Giusta causa di licenziamento: nozione e rilevanza delle fattispecie ipotizzate dalla contrattazione collettiva
26 Aprile 2024
MASSIMA La giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. L'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza solo esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. Tuttavia, questo principio subisce un'eccezione quando la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solo una sanzione conservativa. In questo caso, condotte che pur astrattamente sarebbero suscettibili di integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di recesso ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero perché l'autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative. IL CASO La scorretta conservazione degli alimenti quale giusta causa di licenziamento del cuoco. La vicenda concreta ha ad oggetto il licenziamento dello chef d'una struttura alberghiera, responsabile della scorretta conservazione di diversi generi alimentari. Il fatto era stato accertato mediante un'attività d'indagine delle Forze dell'ordine, esitata, tra l'altro, nell'adozione d'un decreto penale di condanna nei confronti del titolare della società gestrice della struttura. Tanto il Tribunale di Palermo, quanto la Corte d'appello competente, avevano respinto l'impugnazione del licenziamento promossa dal lavoratore. Con il suo ricorso per cassazione, questi ha dedotto la violazione della disciplina di cui al C.c.n.l. Settore Turismo, dal momento che la condotta posta alla base del licenziamento coinciderebbe con quella indicata dal relativo art. 138, comma 7, lett. f), il quale prevede, a carico di chi “commetta atti che portino pregiudizio alla disciplina, alla morale, all'igiene e alla sicurezza dell'azienda”, una sanzione conservativa. Sarebbe invece inconferente l'ipotesi del successivo art. 192, comma 5, lett. e), Ccnl, che sanziona con il recesso la fattispecie di “gravi guasti provocati per negligenza al materiale dell'azienda”. Ha inoltre sostenuto che la sentenza impugnata avesse fornito una motivazione apparente in merito al difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva, la cui sussistenza era stata desunta dal rilievo penale della condotta del dipendente, senza tuttavia considerare la mancanza di precedenti disciplinari, l'assenza di dolo, la natura contravvenzionale del reato e l'esiguità dell'ammenda comminata. LE QUESTIONI GIURIDICHE La nozione di giusta causa del licenziamento e il giudizio di proporzionalità nella valutazione del fatto. La pronuncia della Corte di cassazione ha respinto il ricorso proposto dal lavoratore. Nel far ciò ha illustrato nitidamente la nozione di giusta causa e le modalità con cui il giudice è chiamato a conferirle contenuto, secondo le fonti rilevanti e in base alla loro gerarchia, in vista della valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato. LE SOLUZIONI GIURIDICHE La “giusta causa”: una clausola generale. A premessa della propria motivazione, la Suprema Corte ha ricordato che la giusta causa di licenziamento è una nozione legale espressa da una disposizione che forgia una clausola generale. In quanto tale, necessita d'una specificazione in sede interpretativa, cui procedere avvalendosi tanto di fattori esterni relativi alla coscienza generale, quanto di principi tacitamente richiamati dall'art. 2119 c.c.. La ricostruzione ermeneutica che ne consegue fonda la nozione legale generale ed astratta di giusta causa, parametro rispetto al quale va traguardata l'eventuale “violazione di legge” qualora s'ipotizzi un'erronea sussunzione della fattispecie concreta entro lo schema di cui all'art. 2119 c.c. Al contempo, la sussunzione predetta, attenendo al piano concreto, esprime la valutazione dei fatti devoluta al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se non per “vizio di motivazione”. Si tratta d'una valutazione necessariamente influenzata dal concreto rapporto di lavoro e dalla specifica condotta posta alla base del licenziamento, il cui apprezzamento in termini di gravità non va riferito alla regola generale della “non scarsa importanza” dell'inadempimento di cui all'art. 1455 c.c.., ma alla possibilità di ricondurlo al “notevole inadempimento” rilevante ai fini del giustificato motivo soggettivo di licenziamento in base all'art. 3, legge n. 604 del 1966, o, ulteriormente, alla “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro” prevista dall'art. 2119 c.c. Il valore dei contratti collettivi nell'individuazione delle conseguenze disciplinari della condotta. In questo quadro, la natura legale della nozione di giusta causa implica che il catalogo di comportamenti sanzionati col licenziamento, presente nei contratti collettivi, assuma un mero valore esemplificativo, che non preclude un'autonoma valutazione del giudice in merito al concreto apprezzamento del fatto e alla possibilità di individuare in esso quella contrarietà alla comune etica o al comune vivere civile atta a giustificare la recisione del legame fiduciario. Le previsioni del contratto collettivo, dunque, non sono tassative. Esse, piuttosto, rilevano tanto per il valore esemplificativo sopra indicato, quanto perché concorrono, insieme ai principi presenti nella