Ambiente lavorativo stressogeno: la creazione di illusorie aspettative professionali da parte del datore può rivelarsi fonte di stress lavorativo?

04 Aprile 2024

Una interessante pronuncia del Tribunale di Milano affronta la questione delle aspettative professionali prospettate dal datore di lavoro e successivamente non mantenute, allorché si rivelino fonte di disagio e malessere nel dipendente, offrendo una lettura dell'art. 2087 c.c. in linea con la recente giurisprudenza di legittimità in materia di ambiente di lavoro nocivo e stressogeno.

Il caso

La vicenda in esame muove dalle doglianze presentate dinanzi alla sezione lavoro del Tribunale di Milano da una lavoratrice che, tra le molteplici rivendicazioni, lamentava di essere stata sottoposta a un ambiente lavorativo stressogeno fonte di gravi conseguenze psico-fisiche. In ragione di ciò la ricorrente, addetta alle operazioni di vendita presso la grande distribuzione, impugnava il licenziamento per superamento del periodo di comporto e richiedeva il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.

All'esito di un'approfondita istruttoria la giudice milanese pronunciava quindi sentenza parziale di accertamento della “sussistenza di un illecito contrattuale ai sensi degli artt. 2087 c.c., 1175 e 1375 c.c., nonché del d.lgs. 81/2008, concretizzatosi nelle disfunzioni lavorative e nelle condotte perpetrate nei confronti della lavoratrice, in particolare rilevando:   

- l'esistenza di un ambiente aziendale caratterizzato da forti problematiche organizzative, soprattutto con riferimento

i) all'assegnazione e

ii) alla modifica dei turni. Più precisamente, con riguardo all'assegnazione dei turni la giudice censura l'adibizione quasi esclusiva al turno serale o di chiusura, considerato più disagevole e pericoloso (nonostante le richieste della lavoratrice di alternanza con il turno della mattina). Quanto invece alla variazione dei turni, la sentenza sottolinea l'irritualità dei continui e repentini cambi di turno e di orario a fronte di un limitato preavviso;

- la ripetuta e non mantenuta promessa del titolare dell'azienda alla lavoratrice di sottoporla a un percorso di formazione finalizzato alla sua promozione a responsabile del “reparto freschi”. In questo caso, la formazione era soltanto parzialmente eseguita per poi venire successivamente interrotta dal datore di lavoro, che non dava più seguito al progetto prospettato, in questo modo creando “una ragionevole aspettativa in capo alla ricorrente di ottenere la suddetta mansione causandole un forte disagio una volta svanita tale opportunità”;

- i comportamenti tenuti dal direttore nei confronti della ricorrente, esposta in diverse occasioni a

i) rimproveri riguardanti la materiale esecuzione dei compiti affidati;

ii) al conferimento di incarichi dequalificanti rispetto alle ordinarie mansioni svolte;

iii) a un controllo minuzioso e pressante.

Siamo di fronte a un caso peculiare in cui a comportamenti chiaramente inadempienti (dequalificazione, variazione dei turni senza adeguato preavviso), si sovrappongono condotte apparentemente “neutre” (controllo minuzioso e pressante, mancata promozione precedentemente promessa) o addirittura lecite (assegnazione a uno specifico turno lavorativo). 

I principi di diritto

La decisione del Tribunale di Milano richiama l'ampia e ormai consolidata giurisprudenza in materia di stress lavorativo che, da quasi un biennio, è oggetto di analisi su questo portale (si vedano sul tema:  D. Tambasco,  A. Rosiello, Il danno da stress lavorativo: una categoria “polifunzionale” all'orizzonte?; D. Tambasco, Il mancato autocontrollo del lavoratore causato da un ambiente stressogeno non integra il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo; A. Bighelli, Lo stress lavorativo: ovvero “l'insostenibile leggerezza dell'essere” di una categoria in via di formazione; A. Bighelli, Lo stress lavoro-correlato, il mobbing, lo straining: la Corte di Cassazione rinnova la contesa tra istituti; D. Tambasco, Stress lavoro correlato: responsabilità datoriale per condotte vessatorie episodiche o mancanza di serenità dell'ambiente di lavoro; D. Tambasco, A. Rosiello, Ambiente di lavoro obiettivamente "stressogeno" e responsabilità datoriale: gli ultimi approdi della giurisprudenza di merito e di legittimità; D. Tambasco, A. Rosiello, Condotte persecutorie e stress lavoro-correlato: la nuova concezione sistemica della Cassazione).

