Alla Corte costituzionale l’art. 2641 c.c. per eccessiva severità della misura patrimoniale
04 Aprile 2024
Massima È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 2641, commi 1 e 2, c.c.., nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato, in relazione agli articoli 3,27, commi 1 e 3, 42 e117 Cost., quest'ultimo con riferimento all'articolo 1 del primo Protocollo addizionale alla Cedu, nonché agli articoli 11 e 117 Cost., con riferimento agli articoli 17 e 49, par. 3, Cdfue, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Il caso La sentenza in commento fa riferimento al cd. vicenda della Banca Popolare di Vicenza, ai cui vertici erano contestati numerose irregolarità gestionali, consistite nel sistematico ricorso al sostegno finanziario concesso ai clienti/soci per l'acquisto di azioni proprie sul mercato primario e su quello secondario, accompagnato dal rilascio, in favore degli stessi soci, di lettere con le quali l'istituto assumeva l'impegno a riacquistare le azioni ovvero forniva garanzie di rendimento dei titoli; erano emersi, altresì, storni di interessi autorizzati dagli organi di vertice dell'istituto, funzionali a neutralizzare i costi dei finanziamenti erogati dalla banca e, infine, consistenti investimenti in fondi esteri utilizzati, in parte, per la detenzione indiretta di azioni proprie. Ne seguiva la contestazione ai dirigenti dell'istituto di credito dei reati di aggiotaggio manipolativo ed informativo, di ostacolo alla vigilanza della Banca d'Italia, della BCE e della CONSOB, nonché di falso in prospetto e, quindi, gli illeciti amministrativi contestati alla Banca Popolare di Vicenza ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. In entrambe le decisioni di merito, gli imputati erano condannati per la pressoché totalità delle accuse, ma fra le pronunce di primo e secondo grado si riscontrava una differenza con riferimento alla decisione circa la confisca del profitto dei reati da applicare ai sensi dell'art. 2641 c.c.. In particolare, mentre il Tribunale disponeva nei confronti degli imputati la confisca per equivalente in base alla citata disposizione di cui all'art. 2641, comma 2, c.c., che assoggetta a confisca per equivalente i mezzi impiegati per commettere il reato, ossia, nel caso in esame, le somme di denaro impiegate per la commissione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza, in quanto i finanziamenti erogati dalla banca erano stati funzionali all'illecita alterazione del prezzo delle azioni ed alla creazione dell'artificiosa rappresentazione dell'entità del patrimonio di vigilanza, la Corte di Appello ne disponeva la revoca evidenziando la marcata frizione della disposizione di cui all'art. 2641 c.c. con i principi espressi sia dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 112 del 2019, che dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, secondo i giudici di appello, adottare un provvedimento ablatorio come quello disposto dal Tribunale significava applicare una sanzione manifestamente sproporzionata, oltre che disancorata dal disvalore dell'illecito e dai singoli contributi concorsuali, a causa dell'automaticità del criterio di commisurazione, in aperto contrasto con i principi sanciti dagli artt. 3 e 27, comma 1, Cost., anche considerando che nel caso di specie gli imputati non avevano tratto alcun profitto economicamente valutabile dalla commissione dei reati, avendo operato mediante l'utilizzazione di risorse dell'istituto di credito ed avendo agito nell'interesse esclusivo dello stesso, ancorché radicalmente contrario alle regole di sana e prudente gestione. Va sottolineato – trattandosi di questione la cui rilevanza sarà evidente in seguito – che la Corte di merito ha ritenuto praticabile la strada della revoca della confisca in ossequio a quanto previsto dall'art. 49, § 3, della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea, la quale prevede, per l'appunto, che le pene debbano essere proporzionate rispetto al reato. Non è stata invece proposto l'incidente di costituzionalità ritenendosi lo stesso non necessario alla luce sia della giurisprudenza della Corte costituzionale (in particolare la sentenza n. 30 del 2021), sia in ragione del contenuto della sentenza della Grande Sezione della Corte GUE C-205/20 del 8 marzo 2022, che ha affermato che, qualora le disposizioni nazionali contrastino con il principio di proporzionalità della sanzione, avente valore "imperativo", spetta al giudice nazionale garantire la piena efficacia di tale principio, con la conseguenza che, ove non vi sia spazio per procedere ad un'interpretazione