Le ultime pronunce della Consulta sul “Jobs Act” e il dilemma delle tutele (de)crescenti nel sistema del rapporto di lavoro destabilizzato
Alessandro Gasparini
19 Aprile 2024
Un focus sul tema della “tutela reintegratoriaversustutela indennitaria”, che, analizzando le vicende normative in materia, con una attenta ed approfondita disamina ripercorre le più recenti pronunce della Consulta (sentenza n. 7/2024 del 22 gennaio 2024, sentenza n. 22/2024 del 22 febbraio 2024 e sentenza n. 44/2024 del 19 marzo 2024), soffermandosi sull'orientamento della stessa nel quadro normativo interpretato dalla Corte di cassazione.
Massime
Corte Costituzionale sentenza n. 7/2024
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 76, 117 c. 1 anche in relazione all'art. 24 Carta Sociale Europea, 3, 4, 35, 38, 41 Cost., in merito alla disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell'ambito di un licenziamento collettivo prevista dagli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 (c.d. contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act), che fissa per i lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, la tutela economica in misura di un indennizzo determinato entro un limite massimo fissato per legge (ventiquattro mensilità elevate a trentasei) ed escludendo quella reintegratoria. In particolare, non sussiste eccesso di delega, poiché la l. n. 183/2014, autorizza il Governo ad intervenire sui licenziamenti economici, termine atecnico che comprende, in base alla ricostruzione della ratio della legge, quelli collettivi, non essendo sotto ulteriore profilo vincolante in materia l'interpretazione del Comitato europeo dei diritti sociali di cui alla decisione dell'11 settembre 2019, pubblicata l'11 febbraio 2020 che si è risolta in una raccomandazione del Comitato dei Ministri con funzione propositiva e sollecitatoria; la tutela indennitaria, anche rispetto all'art. 24 Carta Sociale Europea quale parametro interposto, deve ritenersi adeguata; non sussiste alcuna irragionevolezza nella previsione di due tipologie di tutela nell'ambito del medesimo licenziamento collettivo, in relazione alla data di assunzione dei lavoratori coinvolti, in ragione della finalità della norma, che è quella di favorire l'occupazione.
Corte Costituzionale sentenza n. 22/2024
È costituzionalmente illegittimo per eccesso di delega l'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 limitatamente alla parola «espressamente». L'eccesso di delega per violazione del criterio direttivo di cui all'art. 1, comma 7 della l. 183/2014, trova riscontro sia nell'univoca “lettera” di quest'ultimo, che ammette distinzioni per i licenziamenti disciplinari, ma non anche per quelli nulli, sia nell'interpretazione sistematica per la contraddittorietà di una distinzione che non si accompagni, diversamente che per i licenziamenti disciplinari, alla previsione del tipo di tutela applicabile alla fattispecie esclusa dal regime della reintegrazione. In sostanza, per effetto della pronuncia, anche nella vigenza del Jobs Act, il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l'espressa sanzione della nullità (nullità testuale), sia che ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata (nullità virtuale) e comunque «salvo che la legge disponga diversamente». Occorre, però, pur sempre che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.
Corte Costituzionale sentenza n. 44/2024
Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale per eccesso di delega dell'art. 1, comma 3, d.lgs. n. 23/2015 (Jobs Act) nella parte in cui, in caso di datore di lavoro che integri il requisito dimensionale di cui all'art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo citato (7 marzo 2015), estende l'applicazione del regime di tutela del licenziamento individuale illegittimo, previsto per i contratti a tutele crescenti, anche ai lavoratori assunti prima dell'entrata in vigore dello stesso decreto (e che non godevano di una tutela reintegratoria ma solo di quella obbligatoria di cui alla l. n. 604/1966). Il legislatore delegato ha rispettato lo scopo della delega di incentivare le nuove assunzioni e di dettare una normativa completa: per il datore di lavoro, con una piccola impresa, la prospettiva che, superata la soglia dei quindici dipendenti nell'unità produttiva, la disciplina dei licenziamenti individuali fosse la stessa (quella del decreto legislativo) per tutti i suoi dipendenti – sia neoassunti, sia già in servizio – rappresentava uno stimolo (o il venir meno di un freno) a crescere nella dimensione aziendale.
1. I licenziamenti collettivi e la diversità delle tutele (Corte Cost. n. 7/2024)
Il caso da cui scaturisce il rinvio alla Corte Costituzionale riguarda un licenziamento, intimato in data 1° luglio 2016, ad una lavoratrice assunta in data 1° maggio 2016, a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo per «riduzione del personale» avviata ai sensi degli artt. 4 e 24, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223, censurato per violazione della procedura e per la non corretta applicazione dei criteri di scelta.
La Corte d'Appello di Napoli aveva già sollevato questioni di legittimità costituzionale, nell'ambito del medesimo procedimento, per profili in parte uguali ed in parte connessi, dichiarati inammissibili per una insufficiente individuazione dei vizi del licenziamento collettivo e per l'incertezza sul tipo di intervento richiesto (sentenza n. 254/2020); anche il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE si è concluso con una pronuncia in rito declaratoria di manifesta incompetenza per l'estraneità della controversia del procedimento principale, relativa alle conseguenze dell'atto di recesso, agli obblighi imposti dalla direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (ordinanza del 4 giugno 2020, in causa C-32/20, TJ contro B srl).
La Corte d'Appello di Napoli quindi, con nuova ordinanza del 16 aprile 2023, in sintesi, quanto ai profili che qui interessano, rimette la questione alla Corte Costituzionale dubitando della legittimità dell'apparato rimediale di cui al combinato disposto dell'art. 10 che richiama l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act) che in caso di licenziamento collettivo illegittimo (per violazione delle procedure richiamate dall'art. 4, comma 12 o dei criteri di scelta di cui all'art. 5 della l. n. 223/1991) prevede come conseguenza la tutela indennitaria fra un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità, secondo la disciplina applicabile alla fattispecie controversa, poi elevata da un minimo di 6 ad un massimo di 36 mensilità per effetto del c.d. decreto dignità, il d.l. n. 87/2018, conv., con modif., in l. n. 96/2018.
Ritiene in particolare la Corte d'Appello che vi sia stato un eccesso di delega poiché i licenziamenti collettivi non rientrerebbero nei “licenziamenti economici” a cui si riferisce la legge, che tale normativa creerebbe una illegittima disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima o dopo l'entrata in vigore del citato decreto, ossia il 7 marzo 2015, che le tutele previste non sarebbero adeguate ed efficaci.
In altri termini ci si chiede se sia giusto o meno che nell'ambito di un medesimo licenziamento collettivo per riduzione del personale, in caso di accertata illegittimità dello stesso per i medesimi vizi, alcuni lavoratori possano essere reintegrati ed altri “debbano accontentarsi” di un'indennità risarcitoria, ritenuta peraltro insufficiente.
Il principio ribadito dalla Corte Costituzionale non lascia spazio a dubbi: «vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, censurati sotto diversi profili e con riferimento agli indicati parametri, nella parte in cui hanno modificato la disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell'ambito di un licenziamento collettivo, fissando, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, la tutela economica in misura di un indennizzo determinato entro un limite massimo fissato per legge ed escludendo quella reintegratoria» (punto 20 della motivazione).
1.1 Tutela reintegratoria versus tutela indennitaria
La risposta negativa della Corte Costituzionale non può stupire, essendosi già pronunciata su questioni del tutto analoghe.
