Incostituzionale perché troppo elevato il minimo della pena nel delitto di appropriazione indebita

15 Aprile 2024

È stata sollevata l'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 646, comma 1, c.p., nella parte in cui punisce la condotta di appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, anziché con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Massima

Deve dichiararsi costituzionalmente illegittimo l'art. 646, comma 1, c.p., come modificato dall'art. 1, lettera u) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), nella parte in cui prevede la pena della reclusione “da due a cinque anni” anziché “fino a cinque anni”.

Il caso

L'imputato, nella sua veste di mediatore immobiliare ed in funzione del previsto contratto di locazione, aveva ricevuto dal cliente la somma di 700 euro a titolo di deposito cauzionale ed ulteriori 700 euro quale compenso per la sua attività di mediazione. Tuttavia, il contratto di locazione non era mai stato stipulato e l'imputato aveva restituito al cliente la somma di 500 euro in contanti e dopo la presentazione di querela da parte della persona offesa, gli aveva corrisposto l'ulteriore somma di 200 euro.

Il Tribunale competente ha ritenuto configurabile il delitto di appropriazione indebita, di cui all'art. 646, comma 1, c.p., in forza del quale «Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1000 a euro 3000», aggravato dall'abuso di prestazione d'opera di cui all'art. 61, n. 11, c.p.

Invero, la fattispecie criminosa veniva riconosciuta per la somma depositata a titolo di deposito cauzionale e della sua restituzione solo parziale (cfr. Cass. pen., sez. II, 8 aprile 2021, n. 15566; Cass. pen., sez. II, 31 ottobre 2018, n. 56935; Cass. pen., sez. II, 16 novembre 2017, n. 54945), non valendo ad escludere il reato la dazione dei 200 euro dopo la consumazione. Pertanto, posto che a fronte dei 700 euro ricevuti erano stati restituiti solo 500, il delitto di appropriazione indebita veniva a formularsi per i 200 euro ritenuti e non restituiti.

Peraltro, ad avviso del giudice della cognizione, nonostante la esiguità della somma, il fatto non poteva considerarsi di particolare tenuità ai sensi dell'art. 131-bis c.p., in quanto tale reato era stato consumato ai danni di un cittadino straniero, con tre figli, di cui uno affetto da autismo, e che la condotta era stata posta in essere nell'esercizio di un'attività professionale e con riferimento a somme di denaro «corrisposte in relazione alla locazione di un immobile da adibire ad abitazione dunque per soddisfare un bisogno fondamentale». Parimenti, non poteva neanche ritenersi la causa estintiva del reato consistente in condotte riparatorie, di cui all'art. 162-ter c.p., posto che l'imputato non avrebbe corrisposto gli interessi sulla somma restituita, né avrebbe riparato il danno non patrimoniale patito dalla persona offesa.

In definitiva, ritenute le circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis prevalenti sulla contestata aggravante di cui all'art. 61, n. 11 c.p., il Tribunale riteneva di dover fissare la sua discrezionalità sul limite minimo della pena edittale.

La questione

Proprio sulla formulazione normativa della pena prevista sorge la questione di costituzionalità sollevata dal giudice a quo.

Nella sua dizione originale l'art. 646 c.p. prevedeva la pena della reclusione fino a tre anni: id est da 15 giorni (art. 23 c.p.) a tre anni. La modifica, che prevede l'attuale pena della reclusione da due a cinque anni, è stata introdotta dall'art. 1, lettera u) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici). Ad avviso del giudice rimettente tale innalzamento del minimo della pena edittale di ben quarantotto volte contrasterebbe con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., «sia per quanto attiene il principio generale di uguaglianza, sia sotto il profilo della proporzionalità intrinseca del trattamento sanzionatorio», poiché ora tale minimo edittale comporterebbe l'inflizione di una pena irragionevole in relazione alla dosimetria sanzionatoria impiegata dal legislatore in altre fattispecie offensive del bene giuridico patrimoniale, impedendo così al giudice di applicare una pena adeguata per condotte conformi al tipo, ma caratterizzate la lesività modesta.

In particolare, vengono richiamati i delitti contro il patrimonio di superiore gravità, quali il furto e la truffa. Nel furto, di maggior disvalore in quanto il bene non è disponibile all'autore del reato e per la sua sottrazione alla vittima, l'art. 624 c.p. prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni. Parimenti, nella truffa, caratterizzata dal maggior disvalore proprio degli artifici e raggiri, l'art. 640 c.p. prevede la simile pena della reclusione da sei mesi a tre anni e perfino nella truffa aggravata, di cui al capoverso della disposizione, viene sancita la pena della reclusione da uno a cinque anni. Insomma, la pena minima dell'appropriazione indebita, prevista in due anni di reclusione sarebbe decisamente sproporzionata rispetto alla pena minima del furto (sei mesi), della truffa (sei mesi) e della stessa truffa aggravata (un anno), pur trattandosi di lesioni di beni patrimoniali di più marcato disvalore.

