Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra scelte organizzative e presupposti economici: quale evoluzione?
Luca Failla
Paola Salazar
30 Aprile 2024
La fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è disciplinata – come è noto – dall'art. 3 della l. n. 604/1966 quale licenziamento dovuto a "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa". Gli elementi costitutivi di detta fattispecie, così come derivati dall'intervento spesso “costruttivo” della stessa giurisprudenza, sono tre: le ragioni che determinano la soppressione del posto, il nesso di causalità tra questa e il licenziamento e il rispetto dell'obbligo di repêchage. L'evoluzione della giurisprudenza degli ultimi anni ha avuto un ruolo fondamentale nella valutazione delle implicazioni organizzative di tale istituto, soprattutto alla luce delle conseguenze risarcitorie che sono previste dalla legge nei casi in cui il recesso sia riconosciuto ingiustificato.
La disciplina generale
Secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si verifica quando il datore di lavoro interviene effettivamente sulla propria organizzazione, motivando tale modifica con l'intento di perseguire un obiettivo "genuinamente economico, tecnico e organizzativo" (Pera G., 1980; Vallebona A. 2017). Questo intervento deve essere strettamente connesso alla posizione del lavoratore interessato, il quale non può essere riassorbito all'interno dell'organizzazione in modo diverso.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si manifesta quindi allorquando tutti questi elementi sono non solo presenti ma effettivamente e concretamente accertabili ad opera del datore di lavoro, cui, come è noto, compete il relativo onere probatorio: la mancanza, infatti, del fondamentale presupposto economico e organizzativo del licenziamento rende il recesso illegittimo e l'assenza anche di uno solo di questi elementi farebbe scattare le tutele previste dalla legge. Infatti, nei casi in cui il giudice dovesse accertare l'illegittimità̀ del recesso, le tutele varieranno a seconda che trovi ancora applicazione la disciplina di cui allo Statuto dei Lavoratori (art. 18, c. 7 l. n. 300/1970, su cui si veda anche Corte Cost. n. 59/2021) ovvero quella prevista a partire dal 7 marzo 2015 dal Jobs Act (art. 3, c. 1 d.lgs. n. 23/2015) restando fermo che la insussistenza del fatto posto a base del licenziamento – che nel campo di applicazione dello Statuto dei lavoratori governa il discrimine in merito alla valutazione dell'applicazione della tutela reintegratoria attenuata – assurge a all'applicazione della tutela risarcitoria prevista invece dal Jobs Act quando sia evidente lo scostamento tra le motivazioni economiche e organizzative (insindacabili) e il recesso, posto che finirebbe per mancare un elemento essenziale della fattispecie.
Tanto è vero che, se da un lato l'onere della prova dei presupposti richiesti per la legittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo grava sul datore di lavoro (art. 5, l. n. 604/1966), dall'altro il sindacato del giudice non può entrare nel merito delle scelte organizzative e produttive che competono unicamente all'imprenditore, in quanto esse si configurano come espressione della libertà d'iniziativa economica (art. 41 Cost.; cfr. Cass., sez. lav., 7 dicembre 2016, n. 25201). Il sindacato del giudice investe invece la legittimità della decisione aziendale con un controllo sulla sussistenza – identificata come effettività sostanziale –, del motivo del recesso (cfr. Cass., sez. lav., 14 novembre 2023, n. 31660).
È questo il contesto che fa da sfondo all'evoluzione che si è registrata in questi ultimi anni in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. E non solo alla luce delle modifiche dello Statuto dei lavoratori e del Jobs Act, ma anche della legislazione che è a più riprese intervenuta in questi anni, influendo proprio sulle scelte di natura organizzativa che stanno alla base di questa forma di recesso. Con il risultato non solo di apprestare delle tutele più specifiche in alcuni determinati ambiti, ma anche di rendere più gravoso l'onere probatorio a carico del datore di lavoro, diretto a porre in evidenza l'assenza in questi casi anche di un motivo illecito o ritorsivo.
Si fa riferimento, ad esempio, all'allargamento dell'ambito di operatività del licenziamento discriminatorio e ritorsivo che investe oggi unitamente all'ipotesi del licenziamento, l'adozione di altri provvedimenti di natura organizzativa, quali il trasferimento, il demansionamento, la sanzione, quando connessi con l'esercizio dei diritti contemplati dalla speciale disciplina introdotta dal Decreto trasparenza (d.lgs. n. 104/2022 in attuazione della Dir. n. 2019/1152/UE in materia di trasparenza sulle condizioni di lavoro applicate al rapporto di lavoro; d.lgs. n. 105/2022 in attuazione della Dir. n. 2019/1158/UE sull'equilibrio tra attività̀ professionale e vita familiare), nonché quelli posti in essere nel quadro della disciplina prevista per la tutela della segnalazione di illeciti - whistleblowing (artt. 17 e 19, d.lgs. n. 24/2023).