La Corte, infatti, individua il nucleo della questione sottoposta al suo esame come ulteriore aspetto del generale tema “tutela reintegratoriaversustutela indennitaria” e ritiene necessario premettere una “essenziale” ricostruzione delle recenti vicende normative relative alla tutela dei lavoratori in caso di licenziamento illegittimo e delle pronunce della stessa Corte in materia (punti 4 e 5 della motivazione). In particolare, vengono richiamate le riforme di cui alla l. n. 92/2012 (riforma Fornero), la l. n. 183/2014 e il d.lgs. n. 23/2015 (Jobs Act o riforma Renzi che hanno introdotto il c.d. “contratto a tutele crescenti”), il d.l. n. 87/2018, conv., con modif., in l. n. 96/2018 (c.d. decreto dignità) nonché le sentenze nn. 194/2018 e 150/2020 che hanno dichiarato illegittimo il rigido automatismo legato all'anzianità di servizio previsto dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23/2015 nella quantificazione dell'indennità risarcitoria; le sentenze nn. 59/2021 e 125/2022 che hanno esteso la tutela reintegratoria di cui all'art. 18 anche alle ipotesi di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; la sentenza n. 183/2022 che ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate in relazione alla limitata tutela indennitaria (3-6 mensilità per i licenziamenti dei dipendenti di piccole imprese) di cui all'art. 9 d.lgs. n. 23/2015, sentenza in cui però la Corte, dato atto del mutato contesto economico, della evoluzione della tecnologia, della trasformazione dei processi produttivi che non giustifica più una tale differente disciplina fondata solo sul numero dei dipendenti, ha ammonito il legislatore ad intervenire non essendo tollerabile l'ulteriore protrarsi della sua inerzia, a fronte della quale la Corte ha dichiarato che se nuovamente investita, interverrebbe direttamente.
1.2 L'eccesso di delega: i licenziamenti economici
Si passa quindi a risolvere la prima questione, quella dell'eccesso di delega poiché nel Jobs Act (l. n. 183/2014, all'art. 1, comma 7, lett. c) si fa riferimento all'eliminazione della tutela reintegratoria unicamente per i “licenziamenti economici”. La Corte dopo aver ripercorso l'iter parlamentare della legge delega e il successivo iter del decreto delegato, ha ricordato come debba prevalere l'interpretazione letterale e sistematica della legge delega, ossia quella basata sulla ratio della stessa, essendo i lavori parlamentari solo orientativi e non potendo questi mai prevalere sul dato testuale della legge, quale emerge dal dato letterale e logico.
Fatta questa premessa, la Corte, ritenendo infondata la questione, afferma che il termine “licenziamento economico” è atecnico e come tale giuridicamente ambiguo in quanto può riferirsi e si riferisce sia al licenziamento individuale per ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, cioè al giustificato motivo oggettivo (art. 3 l. n. 604/1966 seconda parte), sia ai licenziamenti collettivi con riduzione di personale per “ragioni di impresa” (art. 24 l. n. 223/1991).
1.3 La disparità di trattamento e il fluire del tempo
Quanto alla disparità di trattamento causata dall'articolazione temporale della disciplina, che la Corte tratta come ultima questione (dal punto 16 della motivazione), viene confermato l'orientamento che nega la violazione del principio di uguaglianza, declinato come vaglio di ragionevolezza del regime differenziato, già espresso con riferimento ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo di cui alla precedente sentenza n. 194/2018. Ritiene infatti la Corte che “il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche […] e che spetta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme” e che il regime temporale differenziato trova la sua ragione nella finalità perseguita dal legislatore “di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione (art.1, comma 7, della legge n. 183 del 2014) […] sicché appare coerente limitare l'applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita”. Nello sviluppo della motivazione la Corte osserva che per i “nuovi” lavoratori, assunti (si presume) grazie al “dimensionamento” delle tutele (con la riduzione dell'area della reintegrazione, definita anche come “accentuazione della flessibilità in uscita”), si giustifica (appare proporzionato) un trattamento differenziato rispetto ai lavoratori già in servizio, nei confronti dei quali risulterebbe invece ingiustificata, in base al medesimo principio, una delimitazione delle tutele. In altri termini dovrebbe considerarsi illegittimo un sistema che preveda l'applicazione di un medesimo regime sanzionatorio uguale per tutti i lavoratori, come ad esempio avverrebbe nel caso di disciplina applicabile in base alla data del licenziamento.
La Corte poi osserva che il predetto trattamento differenziato appare coerente con il sistema, considerando che il licenziamento collettivo costituisce una fattispecie autonoma e unitaria ad effetti plurisoggettivi che richiede una regolamentazione necessariamente uniforme, mentre nella fase delle conseguenze sanzionatorie ciascun licenziamento assume rilievo autonomo (viene opportunamente richiamato l'orientamento della Corte di Cassazione secondo cui la violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5 può essere invocato solo da coloro che tra essi abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione; Cass. n. 13871/2019; Cass. n. 24558/2016). D'altronde, il sistema in materia di licenziamenti si compone strutturalmente di una parte relativa ai limiti del datore di lavoro in relazione al recesso dal rapporto o, detto da altra prospettiva, dei motivi per cui un licenziamento può essere illegittimo, e di una parte relativa alle sanzioni del datore di lavoro o, detto da altra prospettiva, dei rimedi a tutela del lavoratore, sistema che dal 2012, ha visto, per opera del legislatore (l. n. 92/2012 riforma Monti-Fornero e l. n. 23/2015 riforma Renzi), un sempre più articolato sistema sanzionatorio/rimediale che, ispirato dalle dottrine della law & economics, ha progressivamente abbandonato il rimedio ripristinatorio in favore della tutela monetaria.
1.4 L'adeguatezza costituzionale del sistema delle tutele
Due sono le questioni che si sovrappongono in relazione alla ulteriore censura di inadeguatezza delle tutele.
La prima questione (punto 17 della motivazione) riguarda l'adeguatezza e dissuasività di rimedi diversi dalla reintegra e rispetto ad essa la Corte conferma un orientamento già espresso secondo cui la “costante giurisprudenza di questa Corte che, pur segnalando che la garanzia del diritto al lavoro impone l'adozione di temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro, individua nella tutela reale solo uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro (sentenze n. 183/2022, n. 150/2020, n. 194/2018 e n. 46/2000), spettando al legislatore modulare il sistema delle tutele “nell'esercizio della sua discrezionalità e della politica economico-sociale che attua”, in considerazione del contesto economico e sociale di riferimento (sentenza n. 2/1986)”.
La seconda questione (punto 18 della motivazione), speculare alla prima, è se una tutela meramente indennitaria sia sufficiente, efficace, dissuasiva, in particolare ove sia previsto un “tetto” massimo. Per affrontare il tema, la Corte richiama una articolata serie di suoi precedenti, anche risalenti nel tempo, secondo cui deve (costituzionalmente) essere garantito il diritto del lavoratore a non subire un licenziamento arbitrario (sentenze n. 60/1991, n. 541/2000, ordinanza n. 56/2006), che quindi il recesso deve necessariamente essere giustificato (sentenza n. 41/2003), che il diritto al lavoro è un diritto fondamentale che il legislatore deve tutelare (sentenza n. 194/2018) ma che nel farlo ha ampia discrezionalità, nella scelta dei tempi e dei modi, in relazione alla situazione economica generale (sentenze nn. 194/1970, 55/1974, 189/1975, 2/1986), non essendo quello della tutela reale l'unico paradigma possibile (sentenza 46/2000), ricordando in relazione a tale aspetto la ritenuta legittimità dell'esclusione della reintegra per le imprese al di sotto del requisito dimensionale (sentenze nn. 2/1986, 152/1975, 55/1974). In sostanza la Corte ribadisce chiaramente che nel bilanciamento tra diritto al lavoro e libertà d'impresa, deve escludersi la necessità di un determinato regime di tutela (sentenza n. 46/2000), ben potendo essere previsto un meccanismo solo di tipo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303/2011).