Donde l'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 646, comma 1, c.p., nella parte in cui punisce la condotta di appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, anziché con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Le soluzioni giuridiche

In primo luogo, la Corte costituzionale, nell'esaminare anche i lavori parlamentari che hanno condotto all'approvazione della legge n. 3 del 2019, che ha modificato la pena edittale dell'art. 649-bis c.p., rileva come l'inasprimento sanzionatorio, come può evidenziarsi dalla rubrica stessa della normativa, è dovuto ad un più marcato contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione. Ben vero che il delitto di appropriazione indebita non rientra nel titolo dei delitti contro la p.a., bensì contro il patrimonio, ma a giudizio del legislatore tale reato si pone come uno strumento che, al pari del falso in bilancio o dei reati tributari, consente di formare provviste illecite per il pagamento del prezzo della corruzione.

Tuttavia, se tale finalità può giustificarsi con l'aumento del massimo della pena e con l'ampliamento delle ipotesi della procedibilità d'ufficio (sempre introdotte nella disposizione dalla predetta legge n. 3 del 2019, comma 1, lett. v) se il danno arrecato alla persona offesa è di rilevante gravità, tale esigenza non può razionalmente giustificarsi, come peraltro esattamente rilevato dal giudice remittente, con l'aumento di ben quarantotto volte della pena minima per la fattispecie base. Infatti, tale pena minima viene destinata ad applicarsi a fatti meno gravi che nulla hanno a che vedere con condotte prodromiche alla corruzione quale la creazione di “fondi neri” destinati a tale scopo criminoso. E dalla comune esperienza si evince che il delitto di appropriazione indebita viene ad attuarsi con condotte diverse e con disvalore ben differenziato: da fatti di particolare gravità ad altri alquanto modesti, anche se non necessariamente di particolare tenuità secondo il disposto dell'art. 131-bis c.p., come proprio nel caso concreto oggetto del giudizio a quo.

In definitiva, la Consulta afferma che non sussiste alcuna plausibile giustificazione di un così rilevante inasprimento della pena per tutti i fatti di appropriazione indebita, con una più gravosa compressione della libertà personale, il che rende di per sé costituzionalmente illegittima la disciplina censurata, al duplice metro degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.

In secondo luogo, la Corte analizza l'attuale innalzamento del minimo della pena edittale dell'art. 646 c.p. assai più gravoso rispetto ai reati di furto e truffa, considerati entrambi quali tertia comparationis dallo stesso giudice remittente.

A tale proposito, «non può non rilevarsi la macroscopica disparità di trattamento sanzionatorio generato dall'attuale disciplina, tra l'appropriazione indebita di una somma di 200 euro, come quella oggetto del giudizio a quo, e un furto e una truffa che producano esattamente il medesimo danno patrimoniale alla persona offesa: sei mesi di reclusione in queste due ultime ipotesi; due anni, e dunque quattro volte tanto, nel caso di appropriazione indebita».

In effetti, proprio nel caso dell'agente immobiliare che si appropri di una somma versatagli dall'acquirente a titolo di cauzione, a parità del danno arrecato, deve configurarsi la truffa allorché egli millanti un mandato inesistente con la conseguente pena minima di sei mesi di reclusione, mentre sarà responsabile di appropriazione indebita, quando il mandato sia stato correttamente conferito, ma il contratto non si concluda per la successiva indisponibilità del proprietario a vendere o locare, ma «soggiacendo così (illogicamente) a una pena minima quadruplicata».

A proposito di tali sperequazioni sanzionatorie la Corte richiama il canone della coerenza, che «nel campo delle norme di diritto è l'espressione del principio di eguaglianza di trattamento tra eguali posizioni sancito dall'art. 3 Cost.», come affermato nella parte motiva da C. cost., 30 novembre 1982, n. 204. Riferimento alquanto singolare, posto che atteneva ad una questione di legittimità costituzionale (dichiarata peraltro infondata) di una disposizione del diritto del lavoro (trattavasi di licenziamento disciplinare irrogato senza l'osservanza delle garanzie procedurali), ma la stessa Corte afferma che tale canone vale proprio in un settore dell'ordinamento così delicato, per il rilievo costituzionale degli interessi in gioco, come il sistema penale.

Da quanto finora delineato si deduce la illegittimità costituzionale dell'art. 646 c.p. per contrasto con gli artt. 3 e 27 dal primo profilo e con l'art. 3 da secondo profilo, potendo attendersi una decisione che, come prospettato dal giudice remittente, intervenisse a censurare la pena minima edittale di due anni adeguandola ai sei mesi come nei reati di furto e di truffa.

