Pubblico impiego contrattualizzato: la prescrizione dei crediti retributivi continua a decorrere in costanza di rapporto

11 Aprile 2024

Con la sentenza in commento le Sezioni Unite, allineandosi ai precedenti giurisprudenziali, enunciano il principio di diritto secondo il quale la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati direttamente da quest'ultimo) e ciò sia nel caso di rapporto a tempo indeterminato, che a tempo determinato, che di successione di rapporti a tempo determinato. Con riferimento a quest'ultima ipotesi, la Corte conferma l'inconfigurabilità di un metus del lavoratore, in quanto il timore del mancato rinnovo del contratto a termine integra una mera aspettativa di fatto, irrilevante sotto in profilo giuridico.

Massima

La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre – tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato, così come di successione di rapporti a tempo determinato – in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa), attesa l'inconfigurabilità di un metus. Nell'ipotesi di rapporto a tempo determinato, anche per la mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego, in ordine alla continuazione del rapporto suscettibile di tutela.

IL CASO – Lavoro pubblico “stabilizzato”: l'incerta individuazione del dies a quo del termine di prescrizione dei crediti retributivi

Un dipendente pubblico, assunto dapprima con plurimi contratti di lavoro a tempo determinato, poi stabilizzato con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ai sensi della l. 296/2006, agisce in giudizio al fine di sentir accertare il proprio diritto al riconoscimento dell'anzianità di servizio e delle conseguenti differenze retributive maturate e maturande nel periodo antecedente alla stabilizzazione.

Nei gradi di merito, il Tribunale e la Corte d'Appello accolgono il ricorso, riconoscendo l'anzianità di servizio maturata nel periodo antecedente alla stabilizzazione, in applicazione del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato sancito dalla clausola 4 dell'Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, trasfuso nella Direttiva 1999/70/CE.

Quanto all'eccezione di prescrizione dei crediti retributivi sollevata dall'INPS, entrambi ne rilevano preliminarmente l'infondatezza sul presupposto che il termine decorra dalla data di stabilizzazione del rapporto di lavoro per la condizione di incertezza del lavoratore in ordine alla continuazione del rapporto.

Il Collegio della Sezione Lavoro, investito dall'INPS della questione relativa alla individuazione del dies a quo del termine di prescrizione nel pubblico impiego nell'ipotesi rapporti di lavoro a termine dotati di stabilità reale, anteriori alla stabilizzazione, ritiene la questione di massima di particolare importanza e, con ordinanza interlocutoria 28 febbraio 2023 n. 6051 dispone la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale rimessione alle Sezioni Unite.

A tale rimessione ha fatto seguito la sentenza in commento.

LA QUESTIONE – C'è ancora stabilità nel pubblico impiego privatizzato?

La sentenza affronta la questione relativa alla decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi nel pubblico impiego privatizzato.

Il tema, in particolare, è trattato sotto un duplice profilo, quello più generale dell'individuazione del dies a quo di prescrizione nei rapporti di lavoro pubblici privatizzati a tempo indeterminato o determinato; quello più particolare, della reiterazione dei contratti a termine cui segue la stabilizzazione presso la stessa amministrazione datrice di lavoro.

Il Collegio viene chiamato a riflettere sull'opportunità di una rimeditazione del consolidato principio secondo il quale nel pubblico impiego contrattualizzato la prescrizione decorre sempre (tanto in caso di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, quanto di rapporto a tempo determinato, che di successione di rapporti a tempo determinato) in costanza di rapporto, tenuto conto dell'evoluzione socio economica dei rapporti di lavoro, dei significativi mutamenti normativi che hanno interessato la materia del pubblico impiego, per effetto della sua contrattualizzazione, dell'incidenza sugli assetti normativi dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e delle decisioni della Corte di Giustizia U.E.

In particolare, tre sono i quesiti che l'ordinanza di remissione pone alle Sezioni Unite:

a) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto, a termine o a tempo indeterminato, o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell'ultimo, come accade nel lavoro privato;

b) se, nell'eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita da stabilizzazione presso la stessa P.A. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione;

c) se la prescrizione dei crediti retributivi, nell'ipotesi sub b), sia comunque preclusa, interrotta o sospesa ove la P.A. neghi il riconoscimento del servizio pregresso dei dipendenti.

LE SOLUZIONI GIURIDICHE – Nel pubblico impiego privatizzato la prescrizione decorre sempre in costanza di rapporto

Con la sentenza in commento le Sezioni Unite danno continuità al tradizionale orientamento secondo il quale la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre – tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, quanto di rapporto determinato, quanto di successione di rapporti a tempo determinato – in costanza di rapporto (dal momento della loro progressiva insorgenza), o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa) attesa l'inconfigurabilità di un metus.

