Salario minimo legale: la giusta retribuzione in rapporto a canoni costituzionali, obblighi di compliance e metriche di sostenibilità organizzativa e sociale

11 Aprile 2024

Il “giusto” prezzo del lavoro e, in particolare, l'identificazione dei criteri d'identificazione dell'adeguatezza della retribuzione secondo il canone costituzionale, è un tema complesso e più che mai al centro dell'attenzione politica, sociale e giuridica. Partendo dalla definizione di retribuzione adeguata in base all'elaborazione normativa sostanziale (europea e nazionale) e tecnica e all'ultima evoluzione giurisprudenziale giuslavorista, amministrativa e penale, si intende dimostrare che il tema è centrale nell'attuale organizzazione d'impresa e richiede ormai una visione interdisciplinare alla luce dei sempre più stringenti impegni di trasparenza, compliance e sostenibilità.

Premessa

Il dibattito sull'individuazione della retribuzione adeguata secondo i canoni costituzionali (art. 36 Cost.) e della fonte regolatrice di riferimento è sempre più affollato.

Alla discussione parlamentare, mediata dal CNEL (tramite il documento con gli esiti dell'istruttoria sul lavoro povero e il salario minimo), finalizzata ad individuare una soglia normativa minima salariale, si aggiunge la giurisprudenza recente che, rivendicando il proprio ruolo costituzionale, ha avuto modo di affrontare il tema - in modo autonomo e nomofilattico - da diversi punti di partenza e sotto diverse prospettive. Il minimo comun denominatore è che il “prezzo del lavoro” resta un elemento centrale del dibattito sociale e politico che, lungi dal rimanere confinato in ambito tecnico giuslavoristico, assume, anche in base all'attuale evoluzione del contesto di compliance organizzativa, particolare importanza quale metrica di sostenibilità non solo del contratto e dell'organizzazione del lavoro, ma anche del sistema Paese.

Per cercare di capire, in termini tecnici e prospettici, quale sia l'entità e i termini della questione e intuirne la sua evoluzione può essere utile fare il punto sui principali interventi normativi e giurisprudenziali che, a vario livello e competenza, si sono succeduti negli ultimi mesi.

Il salario minimo costituzionale come corrispettivo proporzionato e sufficiente del lavoro

La cornice di riferimento è quella della retribuzione minima costituzionale le cui caratteristiche sono enunciate nell'art. 36 della Carta costituzionale. Secondo l'interpretazione consolidata di tale norma fondamentale, la nostra Costituzione garantisce al lavoratore due diritti integrati: il diritto ad una retribuzione “proporzionata”, che consiste in “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell'attività prestata”, e il diritto ad una retribuzione “sufficiente”, pari, cioè, ad “una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d'uomo”, ovvero “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (Cass. 24449/2016 richiamata in Cass. 27711/2023).

La predetta interpretazione definitoria non è nuova, come non è nuovo il ricorso, nelle applicazioni pratiche dei casi concreti, ai minimi retributivi stabiliti per ciascuna qualifica dalla contrattazione collettiva (nazionale, territoriale o aziendale secondo Cass. 3218/1998 e Cass. 19467/2007) di categoria quale parametro concreto di riferimento indipendentemente dall'iscrizione, o meno, del datore di lavoro ad una associazione sindacale stipulante (Cass. 21274/2010). Secondo, quindi, la tradizione interpretativa giurisprudenziale, la fonte collettiva costituisce uno strumento idoneo a fornire un'indicazione sociale di salario giusto. Il parametro contrattuale collettivo, però, resta pur sempre dotato di efficacia presuntiva semplice quanto al canone di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza e resta pur sempre soggetto a verifica di adeguatezza in base alla definizione interpretativa costituzionale (Cass. 132/2002; Cass. 7752/2003; Cass. 25889/2008; Cass. 1415/2012; Cass. 12356/2020).

Ed è su tale verifica che la giurisprudenza, di diverso grado e competenza, è recentemente più volte intervenuta affinando e sviluppando argomenti di critica e scostamento dal parametro contrattuale collettivo fino ad arrivarne alla sua disapplicazione.

