Il mutamento del rito nel processo del lavoro

19 Aprile 2024

L'istituzione delle sezioni specializzate in materia di lavoro ha reso attuale la questione dell'impropria assegnazione di una controversia, riconducibile all'art. 409 c.p.c., ad una sezione ordinaria in luogo della sezione specializzata in materia di lavoro (e viceversa), con l'annesso duplice tema di ripartizione degli affari all'interno dell'ufficio giudiziario e di rito applicabile. A regolare tali fattispecie concorre lo strumento della conversione del rito, predisposto dagli artt. 426 e 427 c.p.c.

La ripartizione degli affari interna al Tribunale

Nell'ambito dei circondari di Tribunale sono istituite sezioni specializzate in materia di lavoro, ai sensi dell'art. 46, comma 2, r.d. n. 12/1941, alle quali è devoluta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 409 e 413, comma 1, c.p.c., la cognizione in ordine alle controversie di lavoro, che si affiancano alle sezioni ordinarie ed alle ulteriori sezioni specializzate (in materia agraria o di impresa).

L'eventuale impropria assegnazione di una controversia riconducibile all'art. 409 c.p.c. alla sezione ordinaria in luogo della sezione specializzata in materia di lavoro pone un duplice tema, di ripartizione degli affari all'interno dell'ufficio giudiziario e di rito applicabile.

Pertanto, nel caso in cui il giudice ordinario risulti investito di una controversia laburistica (o, specularmente, il giudice del lavoro di una controversia ordinaria), potrà provvedere alla trasmissione del fascicolo al presidente del Tribunale, il quale provvederà all'assegnazione dello stesso alla sezione ordinaria o specializzata, sulla base dei criteri tabellari.

Discussa appare la questione dell'esistenza di barriere preclusive al rilievo del giudice, sul modello di quanto previsto dall'art. 83-ter disp. att. c.p.c. in tema di riparto degli affari tra sede centrale e sezioni distaccate, registrandosi provvedimenti direttivi, recepiti nelle tabelle organizzative di taluni Tribunali, che prevedono che, ai fini della riassegnazione del procedimento, il rilievo dell'errata ripartizione di affari debba avvenire entro la prima udienza di trattazione o discussione del procedimento.

Provvedimenti di tal guisa non appaiono, tuttavia, giustificabili sulla base dell'art. 83-ter disp. att. c.p.c. che, pur rimasto formalmente in vigore dopo la riforma di riordino delle circoscrizioni giudiziarie, appare testualmente riferibile alla sola fattispecie di ripartizione degli affari tra sede centrale e sezione distaccata, e non può costituire oggetto di interpretazione analogica o estensiva, stante la profonda diversità di ratio rispetto alla ripartizione di affari tra giudice ordinario e specializzato, attesa la portata delle conseguenze del consolidamento della cognizione in capo al giudice erroneamente adito.

Se, difatti, dalla permanenza presso la sede ordinaria di una causa devoluta alla sezione distaccata originava, tendenzialmente, una mera questione di variazione territoriale, la permanenza in capo al giudice ordinario di questione devoluta alla cognizione del giudice specializzato del lavoro (e viceversa), in ragione di barriere preclusive alla facoltà di rilievo, produce, quale conseguenza, la trattazione della questione da parte di giudice non specializzato per materia, sulla base di regole processuali diverse da quelle ordinariamente applicate, ed un tema di compatibilità di tale assetto con il principio del giudice naturale precostituito per legge di cui all'art. 25 Cost..

Appare, dunque, preferibile consentire l'attivazione del meccanismo di trasmissione della controversia al giudice del lavoro o ordinario, a seconda della ricomprensione o meno della stessa nel novero dell'art. 409 c.p.c., in ogni stato del procedimento, con salvezza degli atti compiuti. 

Trattandosi di questione di ripartizione degli affari interni al medesimo ufficio giudiziario, e non di competenza in senso stretto e proprio, il provvedimento di trasmissione del fascicolo al presidente o di riassegnazione dello stesso, ad opera di quest'ultimo, non potranno dar luogo a regolamento di competenza, su impulso d'ufficio ai sensi dell'art. 45 c.p.c. (in questo senso Cass. civ., sez. I, 28 ottobre 2021, n. 30528).