della normativa nazionale conforme a tale requisito, il giudice dovrà disapplicare, di propria iniziativa, le disposizioni nazionali incompatibili con il citato principio, senza che possa ritenersi che tale modus operandi contrasti in né con la certezza del diritto - certamente non compromesso dall'esigenza di adeguare la sanzione ad esigenze di proporzionalità -, né con la legalità della pena, che costituisce un limite invalicabile unicamente a favore del reo. Avverso tale statuizione ricorreva il Procuratore generale, evidenziando che l'art. 2641, comma 2, c.c., prevede la confisca dei beni utilizzati per commettere i reati - nella specie, ravvisati nelle somme di denaro investite nelle operazioni di finanziamento illecito -, senza introdurre correttivi di tipo quantitativo correlati alle peculiarità del caso concreto e la valutazione di eccessività espressa dalla Corte d'appello, che ha ritenuto idonea la pena detentiva prevista dagli art. 2637 e 2638 c.c. “ad esaurire adeguatamente la risposta punitiva”, impediva l'applicazione della confisca, che il legislatore ha costruito come obbligatoria – essendo irrilevante la circostanza, invece valorizzata dalla Corte d'appello, dell'assenza di un profitto individuale, u parametro normativo non previsto da parte dell'art. 2641 c.c. ed estraneo alla natura dell'istituto, che attinge non il profitto, ma i beni utilizzati per commettere i reati. La questione L'art. 2641 c.c. contiene la previsione di una ipotesi speciale di confisca, differente e distante dalla disciplina stabilita dalla misura di sicurezza patrimoniale di cui all'art. 240 c.p., come peraltro dimostrato dal suo carattere obbligatorio e soprattutto dalla sua natura sanzionatoria (FONDAROLI, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale. Ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità delle persone fisiche e giuridiche, Bologna, 2007, 22; MASULLO, sub art. 2641, in PADOVANI (a cura di), Leggi penali complementari, Milano, 2007, 2505). In particolare, tale natura sanzionatoria è attribuita alla confisca per equivalente (ALESSANDRI, La confisca, in ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002, 107; GRASSO, Profili problematici delle nuove forme di confisca, in MAUGERI (a cura di), Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine: reciproco riconoscimento e prospettive di armonizzazione, Milano, 2008, 138). Presupposto di applicazione dell'art. 2641 c.c. è la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei reati tipizzati nel Titolo XI del c.c. Il provvedimento ablativo ha per oggetto il prodotto o il profitto di tale reato, ovvero i beni utilizzati per commetterlo. Si tratta di beni pertinenti al reato che, secondo la disciplina comune di cui all'art. 240 c.p., possono essere oggetto soltanto di ablazione facoltativa; in particolare, il prodotto del reato consiste in ciò che direttamente ed immediatamente risulta dall'esecuzione del reato, ovvero le cose che furono create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato, o che ne sono una sua naturale conseguenza; le cose che servirono alla commissione del reato possono essere intese, sia pure con qualche diversità di sfumatura, non come qualunque cosa in qualche modo utilizzata per la commissione del reato, sia esso delitto o contravvenzione, bensì soltanto quali mezzi collegati a questa da un nesso strumentale, ovvero mezzi senza i quali l'esecuzione non sarebbe avvenuta (oppure sarebbe avvenuta, ma con altre modalità), con esclusione della rilevanza dei beni impiegati in attività meramente prodromiche e preparatorie rispetto alla fase dell'esecuzione: e ciò al fine di evitare che il nesso eziologico tra cosa e reato venga vanificato. Con riferimento al delitto di aggiotaggio societario, secondo la giurisprudenza (Cass. pen., sez. V, 29 novembre 2018, n. 1991; Cass. pen., sez. V, 26 maggio 2017, n. 42778) costituiscono "beni utilizzati per commettere il reato" di cui all'art. 2638 cod. civ., i finanziamenti concessi da un istituto di credito a terzi per l'acquisto di azioni ed obbligazioni dello stesso istituto e finalizzati a rappresentare una realtà economica del patrimonio di vigilanza dell'ente creditizio diversa da quella effettiva, con ostacolo delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. Indubbiamente, l'art. 2641 c.c ., sia con il primo comma, sia con il secondo comma, non introduce alcun parametro di tipo quantitativo correlato alle peculiarità del caso concreto, non richiedendo dunque che il valore dei beni confiscati sia in qualche modo correlato alla gravità del fatto. In particolare, se una tale