In tal senso, il più approfondito consolidamento argomentativo è attualmente quello posto dalla Corte di Cassazione con sei sentenze tutte pubblicate nel mese di ottobre 2023 (Cass., 2/10/2023, n. 27711; Cass., 2/10/2023, n. 27713; Cass., 2/10/2023, n. 27769; Cass., 10/10/2023, n. 28320; Cass., 10/10/2023, n. 28321; Cass., 10/10/2023, n. 28323). Con tali pronunce la Suprema Corte, premesso che si tratta di valutazione di merito, dopo ricognizione sistematica della normativa, anche comunitaria, della dottrina e della giurisprudenza sul tema, ha illustrato il percorso accertativo logico-giuridico cui si deve attenere il giudice del merito nel verificare la rispondenza della retribuzione in una determinata fattispecie ai canoni costituzionali. Tale percorso riafferma con maggior definizione la prerogativa del giudice di disapplicare un determinato trattamento retributivo giudicato inadeguato e di individuare i parametri di riferimento per la giusta retribuzione. In particolare, la Corte conclude indica tre principi di diritto cui il giudice di merito si debba attenere nella decisione della lite.

“1.- Nell'attuazione dell'art. 36 Cost., il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall'art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata”.

Il dovere di “disapplicazione” della retribuzione inidonea secondo il canone costituzionale, non riguarda dunque solo la contrattazione collettiva minoritaria (principio già consolidato in relazione ai contratti minori), ma anche quella maggioritaria, estendendosi ad addirittura alla normativa nazionale di fonte primaria laddove quest'ultima identifichi nella contrattazione collettiva (c.d. “contratto leader”) il parametro della giusta retribuzione (è il caso delle norme di rinvio alla contrattazione collettiva previste per i lavoratori di cooperativa dalla Legge 142/2001, D.L. 248/2007, degli enti del Terzo settore dal d.lgs. n. 117/2017, art. 16, comma 1; per il settore del trasporto aereo dal d.l. n. 34/2020, art. 203, comma 1; per i lavori nei contratti pubblici dal d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, contenente il nuovo Codice dei contratti pubblici, adottato in attuazione della l. 21 giugno 2022, n. 78, art. 1). Viene così confermato il superamento dell'orientamento tradizionale secondo cui il compenso parametrato al salario minimo costituzionale del CCNL di riferimento non può che intendersi, nel riferimento costituzionale all'art. 36, a tutte le voci previste dal CCNL di categoria, che solo così costituisce valido parametro per l'individuazione della retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto dal prestatore ed in ogni caso sufficiente ad assicurare allo stesso ed alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa (ancora recentemente, T. Rovigo, sez. lav., 1 settembre 2023, n. 139).

Sotto tale ultimo profilo, la Corte osserva che sostenere che il rinvio ad opera della legge primaria alla retribuzione prevista dal contratto collettivo di diritto comune di riferimento si sottragga al sindacato del giudice e si imponga sempre e comunque, non come paramento esterno di comparazione ex art. 36 Cost., ma come disciplina cogente del rapporto di lavoro, esporrebbe tale tesi e le stesse leggi sopra indicate ad una duplice censura di incostituzionalità: sia sotto il profilo della violazione dell'art. 36 Cost., sia sotto il profilo dell'art. 39 Cost. Non si può, infatti, mai escludere che il trattamento retributivo erogato in forza della contrattazione collettiva possa attestarsi nel caso concreto al di sotto del minimo costituzionale (punti 46 e 47 Cass. 27711/2023).

In definitiva sul tema, conclude la Corte, una legge (come quella in tema di cooperative oggetto del giudizio ed in ogni altro settore) che imponga la determinazione di un salario minimo attraverso la contrattazione deve essere parimenti assoggettata ad una interpretazione conforme agli artt. 36 e 39 Cost. e, quindi, soggetta a valutazione giudiziale di idoneità.