L'istituto del mutamento del rito

Nel caso di rilievo dell'erronea ripartizione di affari interni, con trasmissione del fascicolo al presidente e riassegnazione dello stesso al giudice specializzato del lavoro (o al giudice ordinario nel caso specularmente opposto), l'assegnatario avrà a disposizione lo strumento della conversione del rito, predisposto dagli artt. 426 e 427 c.p.c., per regolarizzare la trattazione anche sotto il profilo procedurale, oltre che della tipologia di controversia.

Tale strumento appare, tuttavia, destinato a regolamentare anche la diversa fattispecie in cui il ricorrente abbia agito dinanzi al giudice investito della competenza per materia, con forme e modalità procedimentali non corrispondenti all'astratto schema normativo, come nel classico esempio della proposizione di una controversia laburistica dinanzi alla sezione lavoro con atto di citazione a comparire a udienza fissa ai sensi dell'art. 163, comma 1, c.p.c.. o con le formalità del nuovo rito semplificato di cognizione, introdotto dal d.lgs. n. 149/2022 ai sensi dell'art. 281-decies e ss. c.p.c. che integra una modalità semplificata del processo ordinario e rientra, pertanto, nella nozione di proposizione del processo nelle «forme ordinarie», di cui all'art. 426 c.p.c..

Il dittico di norme, contenuto negli artt. 426 e 427 c.p.c., deve essere integrato con l'art. 439 c.p.c., che regolamenta la fattispecie di mutamento del rito in appello prevedendo che, laddove la Corte ritenga che il procedimento di primo grado non si sia svolto secondo il rito prescritto, provveda ai sensi degli artt. 426 e 427 c.p.c..

Dal tenore letterale delle norme emerge, dunque, che il potere di disporre l'applicazione del rito, corrispondente al modello legale tipico, non soltanto non è subordinato ad alcuna eccezione di parte, ma può essere esercitato in ogni stato e grado del giudizio di merito, e quindi anche nella fase decisoria, ad istruttoria ultimata, o in grado di appello, anche laddove il primo grado sia stato interamente celebrato con un rito diverso da quello prescritto.

Il provvedimento assunto avrà natura formale e ordinatoria, ed in quanto tale sarà revocabile ai sensi dell'art. 177 c.p.c., e non sarà idoneo a pregiudicare la decisione della causa, non avendo natura di determinazione sulla competenza (a meno che non sia accompagnato dalla concorrente affermazione o negazione della competenza giudiziale), con la conseguenza che non potrà essere impugnato con regolamento di competenza (Cass. civ., sez. II, 6 aprile 2001, n. 5174).

Pur non essendo espressamente ricompreso nel novero dei provvedimenti da notificare alla parte contumace ai sensi dell'art. 292 c.p.c., si ritiene tale adempimento necessario, in ossequio ad un principio generale dell'ordinamento, secondo cui la parte non costituita, potendo provvedere in qualsiasi momento alla costituzione tardiva, non dovrà essere pregiudicata in occasione di variazioni processuali di rilievo (quali la proposizione di una domanda nuova o il mutamento del rito), dovendosi ritenere, in mancanza, la nullità della sentenza (Cass., sez. III, 30 novembre 2015, n. 24341).

L'individuazione del rito corretto non deve, tuttavia, essere considerata fine a sé stessa, bensì nella sua idoneità ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e sulle prerogative processuali delle parti, con la conseguenza che l'omessa adozione di uno dei provvedimenti di cui all'art. 426,427 o 439 c.p.c., pur in presenza dei presupposti, non determina di per sé l'inesistenza o la nullità del processo o della sentenza. Affinché l'omissione assuma rilevanza, occorrerà che la parte che se ne duole in sede di impugnazione indichi il fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale subito per effetto della mancata adozione del rito diverso (Cass. civ., sez. III, 24 maggio 2023, n. 14374).