proporzionalità rispetto alla rilevanza della vicenda è garantito quando la confisca abbia ad oggetto il profitto del reato – posto che, evidentemente, il provvedimento ablatorio non potrà avere ad oggetto beni e valori di importo superiore al beneficio economico ricavato dal reo con l'illecito -, un tale carattere è assolutamente assente quando la confisca si diriga verso le cose utilizzate per la commissione del delitto, il cui valore può essere decisamente maggiore rispetto al profitto ricavato dalla condotta illecita. In senso contrario, Cass., sez. V, 29 novembre 2018, n. 1991, la quale aveva concluso per la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2641, comma 2, c.c., rilevando che “l'indagato aveva compiuto una serie di operazioni su obbligazioni ed azioni della banca sempre al fine di simulare un apprezzamento nel mercato di tali strumenti finanziari, il cui riacquisto veniva invece garantito dal Consoli, in nome della banca. È allora evidente che il disvalore, di rilievo penale, di tali condotte trovi la sua più corretta quantificazione proprio nella misura, complessiva, delle somme in esse impiegate. Una misura che io stesso indagato ha determinato. Quindi, non vi è alcuna sproporzione fra i fatti illeciti compiuti e le somme sottoposte al vincolo, che, anzi, sotto il profilo monetario, coincidono perfettamente”. Sulla necessaria proporzionalità corrente fra reato e sanzione comminata in astratto dal legislatore, la Corte di giustizia Ue, Grande Sezione, 8 marzo 2022, in causa C-205/20 ha affermato che in base all'art. 20 della direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014 le autorità nazionali hanno l'obbligo di disapplicare una normativa nazionale, parte della quale sia contraria al requisito di proporzionalità delle sanzioni, sia pur "nei soli limiti necessari per consentire l'irrogazione di sanzioni proporzionate". Sempre in tema di normativa sovranazionale si ricorda che il regolamento 1805/18 UE, in materia di cooperazione internazionale, al considerando n. 21, nell'art. 1, § 3 e nell'art. 41 stabilisce il necessario rispetto dei principi di necessità e di proporzionalità nell'emettere provvedimento di congelamento o di confisca. Osservazioni La Cassazione ha ritenuto parzialmente fondato il ricorso del Procuratore Generale, ritenendo da un lato che non spettasse al giudice penale provvedere alla disapplicazione dell'art. 2641 c.c., ma dall'altro riconoscendo l'eccessiva severità della risposta sanzionatoria derivante dall'applicazione di questa disposizione che per questa ragione viene denunciata innanzi alla Corte costituzionale. La prima parte della denuncia è dedicata ad illustrare le ragioni per cui nella vicenda de quo potesse procedersi a disporre la confisca ai sensi dell'art. 2641 c.c.. Infatti, secondo i giudici di legittimità, una pluralità di illeciti contestati – diversamente da quanto sostenuto dalle difese - non erano prescritti e quindi nei confronti degli autori degli stessi il procedimento penale doveva proseguire. Inoltre, non era d'ostacolo all'adozione del provvedimento ablatorio la circostanza che ne frattempo l'istituto di credito presso cui avevano operato gli imputati e possibile destinatario del provvedimento di confisca era stato sottoposto alla procedura di liquidazione coatta amministrativa (nel senso che l'avvio della procedura fallimentare non osta all'adozione o alla permanenza, ove già disposto, del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per illeciti penali: Cass., sez. un., 6 ottobre 2023, n. 40797). Fatta questa premessa, la Cassazione evidenzia come il legislatore nazionale, nell'individuare le conseguenze sanzionatorie da applicare in presenza di comportamenti illeciti, sia tenuto a prevedere l'applicazione di sanzioni proporzionate. In questo senso si è pronunciata più volte la Corte EDU (Grande Sezione, 8 marzo 2022, C-205/20) nonché la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 112 del 2019, con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 187-sexies TUF, nel testo originariamente introdotto dall'art. 9, comma 2, lett. a), della legge 18 aprile 2005, n. 62, nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell'illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto, riferita all'aggiotaggio manipolativo quando integra illecito amministrativo). In particolare, secondo la Consulta, solo la confisca del profitto del reato ha una funziona ripristinatoria, mentre la confisca del prodotto o dei beni utilizzati per commettere il reato riveste una natura sanzionatoria-punitiva che può rivelarsi - come nel caso in