Viene in rilievo in particolare la nozione costituzionalmente orientata dell'obbligo di protezione di cui all'art. 2087 c.c., nel cui ampio perimetro rientra anche l'obbligo di valutare e accertare l'eventuale responsabilità della condotta datoriale che colposamente consenta il mantenersi di un ambiente di lavoro stressogeno fonte di danno alla salute” (cfr. Cass., 11 novembre 2022, n. 33428; analogamente, cfr. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822; Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279).

Si tratta di una prospettiva totalmente nuova rispetto a quella invalsa per oltre un ventennio in materia di condotte vessatorie (con particolare riferimento al mobbing), essendo rivolta all'analisi obiettiva dei fattori organizzativi e ambientali attraverso la “norma di chiusura” dell'art. 2087 c.c., che consente di tradurre la responsabilità del datore di lavoro per le condotte lesive della personalità morale del prestatore anche nel mantenimento di condizioni di lavoro stressogene (cfr. Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084 che parla di “contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia”).

Siamo dinanzi a un orientamento che, come ribadito anche di recente, è ormai diretto “ad ampliare la tutela risarcitoria in favore del lavoratore, condannando tutti quei comportamenti datoriali idonei a creare un ambiente lavorativo “stressogeno” e lesivo della salute e della dignità del lavoratore, quali beni primari tutelati dalla Costituzione” (cfr. Corte dei Conti Trentino-Alto Adige, sez. giurisd., 16 gennaio 2024, n. 1).

Le conseguenze pratiche di questo autentico “cambio di paradigma” sono evidenti, considerato che nello scrutinio del giudice rileveranno “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (cfr. Cass. 31 gennaio 2024, n. 2870; Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692; ROSIELLO, TAMBASCO, Lo SLC nella giurisprudenza di legittimità: nuovi sviluppi, in Igiene & sicurezza sul lavoro, 5/2023, p. 247 e ss.).

Se operiamo un raffronto con il caso di specie, possiamo notare un'assoluta consonanza rispetto al principio forgiato dal diritto vivente: anche condotte in sé non illegittime quali possono essere il pressante controllo datoriale, la delusione di un'aspettativa di carriera precedentemente prospettata o l'assegnazione a un turno lavorativo non gradito dal dipendente, se inserite in un contesto ambientale nocivo e stressogeno possono acquisire una differente qualificazione giuridica in termini di illiceità.

Quello che fino a poco tempo fa era il proprium della fattispecie giurisprudenziale del mobbing  (1), oggi è direttamente traslato nell'orbita dello stress lavorativo, con una netta e sostanziale differenza: la perdita dell'intenzionalità persecutoria. In questa nuova impostazione, infatti, assume un ruolo centrale non più la condotta “scientemente attuata dal mobber, bensì la colpevole inerzia datoriale.  Siamo di fronte a un vero e proprio “salto quantico” (2), che sembra aprire le porte ad una responsabilità datoriale quasi oggettiva.

Sembra, ma non è così.

È la stessa law in action che, affermato il principio cardine, ne definisce rigorosamente anche i limiti. Infatti, si resta al di fuori della responsabilità contrattuale laddove i pregiudizi derivino dalla

i) natura intrinsecamente e inevitabilmente pericolosa o usurante dell'ordinaria prestazione lavorativa (cfr. Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028; Cass. 25 gennaio 2021, n. 1059) o

ii) tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. S.U., 11 novembre 2008, n. 26972). 

Decisivo, in questo nuovo assetto delineato dalla giurisprudenza di legittimità, sarà quindi il concreto e prudente apprezzamento dei fatti (e delle prove) che è l'essenza del potere discrezionale del giudice di merito. Argomento, questo, che si connette direttamente al tema dell'obbligo di protezione previsto a carico del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. quale specifica concretizzazione, nella materia lavoristica, della clausola generale di correttezza e buona fede di cui agli art. 1175 c.c.e 1375 c.c. (3) che, in quanto tale, “accentua il potere creativo della giurisprudenza nell'esercizio della propria funzione ermeneutica”, consentendo al giudice di realizzare “un costante adeguamento del rapporto giuridico […] alla mutevole realtà socio-economica, intervenendo con operazioni di integrazione o di riduzione sul cd. piano delle obbligazioni contrattuali(cfr. MAZZAMUTO, Il mobbing, Milano, 2004, p. 25). 

Sarà quindi difficilmente censurabile, se congruamente motivata, la valutazione del giudice di merito relativa alla sussistenza - o meno - di una condizione lavorativa stressogena e all'eventuale responsabilità datoriale.  