Ad analoghe conclusioni dovrà addivenirsi nel caso in cui, pur essendo disposto il mutamento del rito, con provvedimento formale, non si provveda all'assegnazione del termine perentorio per l'integrazione degli atti introduttivi mediante memorie e documenti, risultando in tal caso onere della parte, che eccepisca la nullità del procedimento e della sentenza, fornire prova in ordine a concreti pregiudizi o limitazioni del diritto di difesa (Cass. civ., sez. lav., 7 giugno 2017, n. 14186).

Il mutamento del rito da ordinario a speciale del lavoro

La prima fattispecie, disciplinata dall'art. 426 c.p.c., è quella in cui una causa promossa nelle forme ordinarie (e, quindi, con atto di citazione ex art. 163 c.p.c. o con ricorso ex art. 281-undecies c.p.c.) riguardi uno dei rapporti previsti dall'art. 409 c.p.c., evenienza nella quale il giudice specializzato, assegnatario del fascicolo (eventualmente a seguito di trasmissione per rilievo di competenza o ripartizione degli affari interni), provvederà alla fissazione dell'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., assegnando termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi, mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria.

L'integrazione documentale di atti e documenti, prevista dalla norma, da compiere nel termine, di natura perentoria, assegnato dal giudice all'atto del provvedimento di conversione del rito, è correlata alla struttura stessa del rito laburistico, ed in particolare alla natura anticipata delle preclusioni assertive ed istruttorie, che si appuntano con gli atti introduttivi del giudizio, ai sensi degli artt. 414 e 416 c.p.c. (Cass. civ., sez. lav., 28 aprile 2017, n. 10569). Ciò impone, nel caso di proposizione della domanda con citazione a comparire a udienza fissa ex art. 163 c.p.c., la necessità di immediato completamento della piattaforma assertiva e del quadro probatorio, provvedendo alla cd full disclosure nell'ambito del termine assegnato, non potendosi attendere le cadenze tipiche del procedimento ordinario di cognizione che, nel modello antecedente alle modifiche apportate con la riforma ex d.lgs. n. 149/2022, si dispiegava, nelle fasi procedimentali successive, nell'appendice scritta ai sensi dell'art. 183 6° co. c.p.c..

Ben potendo intervenire il provvedimento di mutamento del rito, da ordinario a speciale, in qualsiasi fase del processo, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass., sez. VI, 21 dicembre 2018, n. 33178) restano ferme le eventuali preclusioni maturate alla stregua della disciplina del rito ordinario, non comportando l'integrazione degli atti introduttivi, mediante memorie e documenti, la regressione del processo ad una fase anteriore a quella già svolta, servendo esclusivamente a consentire alle parti l'adeguamento delle difese alle regole del rito speciale.

Una questione di preminente rilievo nel processo del lavoro è rappresentata dal momento di produzione degli effetti sostanziali e processuali della domanda, in caso di errata scelta del rito, in un ambito, quale quello laburistico, caratterizzato da frequenti questioni di prescrizione (si pensi a quella prevista dall'art. 2948 c.c.) o decadenza (quali, ad esempio, l'impugnativa del licenziamentoex art. 6 l. 604/1966 e le numerose fattispecie disciplinate dall'art. 32 l. n. 183/2010).

È opinione consolidata, a partire dal noto intervento della Corte costituzionale in merito all'art. 426 c.p.c. (Corte cost., 2 marzo 2018, n. 45), quella secondo cui gli effetti sostanziali e processuali della domanda decorrano in ragione della litispendenza che si sarebbe radicata ove l'atto introduttivo avesse avuto la forma prescritta in ordine al tipo di controversia instaurata.

Conseguentemente, qualora l'atto abbia erroneamente assunto la veste di citazione, anziché di ricorso ex art. 414 c.p.c., l'efficacia interruttiva della prescrizione quinquennale ex art. 2948 c.c. o elusiva della decadenza ex art. 32 l. n. 183/2010 si avrà non alla notificazione della citazione, che determina la litispendenza secondo il rito erroneamente incardinato, bensì al deposito avvenuto con l'iscrizione a ruolo della causa, momento al quale si ricollega la litispendenza nel rito del lavoro (Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2018, n. 13072).