E forse ha avuto in mente proprio questa conclusione della Suprema Corte il legislatore del recentissimo DL 19/2024 pubblicato il 2 marzo 2024 che, nell'introdurre il nuovo comma 1-bis dell'art. 29 del d.lgs. 276/2003, ha adottato una nuova tecnica di rinvio alla contrattazione collettiva. Con tale nuova norma, dichiaratamente emanata per ridurre il fenomeno di dumping salariale negli appalti, si è introdotto l'obbligo di corrispondere al personale impiegato nell'appalto di opere o servizi e nell'eventuale subappalto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato “nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto”. Tale formulazione sembra, a parere di chi scrive, dettata proprio per cercare di superare le argomentazioni riservate della giurisprudenza di legittimità, ma finisce col rendere ancor più complicata l'operazione di individuazione dei riferimenti contrattuali per confrontare la retribuzione dei lavoratori impiegati negli appalti e probabilmente non risolve il tema del necessario sindacato giudiziale.

“2. Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe”.

Corollario del precedente principio è che, disapplicata la retribuzione riconosciuta in una determinata fattispecie sulla base di un determinato contratto collettivo in quando ritenuta inadeguata, nella individuazione della giusta retribuzione, il giudice - tanto più in assenza di contrattazione collettiva con efficacia erga omnes - non è tenuto a valutare l'appartenenza sindacale delle parti ed è libero di discostarsi dai riferimenti retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria e, quindi, può far riferimento, alla retribuzione stabilita da altri contratti collettivi, di settori affini o relativi alle mansioni analoghe a quelle concretamente svolte.

Allineandosi a tali indicazioni si sta pronunciando anche la giurisprudenza di merito, ad esempio, disapplicando il trattamento retributivo previsto dal CCNL per i dipendenti da Istituti e Imprese di Vigilanza Privata - Sezione Servizi Fiduciari in favore di quello previsto dal CCNL per i dipendenti da Proprietari di Fabbricati in un caso di lavoratore con mansioni di addetto all'attività di custodia e sorveglianza, in ragione della prevalenza di tali mansioni (T. Bari, 13 ottobre 2023, n. 2720). Un contrasto su questo tema si registrava, peraltro, prima dell'intervento della giurisprudenza di legittimità (si veda, in rigetto, T. Milano, sez. lav., 6 settembre 2023, n. 2768; in accoglimento App. Milano 5 giugno 2023, n. 653), per quanto vi fosse una preferenza per la più ampia (ma cauta) discrezionalità giudiziale fino alla declaratoria di nullità delle clausole contrattuali collettive: “ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell'art. 1419, comma 2, Cod. civ., il Giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell'art. 36 Cost. con valutazione discrezionale. Ove la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il Giudice è tenuto ad usare tale discrezionalità con la massima prudenza e, comunque, con adeguata motivazione giacché egli difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali” (Trib. Milano, 30 marzo 2023). Staremo a vedere se la rinegoziazione tra le parti sociali del CCNL in questione (attualmente in corso), evidentemente frutto della predetta giurisprudenza e delle vicende che hanno coinvolto alcuni istituti di vigilanza, risolverà la questione.

“3. Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost., il giudice, nell'ambito dei propri poteri ex art. 2099 c.c., comma 2, può fare altresì riferimento, all'occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022”.

La libertà di valutazione del giudice si spinge anche oltre il riferimento sociale alla contrattazione collettiva e può considerare, quali parametri di riferimento, indicatori economici e statistici (come quelli indicati dalla Direttiva UE citata) cui, però, la Corte di Cassazione pone alcuni limiti e precisazioni.

L'indice Istat di povertà assoluta non è, di per sé, indicativo del raggiungimento di una retribuzione giusta ai sensi dell'art. 36 Cost. in quanto i parametri di sufficienza e proporzionalità mirano a garantire un'esistenza non solo non povera ma anche dignitosa (e l'indice di povertà assoluta si basa su dati relativi alla capacità di acquisto immediata di determinati beni essenziali).

Analogamente, non può essere ritenuto esaustivo nemmeno il riferimento all'importo della Naspi o della CIG o del reddito di cittadinanza o il riferimento alla soglia di reddito per l'accesso alla pensione di inabilità civile perché anche questi indicatori si riferiscono a condizioni minime di sussistenza.

D'altro canto, anche la retribuzione per il lavoro straordinario non è parametro utile di riferimento in quanto rappresenta un emolumento eventuale, e non ordinario, del lavoro svolto e in quanto è controintuitivo ammettere che il lavoratore, proprio in ragione della esiguità del salario percepito, sia costretto a svolgere lavoro straordinario per raggiungere una retribuzione adeguata.

