Polizze unit linked: qual è la loro funzione?

Maurizio Hazan
24 Aprile 2024

Con la decisione n. 9418 del 9 aprile 2024 la Suprema Corte svolge alcune considerazioni sulla natura delle polizze unit linked e, più in generale, dei prodotti assicurativi di investimento. Il tema non è nuovo ed è stato trattato dalla giurisprudenza a più riprese, con la dichiarata intenzione di prendere posizione sulla natura (effettivamente assicurativa o prevalentemente finanziaria)  di alcune tipologie di polizze vita caratterizzate dal fatto che la prestazione assicurativa prevista dal contratto (al verificarsi dell'evento morte, o a latro evento attinente alla vita umana) sia collegata all'andamento del mercato finanziario e, conseguentemente esposta, in tutto o in parte, in modo diretto o indiretto, alle fluttuazioni del mercato medesimo.

L'ordinanza in questione conferma l'orientamento prevalente, teso a escludere la natura assicurativa di quei prodotti in cui il rischio demografico è sostanzialmente apparente, essendo invece prevalente – quando non esclusivo – il rischio finanziario, addossato interamente all'assicurato e correlato all'andamento della gestione dei fondi o degli indici a cui la polizza è correlata.

Strumento finanziario?

Il caso oggetto della decisione riguardava le doglianze di un assicurato che, avendo stipulato un contratto del tipo unit linked, provvedeva a riscattare la polizza e, una volta verificato che il controvalore di essa era sensibilmente inferiore all'ammontare dei premi versati, si determinava a contestarne la nullità, trattandosi di uno strumento finanziario, da ritenersi nullo in quanto non preceduta dalla stipulazione di un contratto quadro munito di forma scritta. In subordine, l'attore proponeva anche domanda di risoluzione del contratto per l'inadempimento, in sede di collocamento della polizza, degli «obblighi informativi ed in punto di valutazione di adeguatezza», con conseguente richiesta di «restituzione dell'importo pari alla differenza tra premi versati e importo riscattato, da maggiorare di interessi e rivalutazione monetaria».

Il giudice di prime cure, escludendo la natura assicurativa del prodotto, ritenne applicabili le norme relative all'intermediazione finanziaria e, pur non accogliendo le censure mosse dall'attore, accertò un inadempimento dell'istituto di credito dell'obbligo di acquisire informazioni sulla situazione finanziaria e sulla propensione al rischio del cliente, nonché dell'obbligo di astenersi dal dare corso a operazioni inadeguate, condannandolo a risarcire i danni cagionati a titolo di responsabilità precontrattuale.

La Corte d'Appello adita dall'istituto di credito accolse invece l'impugnazione affermando che il prodotto, garantendo il recupero del capitale versato o il valore in quote, se maggiore, con l'incremento del 1%, garantiva la componente assicurativa e dunque non poteva rappresentare uno strumento finanziario. La “palla” passava dunque alla Cassazione, a cui si chiedeva di riformare, in sede di legittimità, quella decisione di merito e di affermare invece il carattere finanziario dell'operazione.

Sussistenza della funzione previdenziale

Al riguardo la Suprema Corte è solare nell'affermare che, indipendentemente dal nomen iuris attribuito al prodotto commercializzato, il giudice del merito è tenuto a compiere una operazione di ermeneutica contrattuale (non sottoposta a censura in sede di legittimità, se motivata, congrua e logica) per accertare se un dato contratto - in cui  alla scadenza del contratto o al verificarsi dell'evento in esso dedotto l'assicuratore sia tenuto a corrispondere all'assicurato una somma pari al valore delle quote del fondo mobiliare al momento stesso (polizze unit linked) - integri una vera e propria polizza assicurativa sulla vita o un investimento in uno strumento finanziario.