Stress lavorativo e illusorie aspettative professionali

La pronuncia in commento è di particolare interesse anche per la soluzione approntata a una questione peculiare e tuttavia non inedita nella giurisprudenza di merito (cfr. Trib. La Spezia, sez. lav., 26 giugno 2019, n. 199); si fa riferimento al tema delle aspettative professionali prospettate dal datore di lavoro e successivamente non mantenute, allorché si rivelino fonte di disagio e malessere nel dipendente.

Il Tribunale di Milano riconosce che la promessa ripetuta e non onorata dal datore di lavoro non lo vincola ad assegnare la lavoratrice alla mansione promessa, “potendo scegliere il dipendente più confacente all'incarico”. Considerata in sé e quindi avulsa dal contesto complessivo, configura certamente una condotta datoriale lecita.

Se tuttavia variamo l'angolo visuale, e riguardiamo questa condotta in un sistema concreto di relazioni lavorative in cui si assommano

i) la mancata predeterminazione dell'orario lavorativo e la sua variabilità senza un preavviso minimo,

ii) la pressoché costante adibizione al disagevole e pericoloso turno serale,

iii) la dequalificazione professionale nonché

iv) l'attuazione di modalità di controllo pressanti e oppressive, il quadro cambia radicalmente.

L'illusoria aspettativa professionale, se osservata in un'ottica complessiva (“complessivamente idonei a configurare è l'espressione utilizzata nelle pronuncia in commento), interagisce acquisendo - in una sorta di “sovrapposizione quantistica”- una diversa proprietà, che è quella dell'elemento sintomatico di una disfunzione organizzativa datoriale, ovverosia “di un illecito contrattuale del datore di lavoro, ai sensi degli art. 2087 c.c., 1175 e 1375 c.c., nonché del d.lgs. 81/2008, violativo del dovere di protezione e del rispetto della personalità morale del lavoratore”.

Lo stesso metodo di analisi, come accennato, è stato utilizzato in un caso analogo affrontato dal Tribunale di La Spezia, sez. lav. che, con sentenza del 26 giugno 2019, n. 199, ha accertato la responsabilità del datore di lavoro per la “delusione che il ricorrente ebbe a provare quando si rese conto che, a fronte della sua dedizione all'azienda non vi era, dall'altra parte, altrettanta considerazione” (nel caso di specie la “delusione” era stata causata dalla mancata conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, dopo anni di continue proroghe del termine di scadenza). Anche in questa vicenda, decisivo per la qualificazione giuridica in termini di inadempimento si è rivelato il contesto di illiceità dell'ambiente lavorativo (4), connotato dall'esposizione pregressa al superlavoro e dall'adibizione del dipendente a mansioni dequalificanti.

Note

(1) Cfr. Trib. Brescia, 3 settembre 2020, n. 154, secondo cui “l'utilità della figura del mobbing è quella di consentire, allora, uno sguardo teleologico di condotte disparate, stringendole in unità e facendone così emergere la complessiva illiceità, anche quando tale illiceità non sarebbe stata predicabile all'esito di una valutazione separata, atomistica e statica dei singoli comportamenti. Quel che il mobbing consente è, dunque, di legare insieme condotte che possono essere tipologicamente diverse, mediante una loro lettura dinamico-diacronica”. Nello stesso senso, cfr. C. Cost., 19 dicembre 2003, n. 359.

(2) Per una chiara e coinvolgente descrizione del fenomeno dei quanti, per larghi tratti ancora misterioso, si veda ROVELLI, Helgoland, Milano, 2020.

(3) Sulla buona fede quale abbandono dell'idea romanistica dell'obbligazione quale rapporto lineare “ai cui estremi si collocano il debito e il credito, a vantaggio di una configurazione in termini di rapporto complesso, ove attorno alla prestazione principale si coagula una costellazione di obblighi di natura accessoria, la cui finalità è di assicurare la piena realizzazione di tutti gli interessi per il soddisfacimento dei quali il vincolo è sorto o che comunque a tale vincolo si ricollegano”, cfr. MAZZAMUTO, Il mobbing, Milano, 2004, p. 24. In questa prospettiva gli obblighi di protezione rappresentano “una delle ipotesi di concretizzazione del principio di buona fede e onerano debitore e creditore del compito di impedire che nel corso ed a causa dell'esecuzione del rapporto obbligatorio si producano reciprocamente danni alla persona o alle cose della controparte”, MAZZAMUTO, Il mobbing, cit., p. 24.

(3) La pronuncia del giudice spezzino, pur utilizzando analoghe argomentazioni e giungendo alla medesima conclusione del Tribunale di Milano, adotta tuttavia un lessico differente facendo riferimento ad un contesto di illiceità e non a un ambiente lavorativo nocivo e stressogeno.