Il salario minimo costituzionale come parametro di compliance

Il tema che ci occupa, e il ragionamento logico-giuridico offerto dalla giurisprudenza di legittimità sulla retribuzione di riferimento, non è confinato al dibattito giuslavoristico, ma rappresenta un elemento definitorio e il parametro di controllo anche per l'accertamento di determinate condotte direttamente incidenti sulla compliance aziendale.

Ad esempio, l'art. 603-bis c.p., rubricato “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, è un reato presupposto ai fini della responsabilità governata dal d.lgs. 231/2001 e, quindi, norma di attenzione per la compliance aziendale.

Tale norma penale punisce chiunque recluta per conto terzi o impiega direttamente lavoratori in condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. La norma specificamente prevede, tra gli indici di sfruttamento, “la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.

L'adozione dei criteri interpretativi giuslavoristici ripercorsi nel paragrafo precedente sul diverso piano penale, è emblematicamente rappresentata da Cass. pen., 22 gennaio 2024 n. 2573 con cui la Suprema Corte, nell'ambito di un processo nei confronti dei titolari di un'azienda agricola che aveva impiegato lavoratori extracomunitari con una retribuzione media di euro 3 euro l'ora (per giornate lavorative di 9 ore), ha ritenuto sussistere l'indice dello sfruttamento in considerazione della “macroscopica sproporzione” tra la retribuzione corrisposta e quella prevista dal CCNL di categoria. Inoltre, anche il giudice penale, seguendo il ragionamento della Corte di Cassazione civile, ha precisato che la retribuzione di riferimento per la comparazione - anche ai fini della configurabilità del reato in questione - non coincide sempre e comunque con quella fissata dai contratti collettivi, ma in base al principio di cui all'art. 36 Cost., potrebbe considerare indici differenti. Ciò perché “l'autonomia delle parti sociali non può derogare al principio della retribuzione quale soglia minima di dignità umana e sociale”.

L'individuazione della retribuzione sufficiente e proporzionata secondo i canoni civilistici, anche mediante disapplicazione dei riferimenti contrattuali (individuali e collettivi, ma anche normativi laddove richiamino questi ultimi) diviene, quindi, parametro per la verifica della condotta aziendale – individuale del datore di lavoro, ma anche della società – e della sua compliance sotto il profilo della responsabilità sociale d'impresa. Ne segue che, in ottica di accountability, gli indici individuati dalla giurisprudenza di legittimità civile con le decisioni di ottobre 2023 assumono a criterio di impostazione e verificazione anche della compliance retributiva aziendale.

Il salario minimo costituzionale come misura di riferimento (del costo) dell'organizzazione

La discussione sul bilanciamento dei diritti costituzionali e delle esigenze sociali di libertà imprenditoriale e di tutela dei lavoratori, comun denominatore della materia della riflessione proposta con questo contributo, trova spazio anche nel campo del diritto amministrativo.

La fonte di raccordo di diritto amministrativo è rappresentata dal Codice degli appalti pubblici (d.lgs. 50/2016) il cui combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 97, comma 5, lett. d), prescrive che prima dell'aggiudicazione le stazioni appaltanti debbano verificare che il costo del personale non sia inferiore ai minimi salariali retributivi.

In forza di tale previsione, negli ultimi anni, sono aumentate le pronunce di accertamento della legittimità dell'esclusione da una gara pubblica di un'offerta economica recante la stima del costo del lavoro sulla base di un contratto collettivo che non assicura ai lavoratori una retribuzione conforme ai principi di sufficienza e proporzionalità previsti dall'articolo 36 Cost.. In tali casi anche la magistratura amministrativa ha dimostrato di seguire l'evoluzione giurisprudenziale lavoristica, mutuandone i percorsi logici e giuridici.

Esemplificativa, in tale senso, tra le ultime, la decisione del TAR Lombardia che, con sentenza 28 novembre 2023, n. 2830, ha ritenuto “non macroscopicamente irragionevole” la scelta della stazione appaltante di ritenere che il CCNL di lavoro oggetto di giudizio (i.e. CCNL Vigilanza privata), “che si caratterizza per il fatto di essere ormai obsoleto e disapplicato in sede giudiziale” (si cita espressamente App. Milano, sez. lav., 5 gennaio 2023, n. 961), “fornisca un assetto retributivo, per la parte più qualificata del personale impegnato nel servizio, che lo rende oggettivamente inconciliabile con la lex specialis, così realizzando non soltanto un pregiudizio all'interesse pubblico della stazione appaltante, ma anche una forma di “dumping” ad un tempo lesiva del leale gioco concorrenziale e dei diritti sociali”.

