La Consulta sui rapporti fra archiviazione per prescrizione e presunzione di non colpevolezza
05 Aprile 2024
Massima È costituzionalmente legittima, sotto il profilo della conformità agli artt. 3, 24, comma 2, e 111, commi 2 e 3, Cost., la disciplina prevista dall'art. 411, comma 1-bis, c.p.p., nella parte in cui non prevede che, in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il pubblico ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, analogamente a quanto previsto per l'ipotesi di archiviazione richiesta per particolare tenuità del fatto, con conseguente nullità del decreto di archiviazione emesso in mancanza del predetto avviso e sua reclamabilità dinanzi al Tribunale in composizione monocratica. Un provvedimento di archiviazione per prescrizione del reato che contenga apprezzamenti sulla colpevolezza della persona indagata viola in maniera eclatante il suo diritto costituzionale di difesa e il suo diritto al contraddittorio, oltre che il principio della presunzione di non colpevolezza. Il caso Tizio veniva indagato per corruzione in atti giudiziari relativamente a fatti commessi negli anni 2010 e 2011. Il 28.09.2021 il Pubblico Ministero richiedeva al Giudice per le indagini preliminari l'archiviazione del procedimento per intervenuta prescrizione. Tuttavia, il Pubblico Ministero non si limitava a rilevare l'estinzione del reato, ma osservava come la ricostruzione del denunciante fosse suffragata da «molteplici elementi di riscontro documentali» che elencava puntualmente. Nel decreto di archiviazione, il Giudice richiamava le ragioni esposte dal Pubblico Ministero. Conformemente alle disposizioni dell'art. 411, comma 1-bis, c.p.p., la richiesta di archiviazione non veniva comunicata all'indagato, così come il successivo decreto di archiviazione. Tizio apprendeva per altre vie della chiusura del procedimento ed essendo intenzionato a difendersi nel merito proponeva reclamo al Tribunale, ai sensi dell'art. 410-bis c.p.p., per violazione del principio del contraddittorio. Il Tribunale, non essendo previsto alcun avviso nel caso in cui l'archiviazione sia stata richiesta per intervenuta prescrizione del reato, avrebbe dovuto rigettare il reclamo, stante il principio di tassatività delle nullità. Tuttavia, venivano ravvisate alcune criticità nella disciplina vigente che inducevano a sollevare un'incidente di costituzionalità. In primo luogo, ad avviso del giudice a quo, tale omissione violerebbe il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost, creando un'irragionevole disparità di trattamento tra l'imputato – che ha sempre la possibilità di esercitare il proprio diritto a rinunciare alla prescrizione – e l'indagato, che potrebbe essere rimasto ignaro dell'esito delle indagini. La disparità di trattamento sussisterebbe anche rispetto alla situazione dell'indagato nei cui confronti venga richiesta l'archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, il quale deve essere avvisato di tale richiesta e vi si può opporre al fine di ottenere un'archiviazione con formula più liberatoria ed evitare l'iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale. La disciplina in esame risulterebbe, altresì, incompatibile con l'art. 24, comma 2, Cost., in quanto il diritto di rinunciare alla prescrizione, come rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 275/1990, costituisce parte integrante del diritto di difesa. Infine, sarebbe vulnerato il principio del contradditorio di cui all'art. 111, commi 2 e 3, Cost., poiché risulterebbe leso il diritto dell'indagato di difendersi contro gli addebiti a lui rivolti. La questione era rilevante nel caso di specie, perché, laddove la Corte costituzionale avesse ritenuto illegittima la mancata previsione di un dovere di avvisare l'indagato anche nel caso di richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione, il reclamo presentato da Tizio avrebbe dovuto essere accolto con conseguente annullamento del provvedimento di archiviazione. Per le ragioni sin qua esposte, il Tribunale di Lecce, con ordinanza del 21 novembre 2022, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 411 comma 1-bis c.p.p. con riferimento agli artt. 3, 24 comma 2 e 111 commi 2 e 3 Cost. «nella parte in cui non prevede che, anche in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il pubblico ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, estendendo a tale ipotesi la medesima disciplina prevista per il caso di archiviazione emesso in mancanza del predetto avviso e della sua reclamabilità