Su questo ultimo aspetto, ossia quello della quantificazione del risarcimento, la Corte ricorda che la regola della integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale (sentenze nn. 148/1999, 369/1996, 132/1985) ma che deve essere garantita l'effettività e l'adeguatezza dell'indennizzo (sentenze nn. 199/2005, 420/1991, 303/2011), ossia che venga riconosciuto “un ristoro del pregiudizio sofferto, serio ed equilibrato, la cui funzione dissuasiva non sia inficiata dalla predeterminazione di un tetto massimo, fissato in un importo sufficientemente elevato e non condizionato esclusivamente all'anzianità” (principio affermato in relazione al sistema delle tutele introdotto dal d.lgs. n. 23/2015, sentenza n. 194/2018). La Corte precisa altresì che l'adeguatezza del rimedio forfetizzato richiede che lo stesso sia tale da realizzare un ragionevole contemperamento degli interessi in conflitto (sentenze nn. 235/2014, 303/2011, 482/2000, 132/1985), terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore “chiamato a salvaguardare la complessiva adeguatezza, che consenta di attribuire il doveroso rilievo al fatto, in sé sempre traumatico, dell'espulsione del lavoratore” (con riferimento alla disciplina dei licenziamenti, cfr. sentenza n. 150/2020). Così deve ritenersi adeguata la tutela indennitaria (ferma restando la reintegra per i casi più gravi di licenziamento nullo, discriminatorio e disciplinare fondato su fatti insussistenti), determinata nell'importo massimo pari a 24 mensilità poi elevato a 36 mensilità, che risulta proporzionato se comparato alle 15 mensilità che sia la legge n. 300/1970 sia il d.lgs. n. 23/2015 individuano quale equivalente sostitutivo della reintegra e considerando altresì (sempre secondo la Corte) che anche questo tetto massimo dell'indennità, risponde all'esigenza di favorire le nuove assunzioni, disponendo conseguenze sanzionatorie certe e prevedibili in caso di licenziamento. Su questo ultimo punto però, la Corte ricorda che l'indennità pur assorbendo tendenzialmente qualunque voce di danno, patrimoniale e non patrimoniale, non preclude alla giurisprudenza di identificare ipotesi di danno ulteriore risarcibile, come nel caso di danni derivanti dal licenziamento ingiurioso (Cass. n. 1507/2021).
Tale sistema (punto 12-14 e 19 della motivazione della sentenza in commento) non risulta nemmeno in contrasto con l'art. 24 Carta Sociale Europea, CSE (strumento convenzionale inserito nel sistema del Consiglio d'Europa che si affianca alla CEDU ma che a differenza di essa non può imporre alcun vincolo conformativo per gli stati contraenti derivanti dall'interpretazione che di essa venga fatta dal Comitato Europeo dei diritti sociali), invocato come parametro interposto ex art. 117, primo comma Cost. (così inteso dalla giurisprudenza della Corte nell'ambito del complesso sistema delle fonti multilivello, cfr. sentenze 120 e 194 del 2018), sia rispetto alla legge delega che prescrive la coerenza con il diritto dell'Unione Europea e delle convenzioni internazionali, sia quale parametro in sé di adeguatezza della tutela.
Tale disposizione della Carta Sociale Europea riconosce infatti il “diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”: il Comitato europeo dei diritti sociali, organo ausiliario privo di natura giurisdizionale, nella decisione (autorevole, con carattere propositivo e sollecitatorio, ma priva di valore vincolante) dell'11 settembre 2019, pubblicata l'11 febbraio 2020, con riferimento al sistema italiano all'esito di un reclamo collettivo proposto dalla CGIL (e nella decisione del 26 settembre 2022 con riferimento all'analogo, sotto il profilo del tetto massimo, sistema francese), ha ritenuto le disposizioni nazionali di cui al d.lgs. n. 23/2015 che prevedono un tetto all'indennizzo, contrastanti con la citata disposizione, cui ha fatto seguito la risoluzione interlocutoria del Consiglio dei Ministri d'Europa dell'11 marzo 2020. Ciò, tuttavia, non consente per le ragioni ricordate, di ritenere illegittima la normativa in esame.
Sulla dissuasività della tutela economica, appare opportuno in questa sede, ampliare l'orizzonte e richiamare l'attuale situazione dell'ordinamento francese, per molti aspetti simile a quello nazionale (per una analisi approfondita delle due discipline e per tutti i riferimenti v. in questa rivista Ilaria Cendret, Il regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo: Italia e Francia a confronto, in IUS UE e Internazionale (ius.giuffrefl.it), 10 novembre 2022). L'ordonnance n°2017-1387 del 22 settembre 2017 (ratificata dalla legge n° 2018-217 del 29 marzo 2018 e entrata in vigore il 1° aprile 2018), ha introdotto una griglia limitativa del montante di indennizzo del lavoratore nei casi di licenziamento “sans causeréelle et sérieuse” (c.d. Barème Macron) (vale la pena ricordare che in Francia la reintegrazione nel posto di lavoro si applica solamente se il datore di lavoro acconsente, salvo i casi gravi che grossomodo coincidono con quelli nulli dell'art. 2 d.lgs. n. 23/2015) che ha superato indenne il vaglio di legittimità costituzionale (Conseil Constitutionnel, décision n. 2018-761 DC du 21-03-2018) e ottenuto parere favorevole, anche rispetto alla normativa internazionale, da parte del Conseil d'Etat e della Cour de Cassation . Secondo la giurisprudenza francese il legislatore nazionale ha ampia discrezionalità nell'articolare un meccanismo di tutela indennitario fisso e prestabilito, basato su criteri (il livello stipendiale, l'anzianità di servizio, la gravità del licenziamento) che consente alle stesse parti coinvolte di determinare l'ammontare del pregiudizio in caso di licenziamento illegittimo e di evitare una varietà incontrollata di decisioni giudiziali.
1.5 L'orientamento della Consulta nel quadro normativo interpretato dalla Corte di Cassazione
Se per la Corte Costituzionale il sistema delle tutele del lavoratore con reintegrazione recessiva come approntato dal legislatore “regge” nel suo complesso, non può non sottolinearsi che il consolidamento dello stesso ha posto le basi per uno storico revirement della Corte di Cassazione in materia di prescrizione dei crediti di lavoro, sulla base di una ritenuta riduzione delle tutele, tale da far rivivere quel “metus” che impedisce al lavoratore di agire in giudizio per far valere i propri diritti, mettendo a rischio il proprio posto di lavoro.
Si fa riferimento alla nota sentenza della Cassazione sezione lavoro n. 26246/2022 pubblicata il 6 settembre 2022 (rel. Patti), divenuta in breve, a quanto pare, diritto vivente (Cass., n. 29831/2022, n. 30957/2022, n. 30958/2022, n. 4307/2023, n. 8403/2023) in cui si prende atto del carattere ormai recessivo della tutela reintegratoria, anche alla luce degli interventi della Corte Costituzionale (sostanzialmente quelli richiamati nella sentenza qui in commento) e si afferma che le tutele vigenti non appaiono idonee a garantire un'adeguata stabilità del rapporto di lavoro, sicché la prescrizione non decorre se non dalla cessazione del rapporto stesso (con effetti dirompenti, dovendosi ritenere non prescritti quei crediti maturati entro il quinquennio dall'entrata in vigore della l. n. 92/2012 e quindi determinando una situazione in cui il datore di lavoro scopre all'improvviso, dopo 10 anni dalla entrata in vigore di una legge, che la prescrizione quinquennale dei crediti dei propri dipendente da sempre decorrente in corso di rapporto si era in realtà “bloccata” nel luglio 2012).