I medesimi ragionamento e principi erano peraltro già stati espressi dal Consiglio di Stato nella sentenza 13 ottobre 2015, n. 4699 con cui ha affermato che il costo del lavoro è ritenuto indice di anomalia dell'offerta quando non risultino rispettati i livelli salariali minimi stabiliti dal Ministero del lavoro, con conseguente potere della stazione appaltante di sindacare la scelta imprenditoriale di adottare uno specifico contratto collettivo piuttosto che un altro.

Anche su tale argomento è intervenuto il d.l. n. 19/2024 introducendo (all'art. 29, commi 10 e ss.), in relazione agli appalti di realizzazione dei lavori edili, l'obbligo di verifica della congruità dell'incidenza della manodopera sull'opera complessiva, prima di procedere al saldo finale dei lavori a pena di valutazione negativa di performance (per gli appalti pubblici di valore pari o superiore a euro 150.000) o di sanzioni amministrative (per gli appalti privati di valore pari o superiore a euro 500.000 ).

Il salario giusto come criterio di parità retributiva

Senza affrontare l'argomento della parità retributiva di genere, oggetto della recente Direttiva (UE) 2023/970 del Parlamento e del Consiglio del 10 maggio 2023, che esula dal presente contributo, una ulteriore interessante variazione sul tema è rappresentata dal recente intervento, ad opera della Corte d'appello di Firenze, in materia di applicabilità di diversi contratti collettivi a dipendenti adibiti alle medesime attività nella stessa organizzazione. La Corte fiorentina, con sentenza 22 dicembre 2023, n. 728, ha ritenuto che costituisca una ingiustificata disparità di trattamento l'applicazione, da parte del datore di lavoro all'interno della propria organizzazione di contratti collettivi diversi lavoratori che svolgono le medesime attività. Nel caso di specie il giudice d'appello, accertata la rilevante differenza salariale tra due lavoratori adibiti alle medesime mansioni in virtù dell'applicazione di diversa contrattazione collettiva anche per il tramite CTU, ha disapplicato il CCNL deteriore, basandosi su argomentazione di adeguamento retributivo secondo i canoni ex art. 36 Cost.

Si tratta di intervento, in controtendenza rispetto all'orientamento tradizionale di legittimità, secondo cui in contesti aziendali pluriorganizzati è legittima la scelta dell'imprenditore di applicare al personale dipendente diversi contratti collettivi, corrispondenti alle distinte attività svolte (Cass., SSUU, 2665/1997), che risolve la questione alternativamente rispetto alla disciplina dell'art. 2070, comma 2, c.c., seguendo, appunto, la strada costituzionale dell'individuazione della giusta retribuzione. Inoltre, sul piano privatistico, la pronuncia contrasta anche con l'orientamento secondo cui nel nostro ordinamento non esiste un principio che imponga al datore di lavoro, nell'ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, atteso che l'art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l'art. 3 Cost. impone l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e non anche nei rapporti tra privati (App. Roma, sez. lav., 7 luglio 2023, n. 2888).

Il salario minimo costituzionale come metrica di sostenibilità sociale

Tutto quanto finora esposto circa l'individuazione della giusta retribuzione assume un'ulteriore autonoma rilevanza sotto il profilo delle obbligazioni in tema di sostenibilità – ESG. Secondo, infatti, i principi di rendicontazione di sostenibilità introdotti dalla della Direttiva europea CSRD (Direttiva UE 2022/2464 che dovrà essere recepita in Italia entro il 6 luglio 2024 e per cui il Ministero dell'Economia e delle Finanze il 16 febbraio 2024 ha reso pubblico uno schema di decreto di recepimento), l'adeguata retribuzione è uno degli ambiti e delle metriche di informazione cui le organizzazioni imprenditoriali sono tenute nell'ambito degli obblighi previsti dalla Direttiva. In particolare, l'art. 29-ter della Direttiva europea CSRD, tra le informazioni che le imprese sono tenute a comunicare riguardo ai fattori sociali e in materia di diritti, indica proprio “le condizioni di lavoro, compresi l'occupazione sicura, l'orario di lavoro, i salari adeguati”.