Per giungere a tale conclusione le Sezioni Unite prendono le mosse dai principi che regolano il pubblico impiego contrattualizzato e dal rapporto tra quest'ultimo e il lavoro privato.

Nell'ordinanza interlocutoria i Giudici remittenti avevano infatti sostenuto che a seguito del processo di privatizzazione del pubblico impiego operato con le riforme del 1993 e del 2001 si era determinata una sostanziale identificazione tra quest'ultimo ed il rapporto di lavoro privato. Ciò si sarebbe ricavato, in particolare, ma non solo, dall'art. 2 co. 2 del d.lgs. n. 165/2001, secondo il quale, i rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, per quanto non regolato dal decreto, sono regolati dalle norme del codice civile e dalle leggi sul lavoro subordinato nell'impresa.

Si era dunque, da un lato osservato che le pronunce della Corte costituzionale e della giurisprudenza di legittimità (Sezioni Unite n. 575 del 2003; Cass., Sez. L, n. 35676 del 19 novembre 2021) che avevano affermato la decorrenza della prescrizione nel pubblico impiego contrattualizzato in corso di rapporto, non si erano mai direttamente confrontate, per ragioni temporali, con le conseguenze della modifica della regolamentazione del pubblico impiego, dall'altro, che, stante l'omogeneità di disciplina tra lavoro pubblico contrattualizzato e lavoro privato, non si poteva non tener conto del revirement operato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022.

In particolare, con tale ormai nota pronuncia la Corte, dopo aver ribadito il principio secondo il quale la prescrizione decorre in corso di rapporto, esclusivamente quando “la reintegrazione non soltanto sia ma appaia la sanzione contro ogni illegittima risoluzione nel corso dello svolgimento in fatto del diritto stesso”, ha rilevato che, in conseguenza delle riforme dei licenziamenti del 2012 e del 2015, il rapporto di lavoro (privato) a tempo indeterminato non può più ritenersi assistito da un regime di stabilità, e pertanto ha stabilito che, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ebbene, anche nel pubblico impiego contrattualizzato, hanno osservato i giudici remittenti, a seguito delle modifiche apportate all'art. 63 d.lgs. 165/2001 dal d.lgs. n. 27 del 2017, il regime sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi non pare più idoneo a garantire “il completo ripristino della situazione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare”, stante l'imposizione di un massimale in luogo del risarcimento in misura piena del danno. Diviene così sempre più problematico giustificare un sistema che individua una differente decorrenza della prescrizione degli identici crediti retributivi di diversi lavoratori che svolgano le stesse mansioni e il cui rapporto di lavoro sia egualmente costituito con la stipula di un contratto individuale e non attraverso un atto di nomina, a seconda semplicemente della loro dipendenza da un datore privato piuttosto che pubblico.

A fronte di tali argomentazioni, dunque, le Sezioni Unite si interrogano sulla effettiva identità delle due discipline dei rapporti di lavoro e sulla conseguente estensibilità delle conclusioni a cui è pervenuta la sentenza n. 26246/2023 in tema di lavoro privato ai rapporti di lavoro pubblico privatizzati, precisando tuttavia, che nel ricercare la risposta lo stesso Collegio è tenuto ad applicare i criteri ermeneutici della interpretazione letterale e storico-sistematica, senza attribuire la dignità di criteri interpretativi ad elementi storico-fattuali, relativi all'evoluzione del contesto storico-sociale ed economico, indicati dai giudici remittenti poiché tali elementi  “certamente rilevanti in funzione di una migliore aderenza al dato normativo all'effettiva attualità” non possono assumere una “funzione manipolativa o sostitutiva di norme di legge”.

Netta, a questo punto, la posizione del Collegio in merito alla non equiparabilità del rapporto pubblico contrattualizzato a quello privato, in considerazione dei diversi principi che regolano il primo e delle norme costituzionali poste a presidio dello stesso che, pur se regolato dalla disciplina di diritto comune, trova in essi i suoi limiti conformativi. Afferma dunque il Collegio, richiamando i precedenti della stessa Corte (Cass. 19 novembre 2021 n. 35676) che, anche a seguito della privatizzazione, permangono nel lavoro pubblico quelle peculiarità individuate dalla Corte costituzionale come giustificative di un differente regime della prescrizione, sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro che di eccezionalità del lavoro a termine.

Ed infatti se, sotto l'aspetto della tutela, il rapporto di lavoro pubblico conserva una disciplina sostanzialmente mutuata da quello privato, ciò che rileva è che, sotto l'aspetto della struttura, esso se ne distanza significativamente poiché tali sistemi soggiacciono a principi costituzionali differenti.

In quello privato, è prevalente il richiamo all'art. 41 Cost. e dunque alle esigenze dell'iniziativa economica e dell'attività d'impresa. Il rapporto di lavoro pubblico, invece, ancorché privatizzato soggiace ai principi enunciati dagli artt. 97, 28 e 98 Cost. sicché ad essere differente è proprio la “fisiologia” del rapporto.

