Danno alla professionalità per illegittima collocazione in CIG
17 Aprile 2024
La vicenda trae origine dalla pronuncia con cui la Corte di appello di Bologna condannava un'azienda a corrispondere alla dipendente in via equitativa la somma pari al 30% della retribuzione netta percepita dalla lavoratrice a titolo di danno alla professionalità per tutto il periodo di illegittima sospensione in CIG. I giudici della sezione lavoro hanno confermato tale decisione – ritenendo infondato il ricorso per cassazione proposto dall'azienda – evidenziando che gli arresti di questa Suprema Corte che da tempo hanno evidenziato, in presenza di adeguate allegazioni, l'esistenza del danno alla professionalità da inattività forzata, poiché il fatto di non aver potuto esercitare la propria prestazione professionale, oltre all'immagine professionale, può ledere professionalmente il lavoratore dal momento che un'inattività a lungo protratta nel tempo cagiona il depauperamento del patrimonio professionale e conseguentemente la sua ricollocabilità sul mercato del lavoro. Si è inoltre ribadito quanto evidenziato dalla Corte d'appello che, richiamando per esteso la sentenza della Cassazione n. 10/2022 riferita ad un lavoratore che era stato lasciato in condizioni di inattività per lunghissimo tempo ed in cui la Corte aveva affermato che il comportamento datoriale non solo violava la norma di cui all'art. 2103 c.c. ma era al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; con tale affermazione il giudice d'appello aveva enunciato un concetto di lesione di un bene immateriale per eccellenza quale è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, ed ha ritenuto che tale lesione produca automaticamente un danno non economico ma comunque rilevante sul piano patrimoniale per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore, anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa. La Corte esclude inoltre che il danno da inattività per cassa integrazione sia differente da quello relativo all'inattività per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili, che discende dalla violazione dell'art. 2103 c.c., ovvero l'uno sia di natura legale e l'altro di natura contrattuale. La responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazioni di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) risulta in ogni caso discendente dalla violazione di obblighi che discendono da norme che integrano il contratto di lavoro e dunque configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale. Viene da ultimo evidenziato che il danno alla professionalità – per sua natura plurioffensivo – richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d'appello è ovviamente un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in Cig; essendo il primo legato appunto alla perdita della professionalità, dell'immagine professionale e della dignità lavorativa, laddove il secondo è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto. Il danno patrimoniale alla professionalità per giurisprudenza consolidata può inoltre essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione che nella fattispecie la Corte di merito ha individuato nella misura del 30%; escludendo invece il danno esistenziale, morale e biologico per difetto di adeguata allegazione e prova. Ciò la Corte territoriale ha fatto attraverso un accertamento del tutto in linea con la giurisprudenza di questa Corte sia sull'an, sia sulla prova, sia sul quantum (v. Cass. civ. n. 19923/2019). |