La Direttiva europea CSRD non fornisce una definizione di “salario adeguato”, ma la stessa è rinvenibile nella Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell'Unione europea. Tale ultima Direttiva ricorda che la Carta Sociale Europea stabilisce che tutti i lavoratori hanno diritto ad eque condizioni di lavoro e riconosce il diritto di tutti i lavoratori ad un'equa retribuzione che assicuri a loro ed alle loro famiglie un livello di vita dignitoso (Considerando 4). Viene poi richiamato il principio 6 del capo II del pilastro europeo dei diritti sociali proclamato a Göteborg il 17 novembre 2017 che ribadisce il diritto dei lavoratori a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso. Secondo tale principio devono inoltre essere garantiti salari minimi adeguati che soddisfino i bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l'accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro (Considerando 5).

Interessanti sono, inoltre, le considerazioni frutto dell'osservazione statistica. Nel Considerando 22, la Direttiva CSRD riporta che il buon funzionamento della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari resta uno strumento importante di verifica se i lavoratori siano tutelati da salari minimi adeguati che garantiscano quindi un tenore di vita dignitoso. Negli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali, la contrattazione collettiva sostiene l'andamento generale dei salari e contribuisce quindi a migliorare l'adeguatezza dei salari minimi, così come le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori. Negli Stati membri in cui la tutela garantita dal salario minimo è prevista esclusivamente mediante la contrattazione collettiva, il livello dei salari minimi e la percentuale dei lavoratori tutelati sono determinati direttamente dal funzionamento del sistema di contrattazione collettiva e dalla copertura della contrattazione collettiva. La Direttiva CSRD conclude osservando che una contrattazione collettiva solida e ben funzionante, unita a un'elevata copertura dei contratti collettivi settoriali o intersettoriali, rafforza l'adeguatezza e la copertura dei salari minimi.

Quanto alla valutazione di adeguatezza salariale “europea” la Direttiva CSRD continua considerando che i salari minimi possono essere ritenuti adeguati se sono equi rispetto alla distribuzione salariale dello Stato membro pertinente e se consentono un tenore di vita dignitoso ai lavoratori sulla base di un rapporto di lavoro a tempo pieno. L'adeguatezza dei salari minimi legali è determinata e valutata da ciascuno Stato membro tenendo conto delle proprie condizioni socioeconomiche nazionali, comprese la crescita dell'occupazione, la competitività e gli sviluppi regionali e settoriali, secondo alcuni indici quali il potere d'acquisto, dei livelli e degli sviluppi della produttività nazionale a lungo termine, nonché del livello dei salari, della loro distribuzione e della loro crescita (Considerando 28). 

Del resto, le indicazioni fornite dalla Direttiva UE 2022/2041 sono state riprese e tradotte operativamente dall'EFRAG (ente tecnico incaricato dalla Commissione Europea di definire gli standard di rendicontazione in materia di sostenibilità). Tale Ente richiama proprio tale direttiva nell'affermare che il parametro di riferimento salariale adeguato utilizzato per il confronto con il salario più basso non deve essere inferiore al salario minimo stabilito in conformità al salario minimo adeguato nell'Unione europea. L'Ente aggiunge che, nel caso in cui non esista un salario minimo applicabile determinato dalla legislazione o dalla contrattazione collettiva in un Paese europeo, l'impresa debba utilizzare un parametro di riferimento salariale adeguato che non sia inferiore al salario minimo di un Paese limitrofo con uno status socio-economico simile o non sia inferiore a una norma internazionale di riferimento (EFRAG ESRS S1-10, ma si veda anche VSME ESRS).

Di nuovo, quindi, è imprescindibile una definizione che trovi nel parametro sociale (europeo a questo punto) il suo riferimento principale. Nello stesso senso, anche la norma tecnica ISO 26000:2010 che fornisce standard e linee guida sulla Responsabilità Sociale delle Imprese indica, ai fini certificativi, che le retribuzioni da riconoscere ai dipendenti devono essere superiori al livello minimo del salario minimo e essere sufficienti per soddisfare i requisiti di base dei dipendenti.