E cosa si intenda per stabilità lo ricorda la stessa Corte di Cassazione: “dovendosi ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Il che, se per la generalità dei casi coincide(va) attualmente con l'ambito di operatività della legge 20 maggio 1970, n. 300 (dati gli effetti attribuiti dall'art. 18 all'ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604), può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d'opera una tutela di pari intensità (Cass. s.u. 12 aprile 1976, n. 1268)”.
Ancora più significative appaiono le parole utilizzate al punto 6 della motivazione della richiamata sentenza della Cassazione: “l'individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, ai fini qui d'interesse, in base alla qualificazione ad esso attribuita dal giudice, con un giudizio necessariamente ex post, contraddice radicalmente quei requisiti di chiara e predeterminata conoscibilità ex ante, coerente con l'esigenza di certezza sopra illustrata, per l'affidamento di una tale selezione, delicata e fondamentale, al pernicioso criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale, fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema”.
La tutela apprestata dall'attuale art. 18 l. n. 300/1970 e dagli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 23/2015, pur costituzionalmente legittima, rende, per i giudici di legittimità il rapporto di lavoro instabile, essendo le stesse forme di tutela non chiare e predeterminabili ex ante da parte del lavoratore con conseguente effetto di riespandere (quale effetto collaterale di sistema) la tutela sotto il profilo della non decorrenza del termine di prescrizione dei crediti di lavoro. Non può non rilevarsi che la Corte di Cassazione giunge a questa conclusione, premettendo, in un breve passaggio, di poter affrontare e risolvere l'intera questione senza passare dalla Corte Costituzionale che quella regola aveva creato a partire dall'art. 2948 n. 4 c.c. ed elaborato con le sentenze nn. 63/1966, 143/1969, 86/1971 174/1972.
Alla luce delle pronunce del giudice delle leggi e di quello di legittimità, nel quadro normativo vigente, si ricava una visione complessiva del sistema di tutele del lavoratore, costituzionalmente adeguato ma sempre più incerto e incoerente nella sua concreta attuazione, che rende ancora più delicato e difficile il ruolo dell'interprete, chiamato ad affrontare ogni giorno la giustizia del caso concreto sottoposto al suo esame, in tempi sempre più ristretti. Ed è proprio in tale contesto che si colloca l'ulteriore questione affrontata dalla Corte nella sentenza 22/2024.
2. Le nullità del licenziamento illegittimamente escluse dal Jobs Act (sentenza 22/2024)
2.1 I fatti e la questione di legittimità costituzionale
La questione è stata sollevata dalla Corte di Cassazione in relazione ad un giudizio avente ad oggetto un licenziamento disciplinare/destituzione di un autista assunto dopo il 7 marzo 2015 da una società esercente il servizio di trasporto pubblico urbano, ai sensi della normativa speciale prevista per gli autoferrotranvieri dall'art. 53 e 54 dell'Allegato A al R.d. n. 148/1931 (disciplina ritenuta tuttora vigente dalla stessa Consulta, sentenza 188/2020), nonostante sul punto sono stati ragionevolmente sollevati molti dubbi, anche alla luce dell'art. 102 lett. b d.lgs. n. 112/1998 che ha, tra l'altro, nel disciplinare la delega di funzioni agli enti locali, soppresso le funzioni amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina (v. A. Campione, La nullità del licenziamento dell'autoferrotranviere in caso di mancata costituzione del consiglio di disciplina, in Lav. giur., 2023, 10, 924 ss.). In particolare, la Corte d'Appello di Firenze (la cui decisione veniva impugnata in Cassazione da entrambe le parti) aveva accertato la violazione di una forma di garanzia procedurale ulteriore e speciale rispetto a quella prevista dall'art. 7 St. Lav. (conformemente al diritto vivente) e dichiarato la nullità del procedimento disciplinare e della conseguente sanzione in quanto la potestà punitiva era stata esercitata dal datore di lavoro ormai privo di tale facoltà, trattandosi di norma di natura inderogabile che costituisce prescrizione di validità dell'atto. Tuttavia, non trattandosi di un'ipotesi riconducibile ad un caso di nullità espressamente previsto dalla legge, aveva applicato la tutela indennitaria exart. 3 d.lgs. n. 23/2015.
In concreto il lavoratore aveva richiesto, dopo la contestazione disciplinare, le giustificazioni rese, l'opinamento alla destituzione, di essere nuovamente sentito a propria difesa, richiesta rispetto alla quale è, per disposizione normativa (art. 53, co. 9 all. A cit.), competente il Consiglio di disciplina, quale organo terzo. Nonostante tale richiesta, il Consiglio di disciplina non veniva costituito (la Regione Toscana non aveva infatti indicato il proprio rappresentante) e la sanzione espulsiva veniva irrogata dallo stesso amministratore delegato che aveva proceduto alla contestazione disciplinare.
La Corte di Cassazione, in estrema sintesi, ritenendo corretto l'assunto per cui la violazione della procedura prevista dall'art. 53 all. A cit. determinava la nullità del provvedimento disciplinare, che tale nullità “di protezione” non era espressamente prevista dalla legge (l'art. 53 è norma imperativa di cui all'art. 1418 co. 1 c.c. e non appariva possibile una interpretazione costituzionalmente orientata; cfr. su questo punto l'interessante richiamo al simile caso dell'aggettivo “materiale”, di cui all'art. 3 co. 2 d.lgs. n. 23/2015 che ha avuto una diversa evoluzione, D. Bernardi, Il ritorno della nullità virtuale nei licenziamenti, Corte Cost. 22/2023 in Lav. giur., 2024, 3, 253), che non poteva trovare applicazione la tutela reintegratoria di cui all'art. 2 d.lgs. n. 23/2015, dubita della legittimità di tale ultima disposizione normativa, limitatamente al potere di delega di cui all'art. 1, comma 7, lettera c) legge n. 183/2014. Secondo la Corte di Cassazione infatti la legge delega avrebbe incaricato il Governo di limitare la tutela reintegratoria (tra l'altro) ai licenziamenti nulli, senza tuttavia consentire ulteriori distinzioni tra le diverse tipologie di nullità.
2.2 La risposta della Corte
La Corte Costituzionale, ripercorso succintamente l'inesorabile cammino della tutela reintegratoria sul viale del tramonto, dagli albori di cui alla l. n. 300/1970 al d.lgs. n. 23/2015, passando per il punto di svolta di cui alla L. 92/2012, rileva come il licenziamento discriminatorio, nullo (senza alcuna limitazione ed anzi in ogni altra ipotesi «riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge») e intimato in forma orale, sono sempre rimasti immuni dall'arretramento delle tutele e quantomeno anche con la riforma dell'art. 18 St. Lav., “in cima alla piramide della gravità delle violazioni che comportano la illegittimità del recesso datoriale”.