esame - senza alcun dubbio di gran lunga superiore all'effetto della mera ablazione dell'ingiusto vantaggio economico ricavato dall'illecito. Da qui la conclusione – che peraltro anche il legislatore ha fatto poi propria (cfr. la riforma introdotta con l'art. 26, comma 1, lett. e) l. n. 238/2021, che ha modificato l'art. 187 T.U.F., norma che prevede la confisca in caso di aggiotaggio manipolativo costituente reato, il cui comma 1 è stato riformulato limitando la confisca dei soli beni che costituiscono il profitto del reato, con esclusione della confisca di beni strumentali) – la confisca va limitata al solo profitto derivante da reato, in quanto tale ablazione garantisce appieno la funzione ripristinatoria, dovendosi restringere l'intervento ablatorio connotato da componenti punitivo-sanzionatorie, poiché esso, se fosse esteso al prodotto ed ai mezzi utilizzati per commettere il reato, potrebbe assumere carattere sproporzionato, mentre se si limita la confisca al profitto del reato, si realizza una proporzione sostanzialmente automatica tra il vantaggio scaturente dalla commissione dell'illecito e l'ammontare della confisca, anche per equivalente, senza alcun riverbero sull'entità del trattamento sanzionatorio. Secondo la Cassazione, tali principi – dopo la riforma del 2021 introdotti con riferimento agli illeciti in tema di abusi di mercato - devono essere applicati anche all'art. 2641 c.c., norma che concerne la confisca nel caso di reato di aggiotaggio, come pure nel caso del delitto di ostacolo alla vigilanza, data l'identità della ratio applicativa e della portata di tale disposizione rispetto a quelle presenti nel Testo Unico della Finanza. Infatti, alla luce del principio di proporzionalità sotteso alla dichiarazione di illegittimità costituzionale richiamato dalla citata Corte cost., sent. n. 112 del 2019, emerge che il meccanismo di confisca per equivalente strutturalmente correlato ai beni utilizzati per commettere il reato come presente nell'art. 2621 c.c. è destinato ad operare - al di fuori dei casi dei tradizionali instrumenta sceleris, quando oggetto di confisca sono cose intrinsecamente pericolose se lasciate nella disponibilità del reo – in termini tali da determinare l'applicazione di una risposta sanzionatoria non adeguata alla gravità del fatto. Alla luce di queste considerazioni, secondo il giudice di legittimità, l'attuale formulazione dell'art. 2641 c.c. confligge con plurimi parametri di costituzionale. In particolare, la disposizione del codice civile sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 27, commi 1 e 3: infatti, come osservato da Corte cost., sent. n. 112 del 2019, l'ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore, nell'ambito del diritto penale, quanto alla determinazione delle pene da comminare per ciascun reato, è soggetta ad una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente sproporzionate per eccesso e quindi lesive tanto del principio di uguaglianza che della funzione rieducativa della pena (quando la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata, non tanto in rapporto alle sanzioni previste per altre figure di reato, quanto, piuttosto, in rapporto - direttamente - alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, senza che sia più necessaria l'evocazione di alcuno specifico tertium comparationis, la sanzione viene percepita come ingiuste dal condannato e finisce così per risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione: Corte cost., sent. n. n. 68 del 2012). In secondo luogo, pare non rispettato nemmeno il disposto di cui agli artt. 3 e 42 Cost., poiché la confisca incide in senso limitativo sul diritto di proprietà dell'autore dell'illecito – anche considerando diverse disposizioni delle Carte sovranazionali, come gli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e 17, 49, par. 3, CDFUE). Viene ancora denunciato il contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost., alla luce delle conclusioni raggiunte dalla Corte di giustizia (Corte di giustizia, 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate SA e altri, in causa C- 537/16, par. 56). Siffatta conclusione si giustifica tenendo conto del principio di proporzionalità che informa la disciplina eurounitaria delle misure ablatorie di carattere patrimoniale nel contesto della regolamentazione finalizzata a garantire il riconoscimento reciproco e quindi la circolazione e l'esecuzione delle decisioni delle autorità nazionali. Da ultimo, la Cassazione giustifica per quali ragioni, pur riconoscendo il contrasto fra il disposto di cui all'art. 2641 c.c. con diverse disposizioni sovra nazionali ritiene che il citato articolo anziché essere disapplicato dal giudice nazionale debba essere denunciato innanzi alla Corte costituzionale posto che le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes della Consulta. Tale affermazione è innanzitutto giustificata alla luce del sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell'architettura costituzionale, principio da osservare anche quando la Corte costituzionale sia chiamata a giudicare alla luce (non solo dei parametri interni, ma anche) di quelli europei exartt. 