coscienza sociale del tempo, a comporre la scala di valori che il giudice è chiamato ad impiegare quale parametro di valutazione del comportamento sanzionato. In tal senso – sottolinea la Corte – depone anche il testo dell'art. 30, comma 3, legge n. 183 del 2010, secondo cui «nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi». Chiarito il ruolo della tipizzazione della giusta causa contenuta negli accordi collettivi, la Corte ha tuttavia ribadito che questi hanno comunque la facoltà di sancire per un determinato comportamento, pur suscettibile di integrare la giusta causa o il giustificato motivo di recesso, una più mite sanzione conservativa. A fronte d'un'espressa previsione in tal senso, al datore di lavoro sarà dunque precluso un diverso apprezzamento e il giudice dovrà attenersi a quanto indicato dall'autonomia collettiva. La decisione della Corte di cassazione. È su queste basi che la Corte ha ritenuto di respingere il ricorso proposto dal lavoratore. Il suo comportamento, infatti, è stato ritenuto confliggente con regole cautelari, d'igiene e di sicurezza utili a proteggere la salute pubblica. Al contempo, è stata valorizzata la rilevanza penale dell'infrazione disciplinare, tanto che da essa è derivato un decreto penale di condanna a carico del datore di lavoro. Lo spessore del bene giuridico posto a repentaglio dalla condotta e la rilevanza penale di quest'ultima suggeriscono la particolare gravità del fatto, tale da integrare la giusta causa di licenziamento, senza che a questa conclusione ostino le previsioni del contratto collettivo che, nel prevedere sanzioni conservative, intendono alludere a vicende connotate da un disvalore sensibilmente inferiore. In altri termini, un contegno di rilevanza penale non può corrispondere ad un inadempimento lieve, meritevole di una semplice sanzione conservativa. È per questo tramite che si rivela irrilevante la previsione dell'art. 138 Ccnl, ove si fa riferimento ad atti che pregiudichino l'igiene e la sicurezza dell'azienda, posto che con essi si intende fare riferimento a contegni di scarsa entità e privi di rilevanza penale; allo stesso modo, non è significativa la previsione dell'art. 192, lett. e), Ccnl, perché a trovare applicazione è direttamente l'art. 2119 c.c., la cui nozione di giusta causa è validamente integrata da una condotta punita in sede penale perché contrastante con un bene giuridico di eminente rilevanza. OSSERVAZIONI La pronuncia in commento offre coordinate interpretative utili per la ricostruzione della nozione di giusta causa e dei parametri in base ai quali formulare il giudizio di proporzionalità del licenziamento basato sulla sua ricorrenza. La nozione di giusta causa. La nozione legale di giusta causa esprime un concetto indeterminato, che rimanda volutamente ad un variabile contenuto assiologico, allo scopo di consentire l'adeguamento delle nozioni stesse alla realtà, che è articolata e mutevole nel tempo. Pertanto, il contenuto di tali nozioni deve essere necessariamente specificato in sede interpretativa, per mezzo di standard valutativi che tengono conto dell'evoluzione della coscienza sociale (G. Proia, Manuale di diritto del lavoro, Cedam, 2024, p. 322 s.). Questa configurazione della nozione consente una sua perenne attualizzazione. Al contempo, pone questioni in ordine sia al suo effettivo contenuto, sia alla sua distinzione rispetto al notevole inadempimento, che consente il licenziamento con preavviso, e alle mancanze più lievi, meritevoli di reazioni disciplinari conservative. Si può ritenere acquisito l'assunto per cui la giusta causa integra la sostanziale negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e il tradimento del legame fiduciario intercorrente tra le parti. In questa guisa, è consolidata l'idea che essa riguardi condotte ed atti del lavoratore, e, in particolare, gli inadempimenti a lui imputabili. In ordine alla possibilità di ricondurvi vicende attinenti alla sfera personale del dipendente, e dunque comportamenti che prima facie sarebbe avulsi dal rapporto di lavoro e non esprimerebbero un diretto inadempimento delle obbligazioni da esso derivanti, è stato affermato che «la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l'irrogazione della sanzione espulsiva» (Cass., n. 267/2024. In termini, v. anche Cass., n. 28368/2021). In effetti, come illustrato anche dalla pronuncia in commento, la valutazione della gravità dell'inadempimento deve essere sempre compiuta considerando tutti gli elementi oggettivi e soggettivi che caratterizzano la fattispecie concreta, quali l'intensità della fiducia richiesta dalle mansioni svolte, il grado di affidamento che queste implicano, l'intenzionalità dell'inadempimento e l'eventuale esistenza di conseguenze pregiudizievoli. È al lume della valutazione complessiva di tali elementi che occorrerà verificare l'effettiva idoneità dell'atto a ledere il vincolo fiduciario e a giustificare il recesso immediato. Il compito del giudice tra giudizio di proporzionalità… Come accennato, la ricostruzione della nozione di giusta causa è determinante per la valutazione dell'esercizio del potere di disciplinare da parte del datore di lavoro, ma non la esaurisce. Ricondotti tra le