Posto quanto precede in tema di equità salariale diretta, non bisogna dimenticare che la sostenibilità dell'impresa si riflette nell'ecosistema di cui fa parte la c.d. “catena del valore”. La sostenibilità e la gestione della catena di fornitura e filiera produttiva, infatti, sono strettamente interconnesse, poiché la sostenibilità si riferisce all'adozione di pratiche che considerano gli impatti economici, ambientali e sociali delle operazioni aziendali lungo l'intera catena di approvvigionamento, tra cui vi sono anche le politiche retributive dei fornitori. E di tali pratiche l'impresa è chiamata a informare e rendere conto nell'ambito degli obblighi di rendicontazione introdotti dalla Direttiva 2022/2464 e, ancor prima, dalla Direttiva 2013/34/UE relativa ai bilanci d'esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese. Tale ultima Direttiva prescrive che le imprese di grandi dimensioni siano tenute ad includere, nella relazione sulla gestione informazioni necessarie alla comprensione dell'impatto dell'impresa sulle questioni di sostenibilità, nonché informazioni necessarie alla comprensione del modo in cui le questioni di sostenibilità influiscono sull'andamento dell'impresa, sui suoi risultati e sulla sua situazione (art. 19-bis). In particolare, per quanto di interesse alle catene di fornitura, la Direttiva (come modificata dalla Direttiva 2022/2464/UE) prescrive che un'apposita sezione della predetta relazione sulla gestione debba descrivere, tra gli altri, i principali impatti negativi, effettivi o potenziali, legati alle attività dell'impresa e alla sua catena del valore, compresi i suoi prodotti e servizi, i suoi rapporti commerciali e la sua catena di fornitura, delle azioni intraprese per identificare e monitorare tali impatti, e degli altri impatti negativi che l'impresa sia tenuta a identificare in virtù di altri obblighi dell'Unione che impongono alle imprese di attuare una procedura di dovuta diligenza anche a livello di gruppo (lett. f, punto ii).

Anche la normativa tecnica, costituita dalla ISO 26000:2010 “Linee Guida sulla Responsabilità Sociale” e dalla ISO 20400:2017 “Acquisti sostenibili – Guida” individuano, tra le metriche di riferimento per il controllo della sostenibilità della catena di fornitura e della filiera produttiva i temi della responsabilità sociale, quali diritti umani, rapporti e condizioni di lavoro, l'ambiente, corrette prassi gestionali.

Il ruolo del committente nella catena di fornitura e nella filiera produttiva a sé riconducibile è quindi sempre più centrale laddove egli si pone non solo come destinatario di responsabilità retributive derivanti da obblighi giuridici (tipici e atipici che siano) nei confronti dei propri lavoratori, ma come fulcro e leva attiva di un'organizzazione estesa o condivisa del lavoro socialmente responsabile e sostenibile in cui l'individuazione e il controllo della giusta retribuzione resta uno degli elementi imprescindibili.

Del resto è recente la notizia diffusa dalla stampa (IlSole24Ore – 2 febbraio 2024 Il nodo del controllo sulla catena di terzisti) secondo cui una nota azienda del lusso è stata parzialmente commissariata dal Tribunale di Milano per non aver vigilato e per non essere intervenuta sui propri appaltatori che sono stati accusati di aver posto in essere un sistema di terziarizzazione a cascata con plurime violazione delle normative lavoristiche tra cui, proprio i trattamenti retributivi inadeguati. Per quel che interessa al presente contributo, alla società committente è stata contestata la mancata effettuazione di ispezioni o audit al fine di verificare, in concreto, le reali condizioni lavorative e gli ambienti di lavoro, nonostante la stessa non fosse a conoscenza delle predette irregolarità della propria filiera e gli appaltatori avessero violato le obbligazioni contrattualmente assunte (che vietavano il subappalto).

I tempi sono dunque maturi per considerare la “giusta retribuzione” come un tema complesso, caratterizzato da una definizione sociale che necessita di una visione interdisciplinare da parte dell'imprenditore e che assume importanza per la sostenibilità sociale, di impresa e di sistema, sempre in ottica di accountability.

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