In particolare la Corte rileva che i casi di licenziamento discriminatorio, “in quanto tale nullo” (ma che dallo stesso va tenuto concettualmente distinto, essendo scorretto parlare di “licenziamento nullo e discriminatorio”) sono stati espressamente previsti dalla legge (art. 4 l. n. 604/1966, l. n. 108/1990) ma che, accanto ad essi, la giurisprudenza di legittimità ha individuato ulteriori ipotesi di nullità per violazione di norma imperativa, come nel caso di licenziamento per perduranti assenze per malattia o infortunio, prima del superamento del periodo di comporto, per effetto del combinato disposto dell'art. 2110 co. 2 e art. 1418 co. 1 c.c. (Cass., SS.UU., n. 12568/2018 e n. 2072/1980). In altri casi (art. 2 l. n. 1204/1971), è stata la stessa Corte Costituzionale ad intervenire (sentenza n. 61 del 1991), qualora la giurisprudenza di legittimità avesse ritenuto che l'assenza (all'epoca) di una espressa previsione di nullità del recesso, precludesse la possibilità di dichiarare la nullità del licenziamento della lavoratrice madre nel periodo di gravidanza. In altri casi ancora è stata invece la stessa giurisprudenza di legittimità a ritenere che la violazione di una norma imperativa determinasse la nullità del licenziamento: in questo caso il riferimento è al lavoro pubblico contrattualizzato ed in particolare alle garanzie procedimentali di cui all'art. 55-bis comma 4 d.lgs. n. 165/2001 (Cass., sez. lav., 26 novembre 2015, n. 24157; si v. anche in merito alle conseguenze per la violazione del termine di riapertura del procedimento disciplinare sospeso, ex art. 55-ter, d.lgs. n. 165/2001, le contrastanti pronunce Cass., n. 24573/2022 e n. 12842/2023). La piena operatività dell'art. 1418, co. 1, c.c. per il pubblico impiego è stata limitata con l'art. 13, comma 1, lett. f, d.lgs. n. 75/2017 che ora stabilisce che la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare non determina l'invalidità degli atti e della sanzione irrogata, sempre che non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente. Allo stesso modo, sono casi in cui la legge dispone diversamente, la violazione della procedura di cui all'art. 7 St. Lav. nel regime di tutela sia della legge n. 92/2012, sia del d.lgs. n. 23/2015.
Dunque, a fronte di una concorde esigenza di tutela avvertita della giurisprudenza e dello stesso legislatore, il dissonante spirito della riforma del 2015 “sdoppia” la fattispecie unitaria, ampia e onnicomprensiva: da un lato, il licenziamento “espressamente” nullo; dall'altro, il licenziamento nullo, ma senza l'espressa (e quindi testuale) previsione della nullità.
La Corte Costituzionale dunque conferma la correttezza del presupposto interpretativo su cui si fonda la questione oggetto di scrutinio, ossia che l'avverbio «espressamente», escluda dall'ambito applicativo della norma censurata tutte le ipotesi in cui, pur ricorrendo la violazione di una norma imperativa, la nullità non sia testualmente prevista come conseguenza della stessa; “Il carattere espresso della nullità non può significare altro che la disposizione che sancisce – o dalla quale può farsi derivare – un divieto di licenziamento deve anche prevedere, come conseguenza della sua violazione, la sanzione della nullità; ciò che avviene nelle ipotesi del licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione dei divieti di licenziamento in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ma non in una serie di altre ipotesi in cui opera solo la violazione del divieto posto da una norma imperativa ex art. 1418, primo comma, cod. civ., in assenza dell'espressa previsione della nullità. Il licenziamento resta nullo, ma non è soggetto alla tutela reintegratoria dell'art. 2, comma 1, censurato dal giudice a quo”. (punto 5 motivazione). Tale assunto trova conferma nella tradizionale distinzione, condivisa da dottrina e giurisprudenza, tra nullità testuali (ossia quelle che prevedono espressamente la sanzione della nullità, quale conseguenza della violazione di una norma imperativa) e nullità virtuali (quelle che, pur in mancanza di tal espressa previsione, derivano comunque dalla contrarietà a norme imperative ai sensi del primo comma dell'art. 1418 cod. civ. “salvo che la legge disponga diversamente”). Queste ultime richiedono all'interprete di accertare se il legislatore, con la prescrizione di norme imperative, abbia anche inteso far discendere, dalla contrarietà dell'atto negoziale ad esse, la sua nullità. Del resto, afferma la Corte, una diversa lettura della norma in senso inclusivo di tutte le nullità previste dalla legge, pur sostenuta da una parte della dottrina, renderebbe inutiliter datum l'avverbio “espressamente”; si tratterebbe di un'inammissibile interpretatioabrogans.
Partendo da tali premesse, la Corte giunge agevolmente a ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale.
Il criterio direttivo fissato dall'art. 1, comma 7, lett. c) legge n. 183/2014 consentiva la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento”.
Dopo aver richiamato (punti 7 e 8 della motivazione) i principi relativi al giudizio di costituzionalità in relazione all'eccesso di delega, la Corte (punto 9 e 10) rileva che, in negativo, la legge delega ha precluso la tutela reintegratoria per i licenziamenti economici e, in positivo, ha imposto tale tutela ai licenziamenti nulli e discriminatori, senza distinzioni, nonché ad alcune specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
A tali conclusioni si giunge partendo innanzitutto dal dato letterale: in primo luogo nella “lettera” dell'indicato criterio direttivo manca del tutto la distinzione tra nullità «espressamente» previste e nullità conseguenti sì alla violazione di norme imperative, ma senza l'espressa loro previsione come conseguenza di tale violazione. Il prescritto mantenimento del diritto alla reintegrazione è contemplato per i «licenziamenti nulli» tout court, laddove una eventuale distinzione, inedita – come si è visto sopra nel richiamare il quadro normativo di riferimento – rispetto alla disciplina previgente dei licenziamenti individuali, avrebbe richiesto una previsione (questa sì) espressa.
In secondo luogo, il senso letterale dell'espressione contenuta nell'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 risulta ancora più univoco se posto in correlazione con la successiva limitazione a «specifiche fattispecie» riferita esclusivamente al «licenziamento disciplinare ingiustificato»; quindi il criterio direttivo ha previsto sì una distinzione, ma solo per il licenziamento disciplinare (per giustificato motivo soggettivo). Se il legislatore delegante avesse voluto una qualche distinzione anche tra le nullità l'avrebbe parimenti prevista, come per il licenziamento disciplinare. La distinzione tra nullità espresse e nullità che tali non sono, non è, dunque, riconducibile al criterio di delega nella sua portata testuale.
Anche procedendo ad un'indagine sistematica e teleologica, quindi volta ad individuare la ratio della delega che è, secondo la Corte, quella di introdurre una nuova disciplina generale dei licenziamenti per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 «a copertura integrale per tutte le ipotesi di invalidità», finalità rispetto alla quale la distinzione tra le diverse tipologie di nullità appare del tutto eccentrica: limitare la tutela reintegratoria ad alcuni casi di nullità e non ad altri, significa introdurre una disciplina incompleta. Osserva la Corte: “Sono rimasti privi di regime sanzionatorio le fattispecie di licenziamenti nulli privi della espressa (e testuale) previsione della nullità, i quali per un verso, non avendo natura “economica”, non possono rientrare tra quelli per i quali la reintegra può essere esclusa, ma, per altro verso, in ragione della disposizione censurata, non appartengono a quelli per i quali questa tutela va mantenuta, senza che ad essi possa alternativamente applicarsi la tutela indennitaria, di cui al successivo art. 3, che riguarda le diverse fattispecie dei licenziamenti privi di giustificato motivo, soggettivo e oggettivo, o dell'art. 4, che opera in relazione ai soli vizi formali e procedurali riconducibili al requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma secondo, della legge n. 604 del 1966 o alla procedura di cui all'art. 7 statuto lavoratori”.
Quindi il legislatore delegato non poteva procedere ad alcuna “specificazione” nell'ambito del licenziamento nullo e ciò facendo ha violato il criterio direttivo.