Il mutamento del rito da speciale del lavoro a ordinario

La fattispecie speculare, disciplinata dall'art. 427 c.p.c., è quella della proposizione di controversia nelle forme del rito del lavoro, che riguardi un rapporto diverso da quelli previsti dall'art. 409 c.p.c.. In tal caso la norma prevede che il giudice, laddove rilevi che la causa rientra nella sua competenza, disponga la regolarizzazione tributaria degli atti rimettendola, altrimenti, con ordinanza al giudice competente, con fissazione di un termine perentorio, non superiore ai trenta giorni, per la riassunzione con rito ordinario. In tal caso, le prove acquisite durante lo stato di rito speciale avranno l'efficacia consentita dalle norme ordinarie.

Il primo dei due casi regolati dalla norma presuppone la sussistenza di competenza del giudice adito. Il riferimento è, dunque, quello del giudice ordinario competente per materia e territorio, dinanzi al quale sia proposta una causa ordinaria, esclusa dal novero delle controversie di cui all'art. 409 c.p.c., con le forme del rito speciale, ovvero mediante deposito del ricorso introduttivo ai sensi dell'art. 414 c.p.c.

La controversia ordinaria potrebbe, tuttavia, essere incardinata anche dinanzi a un giudice del lavoro, essendo per altro la norma inserita, sedes materiae, nella disciplina del rito laburistico e, pertanto, ragionevolmente volta a regolare, quantomeno in via concorrente, tale fattispecie.

Due sono le ipotesi che possono verificarsi: quella del giudice avente ruolo promiscuo, con funzioni di giudice del lavoro e giudice ordinario e quella del giudice del lavoro incardinato presso una sezione specializzata di Tribunale. Mentre nel primo caso la fattispecie troverà piena applicazione, essendo il giudice assegnatario del fascicolo dotato di competenza per materia e territorio, nel secondo caso dovrà attivare il meccanismo di trasmissione del fascicolo al giudice ordinario sulla base dei criteri di ripartizione degli affari, gravando su l'onere di provvedere alla regolarizzazione fiscale degli atti e al mutamento del rito (Cass. civ., sez. I, 19 luglio 2016, n. 14790).

Il riferimento alla regolarizzazione tributaria degli atti concerne il trattamento fiscale del processo del lavoro che, originariamente esente da tasse e spese risulta, a partire dall'art. 37, comma 6, d.l. n. 98/2011, moderatamente oneroso.

La seconda fattispecie concerne la diversa ipotesi in cui il giudice adito con le forme del rito speciale in una controversia diversa da quelle ricomprese nel novero dell'art. 409 c.p.c., sia sprovvisto di competenza per territorio (oltre che di competenza per materia o sugli affari interni, nel caso in cui si tratti del giudice del lavoro), evenienza nella quale rimetterà la causa al giudice competente, fissando un termine perentorio, non superiore a trenta giorni, per la riassunzione con il rito ordinario.

Va evidenziato come tale termine risulti decisamente più contenuto rispetto a quello trimestrale previsto dall'art. 50, comma 1, c.p.c., per la fattispecie di ordinanza che dichiari l'incompetenza del giudice adito, in assenza di fissazione da parte del giudice, risultando coerente con l'impronta marcatamente acceleratoria dell'impianto normativo speciale, ed in linea con quanto previsto dal successivo art. 428 c.p.c..

L'inosservanza del termine comporta, analogamente alla fattispecie di omessa tempestiva riassunzione nel termine fissato dal giudice o in quello massimo stabilito dalla legge, in applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 50, comma 1 e 307 c.p.c., l'estinzione del giudizio, da eccepirsi tempestivamente nel medesimo grado in cui si sono verificati i fatti che ad essa possono dar luogo (Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1185).