dinanzi al Tribunale in composizione monocratica». La questione La questione rimessa alla Corte costituzione è la seguente: è costituzionalmente legittimo il comma 1-bis dell'art. 411 c.p.p., nella parte in cui non prevede che, anche in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il Pubblico Ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini? Sottesa a tale questione vi è quella relativa alla possibilità per l'indagato di rinunciare alla prescrizione, analogamente a quanto espressamente previsto per l'imputato. Le soluzioni giuridiche 1. Solo l'imputato ha diritto di rinunciare alla prescrizione. Il giudice a quo ritiene che il diritto di rinunciare alla prescrizione (e, quindi, di ottenere un giudizio sul merito dei fatti) spetterebbe non solo all'imputato ma anche all'indagato. Tale diritto discenderebbe dal diritto di difesa (art. 24, comma 2, Cost.), nella sua declinazione più specifica del diritto al contraddittorio (111, commi 2 e 3, Cost.), che garantirebbe alla persona sottoposta alle indagini di poter sempre ottenere una “verifica di merito” sulla notitia criminis che ha dato luogo alle indagini preliminari. La Corte costituzionale non condivide tale ragionamento. Il diritto costituzionale dell'imputato di rinunciare alla prescrizione è stato riconosciuto, dapprima, dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 275 del 1990, che ha dichiarato illegittimo l'art. 157 c.p., nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere rinunciata dall'imputato. In seguito, il legislatore, recependo il dictum della Consulta, ha stabilito, al comma 7 dell'art. 157 c.p., che «la prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall'imputato». Tale diritto, ad avviso dei Giudici delle leggi, non può estendersi alla fase precedente all'esercizio dell'azione penale. In primo luogo, è lo stesso legislatore che, all'art. 157 c.p., ha fatto espresso richiamo alla posizione dell'imputato. Il dato letterale non può essere superato tramite la clausola estensiva di cui all'art. 61 c.p.p., perché la prescrizione è pacificamente un istituto di natura sostanziale, mentre tale articolo detta una regola processuale che non può trovare applicazione con riferimento alle regole dettate dal codice penale. In secondo luogo, la Corte costituzionale, con le sentenze n. 175 del 1971 e n. 275 del 1990, ha riconosciuto il diritto di rinunciare, rispettivamente, all'amnistia e alla prescrizione solo all'imputato, e non anche all'indagato. La Consulta individua la ratio di tali pronunce nella necessità di consentire all'imputato di tutelare il proprio onore e la propria reputazione contro il pregiudizio rappresentato da un'accusa formalizzata nei suoi confronti attraverso l'imputazione. In tal caso, l'imputato deve essere messo in condizione di “difendersi provando”, ossia di contestare le prove poste a fondamento dell'accusa o comunque di addurre in giudizio prove a suo favore. Pertanto, deve escludersi il diritto dell'indagato di rinunciare alla prescrizione, in quanto l'iscrizione nel registro delle notizie di reato è – e deve essere considerata – un atto neutro: l'iscrizione non equivale a un'accusa e, dunque, da essa non possono discendere effetti lesivi della reputazione. In altri termini, il diritto di “difendersi provando” nasce con l'esercizio dell'azione penale da parte del Pubblico Ministero e vive nel processo; prima di tale momento, ossia nella fase delle indagini preliminari, non può rinvenirsi il diritto suddetto poiché in tale fase non c'è nessuna accusa contro cui difendersi. Pertanto, l'indagato – a differenza dell'imputato – non ha diritto di rinunciare alla prescrizione e ciò si giustifica proprio in ragione della loro differente situazione: il primo è attinto da una mera notitia criminis, ossia un atto neutro dal quale non può e non deve discendere un effetto pregiudizievole, il secondo, invece, è accusato formalmente della commissione di un reato in un processo in cui potranno dispiegarsi pienamente i suoi diritti difensivi. Così come l'iscrizione, anche il provvedimento di archiviazione con cui il giudice dispone la chiusura delle indagini è un atto neutro. Dunque, non sussiste nemmeno in questo caso una disparità di trattamento tra l'ipotesi in cui l'archiviazione è richiesta per particolare tenuità del fatto e quella in cui è richiesta per intervenuta prescrizione: nel primo caso l'indagato ha diritto di essere informato della richiesta di archiviazione, in quanto ad essa potrà seguire un provvedimento soltanto parzialmente liberatorio (in cui si dà atto che il fatto di reato è stato commesso dall'indagato, che tuttavia non è punibile) e che sarà iscrivibile nel casellario giudiziale. Il provvedimento di archiviazione per prescrizione è, invece, un atto neutro, perché non contiene, e non deve contenere, accertamenti sulla commissione del fatto da parte dell'indagato e non viene iscritto nel casellario giudiziale. In esso il giudice deve limitarsi a ricostruire il fatto nei termini strettamente necessari a verificare l'avvenuto decorso del termine di prescrizione. 