2.3 I casi di nullità
La stessa Consulta richiama esemplificativamente alcuni casi per cui il legislatore delegato avrebbe escluso illegittimamente la tutela reintegratoria, ipotesi ritenute “rilevanti” quali il già menzionato licenziamento in periodo di comporto per malattia, il licenziamento intimato in violazione del “blocco” dei licenziamenti economici durante il periodo emergenziale (art. 46 d.l. n. 18/2020, conv., con modif., in l. n. 27/2020 “Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604. Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”), il licenziamento dei lavoratori per infrazioni in occasione degli scioperi nel settore dei servizi pubblici essenziali (“I lavoratori che si astengono dal lavoro in violazione delle disposizioni dei commi 1 e 3 dell'articolo 2 o che, richiesti dell'effettuazione delle prestazioni di cui al comma 2 del medesimo articolo, non prestino la propria consueta attività, sono soggetti a sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità dell'infrazione, con esclusione delle misure estintive del rapporto o di quelle che comportino mutamenti definitivi dello stesso”, art. 4, c. 1 l. n. 146/1990), il licenziamento del tossicodipendente in riabilitazione in violazione del diritto alla conservazione del posto (“I lavoratori di cui viene accertato lo stato di tossicodipendenza, i quali intendono accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi sanitari delle unità sanitarie locali o di altre strutture terapeutico-riabilitative e socio-assistenziali, se assunti a tempo indeterminato hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro per il tempo in cui la sospensione delle prestazioni lavorative è dovuta all'esecuzione del trattamento riabilitativo e, comunque, per un periodo non superiore a tre anni” art. 124, co. 1, d.P.R. n. 309/1990).
In tale elenco esemplificativo la Corte richiama un esempio che, nell'economia dell'argomentazione svolta (casi che sarebbero esclusi non configurando “nullità testuali”), desta qualche perplessità, facendo riferimento al: “licenziamento per motivo illecitoex art. 1345 cod. civ., quale quello ritorsivo del dipendente (il cosiddetto whistleblower), che segnala illeciti commessi dal datore di lavoro (art. 2, comma 2-quater, della legge 30 novembre 2017, n. 179, recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato»)”.
La norma richiamata infatti (oggi sostituita dagli artt. 17 e 19 d.lgs. n. 24/2023, in vigore dal 15 luglio 2023, che comunque prevede espressamente la nullità) così dispone: “il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante. È onere del datore di lavoro, in caso di controversie legate all'irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti, o sottoposizione del segnalante ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla presentazione della segnalazione, dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa”. Si tratta a ben vedere di una ipotesi di nullità espressamente prevista dalla legge. Tale caso viene inoltre dalla Corte ricondotto alle ipotesi di licenziamento per motivo illecito ex art. 1345 c.c. Sul punto si rileva che la giurisprudenza di merito, che ha avuto occasione di occuparsi della questione, prima della pronuncia in commento, nonostante qualche iniziale incertezza espressa in dottrina (che aveva, tra l'altro, ritenuto preciso intento del legislatore rimuovere il motivo illecito dalle tutele dell'art. 2, stante l'abuso che spesso ne viene fatto in sede giudiziaria, con conseguente applicazione della tutela di diritto comune), ha ritenuto che il motivo illecito determinante rientrasse tra i casi di nullità espressamente previsti dalla legge (artt. 1345 e 1418, co. 2, c.c.; è il collegamento con l'art. 1343 c.c. per cui si sostiene che il motivo illecito è tale quando è contrario a norme imperative, all'ordine pubblico e al buon costume, che riconduce al tema delle nullità virtuali), con conseguente applicazione dell'art. 2 d.lgs. n. 23/2015.
Il tema del licenziamento per motivo illecito determinante porta con sé quello del licenziamento ritorsivo (inteso quale reazione ingiusta e arbitraria del datore di lavoro ad un comportamento legittimo del lavoratore) che allo stesso viene ricondotto in quanto contrario all'ordine pubblico (inteso quale complesso dei principi fondamentali della convivenza civile, desunti dalla Carta costituzionale in quanto attinenti alla libertà e alla dignità della persona). La pronuncia in commento supera quindi ogni dubbio anche con riferimento a tale ipotesi.
Ulteriori ipotesi che risultava problematico ricondurre all'art. 2 sono quelle del licenziamento in frode alla legge (art. 1344 c.c.). In effetti per superare il problema era necessario interpretare congiuntamente l'art. 1344 che richiama l'art. 1343 (illiceità della causa) a sua volta richiamato dall'art. 1418, co. 2 c.c. che prevede espressamente la nullità. Nella giurisprudenza le ipotesi di licenziamento in frode alla legge sono stati individuati ad esempio nel licenziamento per la chiusura di un'azienda a cui segua l'apertura di un'altra con gli stessi mezzi della prima per eludere la disciplina del 2112, il frazionamento di un'azienda per eludere (soprattutto sotto il profilo del requisito dimensionale) le tutele in caso di licenziamento, il licenziamento in una struttura destinata alla chiusura ove si dimostri che il trasferimento era predeterminato a giustificare il recesso, il licenziamento del dipendente reintegrato in unità produttiva diversa per riduzione di personale ed altre ipotesi simili.
Appare quindi evidente l'impatto della pronuncia della Corte nell'ambito della riespansione delle tutele del lavoratore. Evidentemente il giudice delle leggi, seppur nell'ambito di una censura di eccesso di delega, ha posto un limite oltre il quale anche il legislatore più liberale sembra non potersi spingere, sottrarre la tutela reintegratoria nei casi più gravi rispetto ai quali le norme generali civilistiche prevedono la nullità.
A fronte di tale estensione delle tutele, sarà l'interprete del caso concreto che dovrà tuttavia con estrema prudenza contenere le richieste di riconduzione di ogni ipotesi alla violazione di norme imperative o ad impliciti divieti di licenziamento. La pronuncia in commento, infatti, non sembra impattare su altre ipotesi che invece non possono essere ricondotte ai casi di nullità, come, ad avviso di chi scrive, il caso del recesso ad nutum intimato in assenza di valido patto di prova (di diverso avviso sembra D. Bernardi, Il ritorno della nullità virtuale nei licenziamenti: Corte Cost. 22/2024, cit.). Tale tipo di recesso è stato condivisibilmente ritenuto assoggettato alla “regola generale” della tutela indennitaria di cui all'art. 3, co. 1, d.lgs. n. 23/2015, dovendosi escludere la radicale nullità dello stesso per mancanza in capo al soggetto datore di lavoro del relativo potere; i giudici di legittimità hanno affermato che “è un licenziamento intimato per ragioni che non sono riconducibili ad alcuna di quelle in presenza delle quali la l n. 604 del 1966 consente al datore di lavoro la unilaterale risoluzione del rapporto” (Cass., 20239/2023).
È infatti pienamente condivisibile quanto affermato dalla stessa Corte di Cassazione (sentenza n. 20239/2023, cit. punto 6 motivazione) per cui non è possibile ritenere che il licenziamento in prova, intimato in forma scritta, sia affetto da nullità neppure su base ricostruttiva: si tratta infatti di un caso in cui il recesso viene comunicato per iscritto e ha una causale enunciata, ossia il mancato superamento della prova “anche se ab origine inidonea a determinare lo scioglimento del rapporto per difetto del presupposto legittimante rappresentato da un valido patto di prova”. La ragione giustificativa è quindi presente nel recesso, per cui non può sotto questo profilo ritenersi in contrato con l'art. 1 l. n. 604/1966, ma si rivela in concreto inidonea a produrre l'effetto risolutivo. D'altronde la Cassazione ha da tempo ritenuto che in tale ipotesi il licenziamento, normalmente esentato dall'ordinaria disciplina del controllo delle ragioni ex art. 2096 c.c., diviene soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza della giusta o del giustificato motivo. Accertata la nullità del patto di prova, afferma la Cassazione: “Da ciò consegue che il recesso intimato dalla banca datrice di lavoro non si iscrive nell'eccezionale fattispecie di recesso ad nutum di cui all'art. 2096 c.c., esentato dall'applicabilità dell'ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento (art. 10 legge n. 604/1966), ma consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o giustificato motivo. E allora l'allegato mancato superamento della prova per inidoneità del …alle mansioni in concreto svolte ridonda in allegazione di un giustificato motivo di licenziamento rispetto al quale il controllo del giudice è pieno e non già limitato, come nel caso dell'art. 2096 c.c., al riscontro dell'effettività dell'esperimento fatto e della mancanza di motivi discriminatori” (Cass. n. 17045/2005, rel. Amoroso).