Questa differenza, in particolare, emerge non solo nella fase genetica del rapporto che, nel pubblico impiego è soggetto alla regola dell'accesso mediante concorso pubblico (art. 97 Cost.), ma anche nei diversi vincoli che vengono a cadere sui dipendenti pubblici in ragione dei loro uffici, dalla diretta responsabilità per gli atti compiuti in violazione dei diritti (art. 28), al dovere di neutralità (art. 98 Cost.).

Ad essere differente è, dunque, l'intero sistema di incardinamento del rapporto di lavoro pubblico per il rilievo svolto da norme e principi costituzionali assai diversi fra loro (come gli artt. 48, 21, 2 e 18, 39, 49, 24, 113 Cost. e CEDU).

Secondo le Sezioni Unite, dunque, nella “fisiologia” del sistema del pubblico impiego privatizzato è inconfigurabile una situazione piscologica di soggezione del lavoratore nei confronti della Pubblica Amministrazione. Tale inconfigurabilità è riferita non solo alla presenza di una tutela reintegratoria di cui al novellato art. 63 D.lgs. 165/2001, a prescindere dal limite quantitativo delle ventiquattro mensilità, ritenuto comunque importo non irrisorio, ma soprattutto alla presenza di un “articolato ed equilibrato sistema di controllo tra poteri e di bilanciamento di interessi”, posto nell'interesse del lavoratore pubblico, ma anche a protezione dei più generali interessi collettivi. Ed è proprio, continua la sentenza, il vincolo al rispetto dei predetti principi costituzionali e della legge, che escludendo in radice un timore, priva di alcun valore il riferimento il menzionato mutamento della disciplina della reintegrazione.

Tanto chiarito, sotto un profilo più generale, le Sezioni Unite passano ad affrontare il tema, più particolare, della decorrenza della prescrizione nell'ipotesi di reiterazione della contrattazione a tempo determinato antecedente alla stabilizzazione.

Nell'ordinanza interlocutoria i Giudici remittenti avevano sollecitato un ripensamento del principio di decorrenza della prescrizione in corso di rapporto nel caso di successione di rapporti a tempo determinato, alla luce dell'evoluzione del contesto socio-economico che aveva reso il lavoro sempre più precario e meno garantito, anche nel settore del pubblico impiego.

In particolare, secondo i giudici remittenti, mentre in passato il metus poteva ritenersi escluso dalla circostanza che nei contratti a termine la non rinnovazione del rapporto si configurava quale evento avente carattere di normalità, oggi, tale rinnovazione sarebbe divenuta la prassi, rappresentando, sia nel settore pubblico che privato, l'unico canale per giungere, dopo anni ad un rapporto a tempo indeterminato con lo stesso datore. “Ne consegue che è impensabile escludere ormai, nei contratti a tempo determinato, l'esistenza di un metus del lavoratore sull'assunto che egli non ha aspettative in ordine alla conclusione di un contratto a tempo indeterminato”.

Con una chiara argomentazione, tuttavia, le Sezioni Unite, escludono la necessità di un ripensamento in materia confermando il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità. Come si evince dalla motivazione, la ragione risiede nella corretta qualificazione giuridica del metus del mancato rinnovo dei contratti a termine da parte del datore di lavoro: a differenza del metus del licenziamento, il quale si colloca all'interno di un rapporto di lavoro, fonte di una posizione giuridica qualificabile come diritto soggettivo tutelabile, il timore del mancato rinnovo, integra una mera aspettativa alla stabilità dell'impiego, non giustiziabile per la sua irrilevanza giuridica.

Anche con riferimento all'ipotesi di reiterazione di contratti a termine, seguita dalla stabilizzazione, dunque, le Sezioni Unite continuano a muoversi nel solco tracciato da Cass. S.U. n. 575 del 16 gennaio 2003 e dalla consolidata giurisprudenza conforme.

OSSERVAZIONI – Autonomia dei sistemi e qualificazione giuridica del metus da mancato rinnovo del contratto a termine

La sentenza in commento si inserisce all'intero della stagione di riflessione avviata con la celebre sentenza del 6 settembre 2022, n. 26246, relativa all'attualità degli orientamenti giurisprudenziali in materia di prescrizione dei crediti retributivi.

Se considerata unitamente ad altre recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità (Cass. 22 settembre 2022, n. 27783, in materia di socio di cooperativa) e della Corte costituzionale (C. cost, 13 luglio 2023 n. 143 in materia di personale navigante), essa costituisce un chiaro esempio della irrilevanza del revirement giurisprudenziale operato in materia di impiego privato in tutti quei sistemi che la Corte riconosce e qualifica come autonomi in quanto regolati da proprie regole e principi.