Al riguardo, prendendo le mosse da Cass., sez. un., n. 8271/2008, la Suprema Corte ha ribadito che è lo scopo previdenziale (attuato nelle polizze vita attraverso l'accumulo di capitale così da garantire all'assicurato e/o alla sua famiglia una rendita) a giustificare il sacrificio dei creditori previsto dall'art. 1923 c.c. «Ne consegue che la polizza sulla vita beneficia di una disciplina di favore, come quella dell'impignorabilità dei capitali e delle rendite, non perché formalmente prodotto assicurativo, ma perché adempie una particolare funzione di previdenza complementare rispetto a quella obbligatoria, destinata per lo più a far fronte ai bisogni della tarda età (in questi termini le Sezioni Unite l'hanno considerata “il terzo pilastro” della previdenza)».

Quel che occorre verificare è, dunque, la sussistenza della funzione previdenziale, che non sarebbe tale ogni qualvolta il contratto ponga a carico dell'assicurato il rischio di perdita del capitale in funzione dell'andamento degli investimenti sottostanti. 

Le conseguenze, come ben osservato dalla giurisprudenza di legittimità, non sono di poco conto proprio in relazione all'applicabilità, o meno, alla polizza delle regole protettive previste a tutela della vocazione previdenziale del contratto (e non invece di quella più strettamente finanziaria), tra cui la menzionata impignorabilità dei capitali e delle rendite, giustificando il sacrifico dei creditori sancito dal disposto di cui all'art. 1923 c.c. (giova ricordare Cass. civ. n. 3785/2024, secondo cui la natura previdenziale non è presente soltanto nelle tradizionali polizze di assicurazione della vita oggi appartenenti al ramo I (individuato dall'art. 2 del d.lgs. n. 209/05), ma anche nelle polizze unit linked nelle quali l'entità della somma dovuta dall'assicuratore varia nel corso della durata del rapporto contrattuale in dipendenza delle oscillazioni del parametro finanziario collegato ed è definitivamente quantificato al momento del verificarsi dell'evento attinente alla vita umana).

Classificazione delle polizze unit linked

Per individuare il discrimen tra una polizza unit linked quale prodotto assicurativo sotteso ad un prodotto di investimento, ovvero quale mero strumento finanziario di investimento e basta, la Cassazione classifica le polizze unit linked in tre categorie, ovvero:

  • le polizze guaranteed unit linked;
  • le polizze partial guaranteed unit linked;
  • le polizze unit linked cd. pure.

 

Le prime garantiscono all'assicurato la restituzione del capitale, prevedendo la possibilità di una maggiorazione minima, le seconde riconoscono all'assicurato una garanzia di restituzione solo parziale dei premi versati, mentre in relazione alle ultime la somma dovuta dall'assicuratore dipende esclusivamente dal valore del parametro finanziario sottostante nel momento in cui l'obbligazione diventa esigibile.

Ecco dunque che solamente le prime due forme rientrano nel ramo vita, in quanto l'assicuratore assume su di sé, con diverse gradualità, un rischio demografico, nel senso che al verificarsi dell'evento attinente alla vita umana all'assicurato viene comunque sempre riconosciuta la somma di denaro garantita al momento della stipula del contratto, anche a prescindere dal valore sottostante delle quote dei fondi comuni di investimento, che potrebbe essersi ridotto rispetto ai premi versati o addirittura azzerato.

Nella polizza unit linked “pura” invece il rischio grava interamente sull'assicurato, al quale in ipotesi nulla potrebbe essere dovuto (“garantito”), in ipotesi di azzeramento del valore delle quote.

Il tratto qualificante del prodotto, come assicurativo o finanziario, sta dunque nell'allocazione del “rischio demografico” che se gravante interamente sull'assicurato sarà in concreto insussistente, ovvero apparente, in quanto lo esporrà al rischio di non percepire al suo avveramento il riconoscimento di una somma minima.

È dunque la funzione previdenziale quella che sposta il rischio dal contraente all'assicuratore, determinandone i conseguenti benefici di legge, rappresentando in tal caso il prodotto dalla natura preminentemente previdenziale il cosiddetto “terzo pilastro della previdenza”.