La non riconducibilità del recesso ad una delle causali tipiche che consentono al datore di lavoro di risolvere il rapporto di lavoro in via unilaterale, che risulti in concreto inidoneo a produrre detto effetto, non comporta la nullità dello stesso ma la sua illegittimità (nel precedente regime è stata ricondotta all'art. 18, co. IV, St. Lav., v. Cass. n. 16214/2016). La Cassazione, ricorda inoltre che il legislatore del 2015 ha scelto legittimamente la tutela indennitaria quale forma comune a tutte le ipotesi di licenziamento illegittimo (come peraltro già affermato da Corte cost. n. 125/2022, Corte cost. n. 59/2021, Corte cost. n. 254/2020, Corte cost. n. 194/2018) e che sarebbe incoerente prevedere la reintegrazione in un caso come quello del recesso dal patto di prova nullo e invece escluderla nei casi di assenza di giustificato motivo oggettivo o licenziamento non proporzionato, che sono oggettivamente più gravi.
La conclusione della sentenza della Consulta in esame comunque ribadisce ancora il medesimo (ed ennesimo) monito al legislatore: “12. - Va, infine, ribadito che «[s]petta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell'avvicendarsi di interventi frammentari» (sentenza n. 150/2020)”.
3. Il caso particolare del requisito dimensionale “aumentato” (Corte Cost. 44/2024)
Il Tribunale di Lecce ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 co. 3 d.lgs. n. 23/2015, trovandosi a dover decidere dell'illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 da un'azienda che aveva superato il requisito dimensionale di cui all'art. 18, co. 8 e 9 St. Lav. dopo tale data. La norma è chiara sul punto e non consente diverse interpretazioni: “Nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all'entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni del presente decreto”. Il giudice remittente dubita della possibilità per il legislatore delegato di poter estendere la nuova disciplina a quelle che non sono “nuove assunzioni”, da cui la rilevanza della questione da cui dipende l'applicazione della vecchia o della nuova disciplina dei licenziamenti.
3.1 La risposta della Corte
Anche in questo caso la Consulta ripercorre sinteticamente la storia del requisito dimensionale nella selezione della disciplina applicabile ai licenziamenti (individuali e collettivi), rilevandone sin da subito la costante presenza e la mutevolezza nel tempo delle soglie occupazionali rilevanti (a partire dall'art. 11 L. 604/1966 fino alla 108/1990 poi immutata e legge 223/1991).
La Corte non può che ribadire da un lato lo scopo della riforma che è, come detto, quello di favorire l'occupazione, limitando il diritto alla reintegrazione ai casi più gravi, ritenendo il legislatore che la maggiore flessibilità in uscita, sia idonea a “rassicurare” il mondo imprenditoriale (punto 7 della motivazione), dall'altro che per perseguire tale fine si giustifichi la coesistenza di un duplice e parallelo regime di tutela secondo cui chi era già in servizio al 7 marzo 2015 avrebbe mantenuto la tutela reintegratoria ex art. 18 statuto lavoratori, chi fosse stato assunto dopo invece avrebbe avuto diritto al più limitato regime di tutela reintegratoria di cui al d.lgs. n. 23/2015. Qui la Corte richiama i due suoi precedenti in commento, ribadendo che il legislatore delegato, in relazione al predetto scopo della riforma, dovendo dettare una disciplina complessiva, aveva il potere di disciplinare tutte le ipotesi e non solo le “nuove assunzioni”, creando un duplice e parallelo regime di tutele e prosegue, con specifico riferimento al caso sottoposto al suo esame, che i lavoratori di cui si discute, impiegati in piccole aziende prima del 7.3.2015 non avevano un diritto alla tutela reintegratoria ex art. 18 St. Lav. da conservare. La Consulta aggiunge in termini inequivoci (punto 11 motivazione): “Per il datore di lavoro, con una “piccola” impresa, la prospettiva che, superata la soglia dei quindici dipendenti nell'unità produttiva, la disciplina dei licenziamenti individuali fosse la stessa (quella del decreto legislativo) per tutti i suoi dipendenti – sia neoassunti, sia già in servizio – rappresentava uno stimolo (o il venir meno di un freno) a crescere nella dimensione aziendale. Da una parte, la tutela prevista dal d.lgs. n. 23/2015 è, per il lavoratore già in servizio alla data suddetta, comunque più favorevole del regime exlegge n. 604 del 1966 che gli si applicava in precedenza, prima del superamento della soglia occupazionale, sicché non c'è alcuna regressione in peius. D'altra parte, è soddisfatto lo «scopo» della delega nel senso che, se invece fosse stata operante l'acquisizione ex novo (ossia dopo la data di entrata in vigore del decreto legislativo) del regime di tutela dell'art. 18, ciò avrebbe potuto rappresentare una remora, per il datore di lavoro, a fare nuove assunzioni; proprio quelle assunzioni che il legislatore delegante voleva incentivare”.
3.2 Le considerazioni ulteriori della Corte
Prima di concludere la già esaustiva motivazione, la Corte, con enfasi retorica, afferma: “Non è poi senza rilievo la considerazione che la disciplina del decreto legislativo, proprio perché applicabile a tutti i nuovi assunti, che sono in numero crescente, tende ad essere quella ordinaria. Mentre la disciplina dell'art. 18 statuto lavoratori, riservata ai lavoratori in servizio al 7 marzo 2015, vede restringersi naturalmente nel tempo (con i progressivi pensionamenti) la sua area di applicabilità sì da costituire un regime ad esaurimento. Sicché – una volta esclusa la non regressione (in peius per il lavoratore) della tutela – si ha che, anche sotto questo profilo, non è in contrasto con la legge di delega la previsione che l'accesso alla tutela reintegratoria – quella, pur limitata, del d.lgs. n. 23/2015 – avvenga nel regime ordinario – piuttosto che, come vorrebbe il giudice rimettente, in quello congelato ad esaurimento – anche per quei lavoratori già in servizio alla data suddetta, ma privi a quella data di tale tutela”.
La Consulta prosegue quindi affermando che le differenze tra le due discipline si sono ulteriormente ridotte essendo venuti meno l'automatismo di calcolo dell'indennizzo previsto solo per i licenziamenti soggetti al d.lgs. n. 23/2015 (a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 194/2018) e il rito speciale contemplato dalla legge n. 92/2012 solo per i licenziamenti soggetti all'art. 18 statuto lavoratori per effetto dell'abrogazione ad opera dell'art. 37, comma 1, lett. e), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata).
4. Conclusioni. Il ruolo dell'interprete nell'instabilità delle regole
Può dirsi dunque che con questi interventi la Corte abbia ricostruito in maniera organica e tendenzialmente stabile il regime sanzionatorio avverso i licenziamenti individuali e collettivi? La risposta non sembra essere positiva e a dircelo è la stessa Consulta.