sanzioni disciplinari, i licenziamenti per giusta causa devono rispettare il principio di proporzionalità, espresso dall'art. 2106 c.c. e immanente alla disciplina dettata dall'art. 7 St. lav. Come espressamente ribadito anche dalla pronuncia commentata, il giudizio di proporzionalità trova una propria fondamentale fonte d'ispirazione nei codici disciplinari contenuti all'interno dei contratti collettivi, i quali si fanno carico di individuare a priori le fattispecie astratte meritevoli di condurre al licenziamento senza preavviso. È però un chiarimento consolidato quello per cui quest'opera di tipizzazione dell'autonomia collettiva non è connotata da tassatività e non vincola il giudice. In quest'ottica, la pronuncia in commento si colloca pienamente entro il solco interpretativo secondo cui «la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, spettando al giudice la valutazione di gravità del fatto e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie» (Cass., n. 33881/2021. Nello stesso senso v., tra le altre, Cass., n. 2836/2016 e Cass., n. 13412/2020). Un orientamento che, del resto, è del tutto coerente con la previsione di cui all'art. 30, comma 3, legge n. 183 del 2010, per cui il giudice, nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, «tiene conto» delle tipizzazioni di giusta causa di provenienza contrattual-collettiva, senza che ne sia vincolato. Ne deriva che il catalogo di “giuste cause” presenti nell'accordo collettivo indirizza, ma non ostacola, l'interpretazione del giudice. Sarà perciò possibile sussumere nella clausola generale ipotesi non comprese nella tipizzazione, così come ritenere che un certo fatto, astrattamente riconducibile all'ipotesi tipizzata, non sia concretamente connotato da una gravità tale da giustificare il recesso immediato. Del resto, questa facoltà del giudice è una conseguenza direttamente derivante dal fatto che la nozione di “giusta causa” è di fonte legale, sicché l'autonomia collettiva è ammessa a derogarvi solo in melius. …ed interpretazione del giudizio di proporzionalità già espresse dal Contratto collettivo. È solo in quest'ultima ipotesi, ossia qualora l'accordo collettivo contempli un trattamento di miglior favore, prevedendo una sanzione conservativa come reazione ad un comportamento di per sé suscettibile d'integrare la giusta causa di licenziamento, che il datore di lavoro (prima) e il giudice (poi) saranno vincolati, dovendosi escludere un apprezzamento del fatto divergente e deteriore rispetto a quello compiuto a monte in sede contrattuale. In proposito, è opportuno ricordare il chiarimento offerto dalla giurisprudenza di legittimità (Cfr., per tutte, Cass., n. 11665/2022), secondo cui l'individuazione d'un trattamento in melius può avvenire tanto mediante la selezione astratta d'uno specifico comportamento, quanto mediante altrettante clausole generali ed elastiche, atte a contemplare comportamenti non rigidamente predeterminati ma comunque espressivi d'un disvalore che l'autonomia collettiva ha inteso abbinare a sanzioni conservative. In presenza di una tecnica redazione del secondo tipo, sarà compito del giudice inverare la previsione generale del contratto collettivo, con ciò procedendo non già ad un giudizio di proporzionalità, bensì ad un'operazione esegetica del testo contrattuale, finalizzata a verificare ciò che le parti hanno voluto e, quindi, se lo specifico comportamento oggetto del giudizio rientri, o meno, tra quelli che il Ccnl ha inteso escludere da quelli punibili col licenziamento. Detto altrimenti, di fronte a queste ipotesi il giudice non procede al giudizio di proporzionalità, ma, con un'operazione d'ermeneusi contrattuale, si fa carico di concretizzare il giudizio di proporzionalità compiuto a monte dalle parti sociali. I riflessi dei precedenti giurisprudenziali nella decisione della Cassazione. In effetti, sebbene sottotraccia, questo schema è quello che è stato seguito nella fattispecie decisa dalla Corte di cassazione. Il comportamento dello chef, pregiudizievole per la salute all'interno del ristorante, era apparentemente affine alla fattispecie contrattuale degli “atti che portino pregiudizio alla disciplina, alla morale, all'igiene e alla sicurezza dell'azienda”, puniti con sanzione conservativa. Tuttavia, la sussunzione nella disposizione in questione è stata scartata dalla Corte d'appello perché, all'esito dell'interpretazione dell'accordo collettivo, si è ritenuto che esso alludesse ad ipotesi senz'altro più lievi rispetto a quella oggetto di causa, anche in considerazione della sua rilevanza penale. L'avallo offerto dalla Cassazione a quest'impostazione finisce dunque per costituire un'ulteriore conferma dell'orientamento predetto, per cui il giudice, al fine di valutare la sussistenza della giusta causa, dovrà analizzare il comportamento censurato sia in relazione ai principi che informano la coscienza sociale, sia in relazione alle previsioni del contratto collettivo, senza esserne vincolato se non in presenza d'un giudizio di proporzionalità espresso a monte, mediante una previsione in melius, che lo stesso giudice dovrà interpretare al fine di verificare la ricorrenza in concreto dei presupposti per applicarla. |