Ma la Consulta ha deciso diversamente, affermando che il petitum dell'ordinanza di rimessione chiarisce sì “il contenuto ed il verso” delle censure mosse dal giudice a quo, ma non vincola la Corte, che «ove ritenga fondate le questioni, rimane libera di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad integrum della disposizione censurata» (citando anche C. cost., 8 febbraio 2024, n. 12, punto n. 8 del Considerato in diritto, che richiama quanto già disposto da C. cost., 14 dicembre, n. 221, punto n. 4 del Considerato in diritto).

Ora, ad avviso del giudice delle leggi, tale reductio non può limitarsi a portare il minimo della pena edittale ai sei mesi, che rimarrebbe comunque sproporzionata per eccesso, come nel caso concreto oggetto del giudizio a quo, ma conduce la Corte ad una ablazione nel minimo esistente, sostituendo l'inciso “da due a cinque anni” con l'inciso “fino a cinque anni”, ossia, in base alla regola generale di cui all'art. 23 c.p., “da quindici giorni a cinque anni”. In tal modo il minimo rimane quello preesistente alla riforma della legge n. 3 del 2019, mentre il massimo continua ad essere quello stabilito da quest'ultima normativa.

Concludendo, la Corte demanda al legislatore di valutare se equiparare tale pena minima per l'appropriazione indebita a quella prevista per il furto e la truffa, ovvero stabilendone una diversa, tenendo conto del relativo particolare disvalore, «e comunque entro i limiti dettati dal principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena».

Osservazioni

Deve notarsi che la decisione in commento si inserisce in quel percorso giurisprudenziale che, a partire dagli anni Novanta, ha portato la Corte ad interessarsi della legittimità costituzionale della forbice edittale della pena con particolare riferimento al minimo previsto dalla stessa ed alla luce dei princìpi di ragionevolezza e proporzionalità della pena, a partire da C. cost., 25 luglio 1994, n. 341, che ha dichiarato incostituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., l'art. 341 c.p. (reato di Oltraggio a pubblico ufficiale nella originaria formulazione) significando che la severità e la rigidità del minimo edittale è frutto di un bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra la tutela dell'amministrazione e del pubblico ufficiale e il valore della libertà personale.

Successivamente, C. cost., 10 novembre 2016, n. 236, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 567, comma 2, c.p. (delitto di Alterazione di stato), nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da cinque a quindici anni, anziché da tre a dieci anni, ritenendo che il giudice, quand'anche opti per il minimo della pena, risulta costretto a infliggere pene manifestamente sproporzionate al disvalore della condotta, che possono ingenerare nel condannato la convinzione di essere vittima di un ingiusto sopruso e vanificando così il fine rieducativo della pena. Sempre richiamando i principi di proporzione, ragionevolezza e di rieducazione della pena, C. cost., 8 marzo 2019, n. 40, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina delle sostanze stupefacenti e psicotrope), nella parte in cui prevede, per i fatti di lieve entità, la pena minima della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni. Analogamente, Corte cost., 14 aprile 2022, n. 95, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 726 c.p. (atti contrari alla pubblica decenza) nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 10.00 euro, anziché da 51 a 309 euro, come stabilito dall'art. 527, comma 3, c.p. per gli atti osceni colposi. Ed ancora, C. cost., 2 dicembre 2022, n. 244, ha dischiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 167 c.p.m.p., nella parte in cui non prevede una diminuzione di pena in casi di particolare tenuità del danno a navi o aeromobili al servizio delle Forze armate.

Da ultimo C. cost., 15 giugno 2023, n. 120, ha ritenuto costituzionalmente illegittimo per violazione dei principi di ragionevolezza e rieducatività della pena (artt. 3 e 27, comma 3, cost.) l'art. 629 c.p. (reato di Estorsione) nella parte in cui non prevede che la pena è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi e le modalità delle circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto è di lieve entità.

In secondo luogo, il riferimento finale della Corte al possibile intervento del legislatore, porta a rammentare un suo preciso orientamento. Fra le tante pronunce, significativa, di recente, C. cost., 5 giugno 2021, n. 117, che pure ritenendo inammissibile la sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 624-bis, commi 1 e 3, c.p. (reato di Furto in abitazione), ritiene che «la pressione punitiva attualmente esercitata riguardo ai delitti contro il patrimonio è ormai diventata estremamente rilevante e richiede perciò attenta considerazione da parte del legislatore, alla luce di una valutazione, complessiva e comparativa, dei beni giuridici tutelati dal diritto penale e del livello di protezione loro assicurato».

Riferimenti 

Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Torino, 2021.