Le prove eventualmente assunte nel processo incardinato con rito laburistico avranno, nel giudizio successivamente riassunto con le modalità ordinarie, secondo il capoverso della disposizione, «l'efficacia consentita dalle norme ordinarie».

Vi è, innanzitutto, da interrogarsi quale sia lo spazio residuo per l'assunzione di prove cui segua un provvedimento di mutamento del rito ai sensi dell'art. 427 c.p.c. con declinatoria di competenza del giudice. La declinatoria di competenza, contenuta nel provvedimento di cui all'art. 427, comma 1, c.p.c. ultima parte deve, difatti, essere coordinata con la regola generale stabilita dal successivo art. 428 c.p.c., che prescrive che la stessa possa essere rilevata ex officio non più tardi dell'udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., fatto salvo il caso che abbia costituito oggetto di tempestiva eccezione di parte.

In tale ristretto ambito può ipotizzarsi che una causa, erroneamente introdotta con il rito laburistico, nella quale vi sia questione di incompetenza territoriale (oltre che per materia), dia luogo all'assunzione di prove anteriormente al provvedimento di mutamento del rito, con termine per la riassunzione dinanzi al giudice competente, con le corrette modalità formali e procedimentali.

Il riferimento alla «efficacia consentita dalle norme ordinarie» deve intendersi, secondo la dottrina più avvertita, nel senso che, essendo la controversia fisiologicamente destinata ad essere trattata con le modalità ordinarie, ad essa non potranno applicarsi le regole derogatorie sostanziali in tema di prova dettate per il rito laburistico, come la prova per testi al di fuori dai limiti del codice civile, l'interrogatorio libero dei testimoni incapaci, la richiesta di informazioni alle organizzazioni sindacali.

Viceversa, laddove la prova rientrante nel modello legale tipico del rito ordinario sia stata disposta ex officio dal giudice del lavoro, la stessa potrà essere utilizzata nel giudizio incardinato a seguito di riassunzione.

In conclusione

La recente riforma Cartabia ha, quantomeno in parte, attenuato lo iato strutturale esistente tra il modello procedimentale ordinario e quello del lavoro. Pur restando la citazione a udienza fissa la forma dell'atto introduttivo ordinario, per effetto della novella la stessa dovrà contenere l'esposizione chiara e specifica dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda (art. 164, n. 4, c.p.c.). Analogamente, la comparsa di risposta dovrà contenere, sul modello della memoria di costituzione ex art. 416 c.p.c., tutte le difese del convenuto e la presa di posizione chiara e specifica sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda (art. 167, comma 1, c.p.c.). 

La successiva attività integrativa del thema decidendum ac probandum è, attualmente, rimessa alle memorie autorizzate ex art. 171-ter c.p.c., che seguono le verifiche preliminari del giudice, nelle quali si concentreranno domande ed eccezioni consequenziali, chiamata di terzo in causa, precisazione e modifica di domande eccezioni e conclusioni, produzioni documentali ed articolazioni istruttorie.

L'anticipazione della definizione dei temi decisionali e di prova è ancora più evidente nel rito semplificato di cognizione, nell'ambito del quale, negli atti introduttivi, le parti dovranno provvedere alle allegazioni in fatto ed alle produzioni documentali e richieste istruttorie, in guisa tale da conseguire, alla prima udienza dinanzi al giudice, la definizione del thema decidendum e del thema probandum, salvo quanto necessario dallo sviluppo dialettico del processo, in modo del tutto analogo al rito del lavoro.

L'attuale evoluzione normativa del processo ordinario di cognizione nella direzione dell'anticipazione delle preclusioni assertive e istruttorie agli atti introduttivi determina, dunque, l'attenuazione del rilievo, in chiave di strumento di immediato adeguamento al sistema di preclusioni processuali, rivestito dal termine per l'integrazione degli atti introduttivi concesso ai sensi dell'art. 426 c.p.c., essendo ora ipotizzabile che le parti, sin dagli atti introduttivi del processo di cognizione, abbiano proceduto alla compiuta delineazione dei temi decisionali e di prova.

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