11 e 117 Cost. non foss'altro che per assicurare che le disposizioni sovranazionali siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali. In secondo luogo, l'intervento della Corte costituzionale consente di garantire pienamente il principio di legalità in materia penale, che esige che le norme penali siano determinate e formulate in termini chiari, precisi e stringenti, sia allo scopo di consentire alle persone di comprendere quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale, sia allo scopo di impedire l'arbitrio applicativo del giudice. In altri termini, le esigenze di certezza del diritto penale e quelle correlate di predeterminazione, quantomeno dei criteri di riferimento ai quali il giudice deve attenersi per apprezzare l'esistenza o non (ed eventualmente in che misura) della sproporzione, inducono ad escludere la possibilità di dare un'applicazione, prevedibile negli esiti, del principio di proporzionalità della risposta sanzionatoria, quando ciò possa condurre a non applicare una misura che il legislatore interno prevede come obbligatoria, senza lasciare al giudice interno alcuno spazio di graduazione. Conclusioni L'ordinanza della Cassazione supera un precedente orientamento sostenuto dalla citata Cass., sez. V, 29 novembre 2018, n. 1991. Secondo gli estensori della pronuncia in commento questo revirement si giustifica in ragione delle considerazioni svolte dalla sentenza costituzionale n. 112 del 2019, parimenti sopra citata. Di particolare interesse è la motivazione con cui la Cassazione giustifica la sua scelta di denunciate la questione alla Corte costituzionale, anziché ritenere che il tema della (potenziale non) proporzionalità della sanzione andasse risolto per il tramite di una disapplicazione della disposizione di cui all'art. 2641 cod. civ. da parte dei singoli giudici, quando ritenessero eccessiva la misura ablatoria rispetto alla gravità dei fatti. Nella decisione in epigrafe, infatti, si sostiene che solo la denuncia di costituzionalità, quando accolta, sia in grado di conferire al quadro normativo la necessaria determinatezza e stabilità, posto che la dichiarazione di illegittimità della disposizione priva il giudice di qualsiasi discrezionalità nella definizione della questione; tuttavia, deve registrarsi come, altre sezioni della Cassazione, siano state di diverso avviso. Infatti, nell'ambito della problematica in tema di potenziale inosservanza del divieto di bis in idem conseguente all'applicazione di una duplice sanzione in sede penale ed amministrativa nei confronti di un medesimo soggetto ed in relazione allo stesso fatto illecito, la Cassazione ritiene che, onde evitare la violazione di tale principio, il singolo giudice penale possa modulare (o addirittura escludere) la comminatoria della risposta penale così da adeguare la complessiva reazione dell'ordinamento all'effettiva gravità della condotta contestata. Una tale soluzione, che evidentemente riconosce una rilevante discrezionalità in capo ai singoli giudici, non sarebbe in contrasto con il principio della subordinazione del giudice alla legge, non potendosi invocare “la legalità … per giustificare una preclusione alla conformazione del diritto interno al diritto dell'Unione europea”: richiamando le vicende connesse alla cd. “saga Taricco”, secondo cui l'obbligo di disapplicazione verrebbe meno per il giudice solo ove ciò comporti la violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell'insufficiente determinatezza della legge applicabile o dell'applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato, la Cassazione, con riferimento alla potenziale violazione del ne bis in idem per comminatoria di una duplica sanzione eccessivamente gravosa e non proporzionale all'accaduto, ha escluso una tale criticità in quanto né vi sarebbe applicazione retroattiva di norma penale più severa né e soprattutto le valutazioni in tema di proporzionalità del trattamento sanzionatorio possono considerarsi non sufficientemente determinate (Cass., sez. V, 15 aprile 2019, n. 3999). |