giuridico, personale, concreto ed attuale che lo abiliti a partecipare al giudizio stesso (ne' rientrando, in difetto di espressa previsione normativa, la incapacità a testimoniare tra quelle personali ex artt. 50 e 142 legge fall., ne', infine, trovando la testimonianza del fallito alcun impedimento negli artt. 43 e 118 legge cit.)” Cass. civ., sez. I, n. 11083/2004.

depNon esattamente coincidenti sono le considerazioni che valgono ad escludere la veste di testimone con riferimento al rappresentante legale di una persona giuridica. In questo caso la finzione dell'immedesimazione tra persona fisica ed ente conduce a identificarli come un unico soggetto; e tanto è sufficiente perché la persona fisica sia considerata alla stregua di una parte nelle controversie che coinvolgono l'ente. Non si tratta, però, di un espediente formale che serve soltanto a risolvere l'impossibilità della persona giuridica di agire senza l'operato concreto di una persona fisica. Infatti, e ad esempio,

deple dichiarazioni rese in sede di verifica tributaria dal legale rappresentante di una società non assumono contenuto testimoniale, in quanto il rapporto di immedesimazione organica che lega il rappresentante legale alla società rappresentata esclude che il primo possa essere qualificato come testimone, in riferimento ad attività poste in essere dalla seconda; tali dichiarazioni possono invece essere apprezzate come una confessione stragiudiziale, e costituiscono pertanto prova non già indiziaria, ma diretta, non abbisognevole, come tale, di ulteriori riscontri (Cass. civ., sez. V, ord. n. 22616/2014; Cass. civ., sez. V, n. 28316/2005). Confessione che, per definizione, non può che provenire dal soggetto titolare del diritto che da essa viene pregiudicato.

depNell'una e nell'altra fattispecie la testimonianza, se resa, sarebbe colpita da nullità, peraltro di natura relativa e da dedurre dalla parte interessata subito dopo l'assunzione oppure al più tardi all'udienza successiva ove recepita in assenza del procuratore di tale parte (Cass. civ., sez. un., n. 9456/2023; Cass. civ., sez. II, ord. n. 19498/2018; Cass. civ., sez. lav., n. 7028/1998).

depUn elemento di novità offerto dalla decisione che si annota è costituito dalla dichiarazione di insussistenza della pretesa lesione dei principi costituzionali ed europei che sanciscono la c.d. parità delle armi tra contendenti, sia nel processo penale che in quello civile. Alle diffuse argomentazioni sviluppate in tal senso nel ricorso introduttivo e in una successiva memoria la Corte ha sovrapposto una lineare e ben più semplice considerazione. Sia gli artt. 24, 111 e 117 (quest'ultimo nella parte che vincola il legislatore nazionale al rispetto delle regole dell'ordinamento sovranazionale) e sia l'art. 6, primo comma, della CEDU, come interpretato dalla Corte europea  dei diritti dell'uomo. riferiscono detta parità di armi alla condizione che nessuna delle parti sia posta da una norma processuale in condizioni di svantaggio nei confronti dell'altra. L'art. 246 c.p.c., che costituiva il riferimento giuridico nella vicenda in esame, si applica indifferentemente a tutte le parti del giudizio ed esclude, per ciascuna di esse e ugualmente, la possibilità di dedurre come testi i soggetti che unitamente a loro potrebbero partecipare al giudizio in corso. La pretesa disparità pertanto non poteva nella specie sussistere.

depGli artt. 142, comma 1 e 143, commi 1 e 2, d.lgs. n. 14/2019, sulla crisi d'impresa, riprendono senza modifiche testuali il dettato degli artt. 42, primo comma, e 43, commi 1 e 2, della legge fallimentare. I principi enunciati dalla Corte di cassazione valgono pertanto nella disciplina subentrata al risalente r.d. n. 267/1942.

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