L'intervento ordinatore del legislatore nella complessiva disciplina dei licenziamenti viene dalla Corte stessa ribadito sia nella sentenza n. 7/2024 sia nella sentenza n. 22/2024 (punto 12 della motivazione) che richiamano l'analogo monito di cui alla sentenza n. 150/2020; dello stesso avviso sono tutti i commentatori delle pronunce in questione e delle precedenti (da ultimo cfr. P. Albi Tanto Rumore per nulla? La Corte Costituzionale e i licenziamenti collettivi, in Dir. & Giust. 29 gennaio 2024; C. Musella, L'insostenibile irragionevolezza del Jobs Act, in Labor, Il lavoro nel diritto, 14 febbraio 2024).
Va qui ricordato che il Tribunale di Ravenna con ordinanza 27 settembre 2023, RG n. 123/2022, ha sollevato ulteriore questione di legittimità costituzionale in relazione al giustificato motivo oggettivo insussistente (che dovrebbe, come si legge in D. Bernardi, Il ritorno della nullità virtuale nei licenziamento, cit., andare in decisione il 7 maggio 2024; per un commento al provvedimento v. D. Tardivo, Licenziamento per g.m.o. - ancora sull'incostituzionalità dell'art. 3, D.lgs. n. 23/2015: la Consulta chiuderà il cerchio?, in Giur. it., 2024, 2, 388), così come il Tribunale di Catania 20 novembre 2023, RG n. 4365/2023 ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in merito all'esclusione della reintegrazione in caso di licenziamento disciplinare a fronte di una condotta punita con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva.
Infine rimane la questione “in sospeso” dell'adeguatezza dell'indennizzo di cui all'art. 9 d.lgs. n. 23/2015 in riferimento alla quale la stessa Corte Costituzionale (sentenza n. 183/2022, punto 7) ha ammonito: “un ulteriore protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte (sentenza n. 180 del 2022, punto 7 del Considerato in diritto)”.
Quello che appare possibile affermare dalla lettura delle più recenti pronunce qui passate in rassegna (per una ricostruzione del dibattito del precedente quadriennio v. anche, con ampi richiami dottrinali, D. Bernardi, Il principio di Archimede, le riforme dei licenziamenti (2012-2015) e la Corte Costituzionale (2018-2022), in Lav. giur., 2022, 10, 905), è che la Corte Costituzionale, che istituzionalmente ha il compito di verificare il rispetto da parte del legislatore dei parametri costituzionali, non possa o comunque abbia manifestato l'intenzione di non voler operare delle vere e proprie scelte di politica legislativa o comunque adottare decisioni con “ragguardevoli implicazioni sistematiche” (così Corte Cost., sentenza 183/2022, punto 6.2.2.; cfr. F. Limena, I licenziamenti economici nella recente lettura della Corte Costituzionale: un'arma a doppio taglio, in Lav. giur., 2024, 3, 269).
Nell'attuale dibattito dottrinale e giurisprudenziale, emerge con sempre maggiore chiarezza che il vero tema sotteso al Jobs Act è effettivamente la ritenuta inadeguatezza della tutela indennitaria e l'inidoneità della “flessibilità in uscita” ad aumentare i livelli di occupazione. Il punto su cui occorre soffermarsi diventa tuttavia se possa essere l'interprete ed in particolare la giurisprudenza, anche costituzionale, a spingersi fino al punto di riscrivere sostanzialmente una riforma delle tutele dei licenziamenti che, come emerge inequivocabilmente dalle numerose difficoltà interpretative e dai dubbi che la Consulta è stata chiamata a risolvere, si può ritenere sotto molteplici aspetti, fallita.
La risposta non può che essere negativa. Seppure chi scrive sia profondamente convinto del ruolo “inventivo” dell'interprete, non risultando in tal senso decisiva l'argomentazione della carenza di legittimazione democratica della magistratura (come ricordato dal prof. Paolo Grossi: “Il diritto va – questo sì – inventato, nel senso del latino invenire, ossia trovare; va cercato e trovato nelle trame dell'esperienza, sia quando la regola manca, sia quando la regola troppo vecchia o troppo generica non si presta a ordinare i fatti (i quali vanno letti alla luce della loro specifica storicità)” Sulla odierna “incertezza” del diritto. Relazione introduttiva ai lavori del Convegno annuale della “Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo” avente a tema “L'incertezza delle regole”, 3 ottobre 2014, nella Aula Pessina della Università Fridericiana di Napoli, in Giustizia Civile, Rivista Giuridica Trimestrale, 2014, 4, 947), qui si tratta di una questione ben diversa, ossia di riscrivere totalmente una normativa ritenuta ingiusta, modificare e rimodulare le tutele previste poiché ritenute inadeguate, sul presupposto della maggiore adeguatezza del rimedio reintegratorio-resititutorio rispetto a quello economico-indennitario, anche alla luce di considerazioni necessariamente discrezionali sul mercato del lavoro e di idoneità o meno al raggiungimento degli obiettivi di politiche del lavoro.
Dunque, in un' ottica rimediale e nel rispetto dei ruoli costituzionalmente assegnati, la giurisprudenza dovrebbe, ad esempio, a fronte del contesto normativo dato, nei casi di licenziamento illegittimo ritenuti più gravi e comunque ove non sia più (con il Jobs Act) possibile disporre la reintegra, tentare di valorizzare maggiormente rispetto al passato tutte quelle circostanze (numero dei dipendenti, dimensioni dell'impresa, comportamento e condizioni delle parti), oltre all'anzianità di servizio (dato oggettivo e quasi sempre allegato negli atti e quindi di pronta soluzione), indicate dall'art. 8 l. n. 604/1966. Tali circostanze incidono direttamente sulla misura del risarcimento e contribuiscono così a rendere più efficace la tutela indennitaria, considerando in particolare l'esiguità del minimo di legge e il richiamo quanto ai parametri di adeguatezza che la prima (e forse più importante) sentenza in commento fa all'equivalente sostitutivo della reintegrazione pari a 15 mensilità – punto 18.3 della motivazione. Tale richiamo, seppur oggetto di critiche da parte della dottrina (cfr. ad es. Limena, I licenziamenti economici, cit.), appare appropriato ove si consideri che per quanto si tratti di una scelta che il legislatore concede al lavoratore, alternativa e subordinata alla reintegra, nella prassi applicativa, tale soluzione viene spesso preferita dal dipendente illegittimamente licenziato, che, soprattutto dopo la causa di lavoro, stante la compromissione del rapporto di fiducia tra le parti, non vuole rientrare in un ambiente lavorativo da cui è stato illegittimamente escluso.
Allo stesso modo, come pare evincersi anche dalla pronuncia della Corte di Cassazione, n. 29335/2023 del 23 ottobre 2023 (v. A. Terzi, Il danno ulteriore, patrimoniale e non patrimoniale, da licenziamento illegittimo nella recente giurisprudenza della Cassazione e nelle riforme legislative in materia, in questionegiustizia.it, 7 febbraio 2024), il giudice potrà valorizzare, sotto il profilo risarcitorio, i danni ulteriori e diversi sia patrimoniali sia non patrimoniali (morali ed esistenziali), derivati dal licenziamento (quali ad esempio quelli alla professionalità, all'immagine).
In conclusione, nell'attesa di un complessivo (e si spera più illuminato) intervento del legislatore, appare auspicabile che la giurisprudenza si concentri nel suo compito di garantire una coerente e quanto più possibile uniforme interpretazione e applicazione della normativa vigente (più o meno condivisa).
Vuoi leggere tutti i contenuti?
Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter continuare a
leggere questo e tanti altri articoli.
Sommario
1. I licenziamenti collettivi e la diversità delle tutele (Corte Cost. n. 7/2024)
2. Le nullità del licenziamento illegittimamente escluse dal Jobs Act (sentenza 22/2024)
3. Il caso particolare del requisito dimensionale “aumentato” (Corte Cost. 44/2024)
4. Conclusioni. Il ruolo dell'interprete nell'instabilità delle regole