Conclusivamente la Suprema Corte accoglie il ricorso perché bene ha fatto il giudice dell'appello nel ravvisare nel prodotto la natura assicurativo-previdenziale in quanto il capitale originario (o delle quote, se maggiore, con l'incremento del'1%) alla scadenza veniva garantito al beneficiario.

Nulla di veramente nuovo, dopo tutto. Ma la chiarezza dell'ordinanza disegna lo stato dell'arte con apprezzabile precisione ricognitiva.

Osservazioni conclusive

È tuttavia il caso di osservare, in termini potenzialmente critici,  come tra la posizione della Suprema Corte e gli assetti normativi che regolano i così detti IBIPS (prodotti assicurativi di investimento finanziario) non vi sia perfetta consonanza, dal momento che  il set regolamentare destinato a disciplinare con particolare rigore – a tutela dell'investimento dell'assicurato e della sua effettiva propensione al rischio finanziario - la realizzazione e la distribuzione di quei prodotti opera una distinzione classificatoria in qualche modo diversa  da quella proposta dalla Cassazione.  È opportuno al riguardo ricordare come la Direttiva IDD (2016/97) definisca un IBIP come “un prodotto assicurativo che presenta una scadenza o un valore di riscatto, e in cui tale scadenza o valore di riscatto è esposto, in tutto o in parte, in modo diretto o indiretto, alle fluttuazioni del mercato”. Tra gli IBIPs vanno dunque annoverati quindi i prodotti assicurativi tradizionalmente appartenenti al Ramo Vita, e in particolare alle sezioni I (assicurazioni sulla durata della vita umana), III (assicurazioni sulla vita connesse con fondi di investimento o indici), V (operazioni di capitalizzazione) e multiramo, o prodotti ibridi.

Eccezion fatta, naturalmente, per le polizze vita non correlate a un rischio finanziario e quindi legate esclusivamente al caso di decesso, incapacità, malattia o disabilità.

Ai sensi poi dell'art. 1 w-bis.3) del TUF viene specificato che non integrano la definizione di “prodotto di investimento assicurativo”:  quei  «prodotti assicurativi non vita elencati all'allegato I della direttiva 2009/138/CE; 2) i contratti assicurativi vita, qualora le prestazioni previste dal contratto siano dovute soltanto in caso di decesso o per incapacità dovuta a lesione, malattia o disabilità; 3) i prodotti pensionistici che, ai sensi del diritto nazionale, sono riconosciuti come aventi lo scopo precipuo di offrire all'investitore un reddito durante la pensione e che consentono all'investitore di godere di determinati vantaggi; 4) i regimi pensionistici aziendali o professionali ufficialmente riconosciuti che rientrano nell'ambito di applicazione della direttiva 2003/41/CE o della direttiva 2009/138/CE; 5) i singoli prodotti pensionistici per i quali il diritto nazionale richiede un contributo finanziario del datore di lavoro e nei quali il lavoratore o il datore di lavoro non può scegliere il fornitore o il prodotto pensionistico». 

Il che ci porta a dire che la finalità previdenziale deve essere lo “scopo precipuo” del prodotto per sottrarlo alla disciplina degli IBIPS; scopo che si può rinvenire nei PIP e non invece nelle polizze assicurative vita di ramo terzo, quale quella di cui l'ordinanza si è occupata.

Ciò deve indurre a qualche riflessione ulteriore, giacché la disciplina protettiva dedicata alla tutela degli investitori (nel settore dei prodotti assicurativi di investimento) e delle loro scelte di rischio finanziario trova la sua ratio giustificatrice proprio in funzione della natura dichiaratamente non previdenziale di quei prodotti. Natura e rischio di tipo finanziario che vengono rinvenuti in tutti i contratti assicurativi finalizzati alla tutela del risparmio in chiave di investimento finanziario, senza alcun distinguo sul diverso atteggiarsi del rischio di rendimento. Il che dà luogo ad un certo disallineamento con l'impostazione oggi seguita dalla Suprema Corte nella riqualificazione del contratto vita Unit  Linked.

 

*FONTE: dirittoegiustizia.it

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