2. Solo l'indagato attinto da misure limitative dei propri diritti fondamentali ha diritto di rinunciare alla prescrizione. La Corte costituzionale ritiene che un diritto a rinunciare alla prescrizione possa essere riconosciuto anche all'indagato solo se egli è stato attinto da misure limitative dei propri diritti fondamentali, subendo un pregiudizio rilevante per effetto dell'uso dei poteri coercitivi da parte dell'autorità giudiziaria. Peraltro, già la Corte di cassazione, con la sentenza n. 26289 del 2018, aveva riconosciuto un interesse concreto a rinunciare alla prescrizione in capo a chi avesse subito un periodo di custodia cautelare. Anche in questo caso, comunque, la Consulta non ritiene necessario prevedere un obbligo di avviso relativo alla richiesta di archiviazione per prescrizione, in quanto l'indagato ha avuto conoscenza delle indagini nel momento in cui gli è stata applicata la misura coercitiva. Va detto che l'eccezione in esame è coerente con la previsione di cui all'art. 110-quater disp. att. c.p.p., secondo il quale, «fermo quanto previsto dall'art. 335-bis c.p.p., le disposizioni da cui derivano effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa per la persona sottoposta a indagini devono intendersi nel senso che esse si applichino comunque alla persona nei cui confronti è stata emessa una misura cautelare personale o è stata esercitata l'azione penale». In tal modo l'art. 335-bis c.p.p. finisce per rivestire una valenza integrativa di tutte le disposizioni, già presenti nell'ordinamento, che riconnettono alla qualità di indagato effetti pregiudizievoli di tipo amministrativo o civile, limitandone l'applicazione ai soli casi in cui sia stata adottata una misura cautelare o sia stata esercitata l'azione penale. 3. Sulla neutralità della richiesta e del provvedimento di archiviazione. L'indagato, al di fuori dell'eccezione indicata al paragrafo precedente, non ha diritto a rinunciare alla prescrizione, né ad essere avvisato della richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione. Come detto, tale assunto si basa sulla neutralità degli atti della filiera che porta alla chiusura del procedimento: iscrizione, richiesta di archiviazione e decreto di archiviazione. Qualora sia rispettato il carattere di neutralità dei provvedimenti suddetti, ma l'indagato si ritenga comunque leso nell'onore e nella reputazione, questi potrà avvalersi di rimedi quali, in sede penale, la denuncia/querela per calunnia o diffamazione oppure, in sede civile, l'azione aquiliana. Se, invece, la richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione e il relativo provvedimento di accoglimento esprimano indebitamente anche valutazioni sulla colpevolezza della persona sottoposta ad indagine, allora essi potrebbero dare luogo a una responsabilità civile e disciplinare del magistrato che ha richiesto o emesso il provvedimento. In particolare, la Corte precisa che le richieste e i decreti di archiviazione che non si limitano a ricostruire il fatto nei termini strettamente necessari a verificare l'avvenuto decorso del termine di prescrizione, ma vanno oltre, esprimendo giudizi sulla responsabilità dell'interessato (come quello oggetto della vicenda), “violano in maniera eclatante”, oltre che la presunzione di non colpevolezza ex art. 27, comma 2, Cost., anche il diritto di difesa. Inoltre, in questo caso l'indagato potrà avvalersi dell'art. 115-bis c.p.p.