Con specifico riferimento al pubblico impiego privatizzato, appare chiara la posizione delle Sezioni Unite circa l'autonomia di tale sistema rispetto al lavoro privato, e la conseguente inconfigurabilità di una situazione psicologica di soggezione del lavoratore pubblico nei confronti della Pubblica Amministrazione, in quanto datore di lavoro vincolato al rispetto di specifici principi costituzionali e di legge.

Il percorso argomentativo sviluppato dalle Sezioni Unite può essere letto, in primo luogo in una prospettiva confermativa dell'approdo normativo e giurisprudenziale che ha visto nella tutela reintegratoria, non disgiunta da una significativa tutela risarcitoria, il tratto costitutivo della stabilità del rapporto.

In quest'ottica, i riferimenti della Corte di cassazione ai principi costituzionali ed alla loro portata conformativa del rapporto di lavoro pubblico, possono essere intesi come una affermazione della imprescindibilità della tutela ripristinatoria nell'ambito del rapporto di lavoro pubblico. In altri termini, proprio la relazione tra la funzione di interesse pubblico svolta dalla Pubblica Amministrazione e struttura privatistica del rapporto di lavoro, genererebbe la necessità di assicurarne la stabilità.

Dalla lettura della sentenza può tuttavia cogliersi anche una ricostruzione più innovativa del tema della stabilità.

A tal proposito di particolare interesse appare il passaggio della motivazione in cui le Sezioni Unite affermano che

“se nella giurisprudenza della Corte costituzionale la stabilità o meno del lavoro costituisce un mero parametro, per rilevare l'esistenza o l'inesistenza del timore, l'esclusione in radice della sua configurabilità nei confronti della Pubblica Amministrazione, in quanto vincolate al rispetto dei principi costituzionali e della legge, priva di alcun valore il riferimento al suddetto mutamento della disciplina della reintegrazione”.

Sembrerebbe, dunque, che, per i giudici di legittimità, la stabilità del rapporto nel pubblico impiego privatizzato possa ritenersi esistente in re ipsa in quanto riscontrabile prima ancora che per una espressa disposizione reintegrartoria, in quell' “articolato ed equilibrato sistema di controllo di poteri e bilanciamento di interessi fondato sui principi dello Stato costituzionale di diritto”.

Meritano, ancora, di essere segnalati due interessanti passaggi della sentenza.

Il punto 7 ove le Sezioni Unite nell'individuare i criteri interpretativi applicabili per rispondere ai quesiti posti dai giudici remittenti, negano la dignità di strumento ermeneutico agli “elementi storico fattuali, in particolare relativi all'evoluzione del contesto sociale storico ed economico”. Il riferimento della Corte è alle considerazioni svolte nell'ordinanza di remissione sui contratti a termine, ma anche, più in generale, sul “cambiamento” del pubblico impiego ivi descritto. Le Sezioni Unite, infatti, chiariscono che l'evoluzione del contesto socio-economico non può rilevare in funzione manipolativa e sostitutiva di una norma di legge in quanto, così così operando, verrebbe meno la garanzia di certezza del diritto.

Infine, il punto 11, relativo alla tipologia di metus configurabile nell'ipotesi di reiterazioni di contratti a tempo determinato con la Pubblica Amministrazione.  Condivisibile, a tal proposito, la riflessione svolta dalle Sezioni Unite circa la corretta qualificazione giuridica del timore “da mancato rinnovo del contratto a termine da parte del datore di lavoro” che a differenza del timore “di licenziamento” non si colloca all'interno di una posizione qualificabile alla stregua di diritto soggettivo tutelabile ma integra una mera aspettativa di fatto, irrilevante sotto un profilo strettamente giuridico.

Riferimenti normativi e giurisprudenziali

Art. 2948 c.c., n. 4; Art. 2948 c.c., n. 5; Artt. 28,41,51,97 Cost.; L. 15 luglio 1966, n. 604; L. 20 maggio 1970, n. 300; L. 28 giugno 2012, n. 92; D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29; D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165; D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23; D.Lgs. 25 maggio 2017 n. 75

C. Cost. 20 novembre 1969, n. 143; C. Cost. 12 dicembre 1972, n. 174Cass., sez. un., 16 gennaio 2003, n. 575; Cass. 28 maggio 2020, n. 10219; Cass. 24 giugno 2020 n. 12443; Cass. 30 novembre 2021, n. 37538; Cass. 6 settembre 2022, n. 26246; Cass. 29 dicembre 2022, n. 38100; C. Cost. 13 luglio 2023, n. 143; Cass. 18 luglio 2023, n. 20793; Trib. Bari 6 settembre 2023, n. 2179; Cass. ord. Int. 28 febbraio 2023, n. 6051.

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