Licenziamento per giusta causa: legittimo per il dipendente che lavora durante l’assenza per malattia a favore del coniuge
21 Marzo 2024
MASSIMA È legittimo il licenziamento del dipendente che lavora, durante l'assenza per malattia, a favore del coniuge in quanto tale attività sia idonea a ritardare la ripresa fisica del lavoratore e, quindi, a posticiparne il rientro in azienda. IL CASO Lo svolgimento di attività di lavoro durante il periodo di malattia. Nel caso esaminato dalla Corte, un dipendente aveva prestato attività lavorativa presso il negozio della moglie durante un periodo di assenza per malattia. Il datore di lavoro, tramite un'agenzia investigativa, aveva accertato la circostanza e aveva, quindi, intrapreso un procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento per giusta causa, ex art. 2119 c.c., del lavoratore. Sia in primo grado, sia in appello, i giudici di merito avevano respinto l'impugnazione del licenziamento proposta dal lavoratore che, dunque, adiva la Corte di cassazione. LE QUESTIONI Il fondamento dell'indebito rilevabile disciplinarmente. La Corte d'appello, confermando la pronuncia del Tribunale, ha rigettato l'impugnazione del dipendente, rilevando la potenziale idoneità dell'attività svolta dal lavoratore a favore della moglie a ritardare la sua guarigione, in quanto attività ripetuta durante la malattia (per due giorni su sette di malattia) e, dunque, fondante l'addebito disciplinare posto alla base della sanzione espulsiva. LE SOLUZIONI GIURIDICHE La proporzionalità tra la sanzione irrogata e il fatto contestato. La Corte di cassazione conferma la pronuncia dei giudici di merito specificando, preliminarmente, che in tema di licenziamento per giusta causa, la valutazione della gravità della condotta del dipendente e della proporzionalità dell'eventuale sanzione rientri nell'attività di valutazione del giudice di merito. La Corte ribadisce, poi, l'orientamento secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente durante lo stato di malattia configuri una violazione degli obblighi di diligenza, fedeltà e dei doveri di correttezza e buona fede. E ciò sia quando la condotta del dipendente, essendo incompatibile con lo stato morboso dichiarato, lasci presumere l'inesistenza della malattia stessa, sia quando l'esecuzione di una tale attività possa pregiudicarne o ritardarne la guarigione e, quindi, il rientro in servizio. OSSERVAZIONI Compatibilità tra la malattia e lo svolgimento di un'attività lavorativa. La Corte di cassazione, nella sentenza in commento, si pronuncia nuovamente sul tema dello svolgimento, da parte di un dipendente assente per malattia, di attività lavorativa in favore di terzi. Sul punto, ricordiamo che, per assunto giurisprudenziale ormai consolidato, il dipendente assente per malattia che venga sorpreso a svolgere attività lavorativa presso terzi ha l'onere di provare la compatibilità dell'attività svolta con la malattia e, quindi, l'inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative (Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916). Il giudizio sulla possibilità che un soggetto in malattia venga giudicato in grado di svolgere altre attività presume un processo valutativo che deve essere condotto considerando le clausole generali della correttezza e della buona fede, exartt. 1175 e 1375 c.c., che debbono presiedere all'esecuzione del contratto e che, nel rapporto di lavoro, fondano l'obbligo in capo al lavoratore subordinato di tenere, in ogni caso, una condotta che non si riveli lesiva dell'interesse del datore di lavoro all'effettiva esecuzione della prestazione lavorativa e alla pronta ripresa della stessa. Pertanto, lo svolgimento di altra attività nel periodo di sospensione del rapporto di lavoro può costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro nel caso in cui esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza, buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e di fedeltà. In particolare, la violazione dei suddetti obblighi si riscontra quando l'ulteriore attività svolta durante la malattia sia idonea a far presumere l'inesistenza della patologia addotta a sostegno dell'assenza, ovvero, sia tale da pregiudicare o ritardare la guarigione e il conseguente rientro in servizio del dipendente. In tale contesto, sono considerati legittimi gli accertamenti investigativi effettuati dal datore di lavoro per verificare se il lavoratore ammalato svolga contemporaneamente altra attività. La Corte, nella sentenza in commento, ha ribadito tale orientamento, avendo, peraltro, il pregio di specificare che la valutazione di incompatibilità tra l'attività extralavorativa e la natura della patologia dichiarata debba essere effettuata ex ante (e non ex post come richiesto dal ricorrente nel caso di specie), in chiave, quindi, prognostica rispetto alla idoneità potenziale della stessa di pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio del lavoratore. Inoltre, la Corte si è soffermata sul valore probatorio della consulenza medico-legale nell'ambito di tale valutazione. Per i giudici di legittimità, infatti, è perfettamente conforme al principio sopra esposto il percorso logico giuridico seguito dalla Corte di merito che, dopo aver qualificato – proprio per effetto della relazione del CTU – l'attività lavorativa durante il periodo di malattia come potenzialmente idonea a ritardare la guarigione del dipendente, ha ritenuto tale potenzialità pregiudizievole e contrastante con i doveri generali incombenti sul lavoratore. L'attività lavorativa del dipendente a favore della moglie è stata, pertanto, giudicata come «potenzialmente idonea a ritardarne la guarigione, in quanto ripetuta nel periodo di malattia», e, quindi, correttamente posta alla base dell'addebito disciplinare che ha portato l'azienda a comminare il licenziamento. |