(introdotto dall'art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 188/2021). Quest'ultimo rappresenta un rimedio effettivo contro ogni eventuale violazione, da parte dell'autorità giudiziaria, del diritto fondamentale della persona indagata a non essere presentata come colpevole ed è proprio questo rimedio che rende l'art. 411, comma 1-bis, c.p.p. costituzionalmente legittimo. La Corte osserva, infatti, che «il mancato riconoscimento alla persona sottoposta alle indagini di un diritto a provocare un accertamento negativo della notitia criminis nell'ambito di un giudizio penale non è costituzionalmente illegittimo soltanto in quanto l'ordinamento sia in grado – per altra via – di assicurare un rimedio effettivo contro ogni eventuale violazione, da parte dell'autorità giudiziaria, del diritto fondamentale della persona medesima a non essere presentata come colpevole senza avere potuto difendersi e presentare prove a proprio discarico». Osservazioni La presunzione di non colpevolezza rappresenta, nel ragionamento della Corte costituzionale, il presupposto da cui partire e, allo stesso tempo, il fine ultimo da preservare. Infatti, in forza di tale principio, l'iscrizione della notitia criminis e i provvedimenti di archiviazione sono ritenuti atti neutri. Va detto che il giudizio di neutralità è stato espresso dalla Corte solo con riferimento al decreto di archiviazione per intervenuta prescrizione, che si colloca all'esito della fase investigativa, dove non vi è un'accusa formalizzata in un'imputazione e non è previsto alcun contraddittorio. Diverso è il caso della sentenza di improcedibilità adottata per la medesima causa, che si colloca all'esito di un contraddittorio nel quale l'imputato, accusato di un reato, ha potuto esercitare il suo diritto di “difendersi provando”. Dunque, secondo l'impostazione della Corte, è del tutto fisiologico che una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione esprima anche valutazioni sulla colpevolezza della persona sottoposta ad indagine, mentre lo stesso non può dirsi per un provvedimento di archiviazione, nel quale tali valutazioni risulterebbero lesive del principio di non colpevolezza. D'altra parte, proprio al fine di aumentare le garanzie dell'indagato e preservare il principio sancito dall'art. 27, comma 2, Cost., il legislatore ha introdotto alcune modifiche normative. L'art. 335-bis c.p.p., aggiunto dal d.lgs. n. 150/2022, scongiura la possibilità che la sola iscrizione di un soggetto nel registro ex art. 335 c.p.p. possa pregiudicarlo in sede civile o amministrativa (si pensi, solo per citarne alcune, alle gare o ai concorsi pubblici). La finalità della norma si radica nell'evidente proposito garantista di tutelare la persona indagata dagli effetti in malam partem previsti da norme extrapenali. Il limite all'efficacia della mera iscrizione costituisce diretta attuazione della presunzione di non colpevolezza ex art. 27, comma 2, Cost., nonché, sotto il profilo sovranazionale, dell'art. 6, § 2, CEDU. A specifica tutela del principio di non colpevolezza, il d.lgs. n. 188/2021 ha introdotto l'art. 115-bis c.p.p. In base al primo comma, nel decreto di archiviazione, in quanto provvedimento che non decide in merito alla responsabilità penale dell'imputato, la persona sottoposta alle indagini non può essere indicata come colpevole. Il terzo comma prevede che, in caso di violazione di tale disposizione, l'interessato può, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento, richiederne la correzione, ma solo «quando è necessario per salvaguardare la presunzione di innocenza nel processo». Oltre ai rimedi già individuati dalla Consulta al fine di tutelare l'onore e la reputazione dell'indagato (denuncia-querela e azione aquiliana), è opportuno richiamare anche il diritto all'oblio, ossia la legittima aspettativa della persona coinvolta in un procedimento penale ad essere dimenticata dall'opinione pubblica e rimossa dalla memoria collettiva. In base all'art. 64-ter disp. att. c.p.p. (inserito dall'art. 41, comma 1, lett. h), d.lgs. 150/2022), la persona nei cui confronti è stato pronunciato un provvedimento di archiviazione può richiedere che sia preclusa l'indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, sulla rete internet, dei dati personali riportati nel provvedimento. Ciò detto, il ragionamento della Consulta presenta alcune zone d'ombre, che forse avrebbero meritato una riflessione maggiore e un più intenso sforzo motivazionale. In primo luogo, non convince la lettura offerta dell'art. 61 c.p.p. come norma operante esclusivamente nel settore processualistico. La disposizione in esame ha lo scopo di estendere alla persona sottoposta alle indagini tutte le norme di favore dettate per l'imputato, senza distinzione di sorta. Sfugge l'argomento che ha portato i giudici delle leggi ad escludere dall'effetto estintivo le norme sostanziali. Va detto che la giurisprudenza di legittimità, facendo leva sulla previsione di cui al capoverso dell'art. 61 c.p.p., ha esteso in pejus disposizioni sostanziali, equiparando l'indagato all'imputato ai fini della configurabilità tanto del reato di corruzione in atti giudiziari ex art. 319-ter c.p. (Cass. pen., sez. VI, 11 dicembre 2008-5 marzo 2009, n. 10026, Rv. 243058), quanto del reato di false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all'autorità giudiziaria di cui all'art. 374-bis c.p. (Cass. pen., sez. VI, 9 ottobre 2017-13 ottobre 2014, n. 42767, Rv. 260100). Se l'estensione è stata ritenuta possibile per norme sostanziali sfavorevoli, non si vede perché, nella prospettiva fatta propria dalla Corte di Cassazione, altrettanto non possa avvenire per le disposizioni di favore. In secondo luogo, non convince del tutto l'idea che il giudice debba limitarsi a ricostruire il fatto nei termini strettamente necessari a verificare l'avvenuto decorso del termine di prescrizione. Invero, non sempre è possibile distinguere nettamente i profili attinenti alla ricostruzione del fatto rispetto a quelli relativi alla colpevolezza dell'indagato (si pensi, ad esempio, a richieste composite, ossia basate su più ragioni concorrenti). Inoltre, la prescrizione, in quanto causa di estinzione del reato, presuppone logicamente la sussistenza della fattispecie criminosa. Se le indagini hanno accertato che il reato ipotizzato non sussiste o non è stato commesso dall'imputato, l'archiviazione dovrà essere richiesta, e disposta, per tale causa. Solo in caso contrario potrà essere valorizzato il decorso del termine prescrizionale. Dunque, salvo che le indagini siano incomplete perché interrotte dallo spirare del termine di prescrizione, negli altri casi il provvedimento di archiviazione che rilevi la causa estintiva implica la sussistenza del reato per il quale la stessa opera. Infine, suscita perplessità la prospettiva secondo cui all'indagato possa essere negato il diritto di provocare un vaglio sulla fondatezza della notitia crimins, a condizione che altri strumenti, estranei alla procedura di archiviazione, siano in grado di fronteggiare adeguatamente il pregiudizio che l'atto può arrecare all'indagato. Non si comprende perché una tale tutela non possa trovare espressione anche all'interno della procedura di archiviazione. In questa prospettiva, l'indagato, debitamente informato, potrebbe opporsi alla richiesta di inazione fornendo argomenti a sostegno dell'infondatezza della notizia di reato per ottenere un'ordinanza di archiviazione con formula pienamente liberatoria, analogamente a quanto già avviene per la richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto. Va, invece, sicuramente escluso che l'indagato possa ottenere un esercizio forzoso dell'azione penale per instaurare un processo votato solo ad accertare la sua innocenza. Per concludere, deve rilevarsi che i primi commentatori hanno stigmatizzato l'affermazione della Corte secondo cui il diritto di difesa sarebbe esercitabile solo dopo l'esercizio dell'azione penale. Tale affermazione è ritenuta in contrasto con l'art. 24 Cost., che riconosce il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento (così Marandola, Prescrizione non rinunciabile in sede d'archiviazione: una discutibile argomentazione conduce ad una dubbia conclusione, in PDP, 28 marzo 2024, la quale osserva che «è questo il vulnus che il giudice delle leggi crea quando condiziona l'esercizio del diritto a far data dalla determinazione ex art. 112 Cost dell'accusa, senza che una presunta ipotesi di reato a suo carico, fatta propria dal pubblico ministero, ancorché sommariamente possa esser contraddetta»). In verità, la Corte non esclude il diritto di difesa tout court nelle indagini preliminari, ma lo declina adattandolo alle peculiarità della fase, che non è deputata ad accertare la responsabilità dell'imputato rispetto ad un'accusa formalizzata, ma ad accertare se è stato commesso un reato e chi ne sia l'autore. In questa prospettiva, all'indagato è consentito svolgere investigazioni difensive e partecipare agli accertamenti del Pubblico Ministero svolgendo un contraddittorio tecnico e investigativo. La peculiare declinazione del diritto di difesa consistente nel diritto di provare la propria innocenza e/o l'infondatezza dell'accusa nasce, invece, solo dopo l'esercizio dell'azione penale, quando il Pubblico Ministero formula l'imputazione e chiede al giudice di pronunciarsi sul merito di tale accusa. In questa impostazione non si scorgono particolari tensioni con l'art. 24 Cost., posto che il diritto di difesa non può essere assolutizzato, ma deve essere conformato in ragione della fase in cui viene esercitato. |