Ma anche la particolare enfasi posta dal legislatore ai casi di licenziamento (così come di demansionamento, trasferimento, sottoposizione ad altra misura organizzativa) quando connessi alla fruizione delle priorità̀ previste dalla legge per l'applicazione del lavoro agile (art. 18, c. 3-bis, l. n. 18/2017 come modificato dall'art. 4, d.lgs. n. 105/2022) oppure quando connessi alla richiesta di trasformazione del rapporto di lavoro in rapporto di lavoro part-time per patologie proprie o dei familiari alle condizioni previste dalla legge (art. 8, c. 4, 5 e 5-bis, d.lgs. n. 81/2015 come modificato dall'art. 5 d.lgs. n. 105/2022).
Sul piano dell'evoluzione giurisprudenziale, per contro, se il licenziamento per giustificato motivo oggettivo risponde a reali scelte di natura organizzativa, per essere legittimo non deve essere considerato necessariamente ancorato ad una situazione di crisi aziendale – e quindi di extrema ratio – ben potendo configurarsi se sorretto da scelte legittime, quale uno dei possibili sbocchi dell'autonomia organizzativa e decisionale dell'imprenditore, tutelata dall'art. 41 Cost. e sottratta pertanto al vaglio del Giudice del lavoro.
Vediamo con che limiti.
La soppressione solo parziale del posto di lavoro
La soppressione del posto ha sempre costituito nell'elaborazione giurisprudenziale un valido presupposto di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cfr. da ultime Cass., sez. lav., 1° ottobre 2019, n. 24491 e sulla tutela reintegratoria per assenza dei motivi Cass., sez. lav., 13 novembre 2023, n. 31409).
In questo ambito la giurisprudenza più recente ha affrontato anche l'ipotesi della soppressione solo “parziale” della posizione lavorativa (cfr. Cass., sez. lav., 24 gennaio 2024, n. 2739).
Nel caso in cui solo una parte della posizione lavorativa venga soppressa, il datore di lavoro deve valutare se il lavoratore ha ancora un residuo ruolo utile da svolgere all'interno dell'organizzazione e se può essere impiegato in altre mansioni coerenti con l'inquadramento (anche inferiori nel quadro della disciplina di cui al riformato art. 2103 c.c.)'.
La legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non richiede che tutte le mansioni precedentemente assegnate al lavoratore siano eliminate definitivamente; esse possono essere ridistribuite tra il personale esistente secondo le decisioni del datore di lavoro (sul presupposto della insindacabilità di tali decisioni che rientrano nel libero esercizio dell'attività d'impresa, se sorrette da legittime motivazioni v. anche art. 30, c. 1, l. n. 183/2010), senza che ciò invalidi la soppressione effettiva della posizione. La soppressione parziale del posto di lavoro implica necessariamente l'intera riconsiderazione delle mansioni affidate al lavoratore considerato che egli potrebbe ancora svolgere una parte di queste mansioni in altra posizione o con un altro ruolo. Pertanto, il datore di lavoro è tenuto a valutare attentamente ogni possibilità, incluso il demansionamento oppure il passaggio al lavoro a tempo parziale in ottica non solo di salvaguardia della posizione lavorativa ma secondo un criterio generale di valutazione dell'utilità residuale della prestazione che quel determinato lavoratore è in grado di fornire, anche a orario ridotto. Ipotesi quest'ultima affrontata anch'essa recentemente dalla Cassazione in tema di contratto a tempo parziale proprio in ragione delle motivazioni di natura economica che configurano in tali situazioni non tanto una vera e propria “imposizione” della trasformazione del rapporto di lavoro (che la legge, comunque, tutela dal punto di vista del lavoratore – cfr. art. 8 c. 1, d.lgs. n. 81/2015), quanto piuttosto proprio in ragione dell'obiettivo considerato prevalente dato dalla possibilità di salvaguardare il posto di lavoro con tale soluzione organizzativa (in ipotesi anche temporaneamente e in attesa di tempi migliori – cfr. da ultima Cass., 30 ottobre 2023, n. 30093).
In ipotesi di soppressione parziale del posto, pertanto la redistribuzione delle mansioni tra gli altri lavoratori in forza è possibile solo dopo aver escluso per ragioni tecniche o produttive la possibilità che il lavoratore parzialmente eccedentario possa ancora svolgere all'interno dell'organizzazione la parte residua delle sue mansioni, determinando in questi casi un rafforzamento dell'onere di repechage (su cui v. infra, cfr. Cass., sez. lav., 16 marzo 2007, n. 6229).
È importante notare che per considerare la possibilità di un utilizzo parziale del lavoratore nella stessa posizione lavorativa, le mansioni residue devono avere un'autonomia obiettiva all'interno dell'organizzazione, in modo da evitare la creazione di una nuova e autonoma posizione lavorativa (cfr. Cass., 6 luglio 2012, n. 11402).
Le ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro ed alla redditività
Le regioni relative all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro rappresentano un vincolo imposto dal legislatore al potere di recesso del datore di lavoro, il quale in base all'art. 2118 c.c. non solo non può agire arbitrariamente, ma come detto in premessa è in alcuni casi tenuto a provare – con inversione dell'onere della prova – l'assenza di un intento ritorsivo o discriminatorio connesso alle scelte organizzative adottate. Queste ragioni costituiscono pertanto, nella loro effettività il punto di equilibrio posto dall'ordinamento giuridico "tra l'interesse del lavoratore alla conservazione del posto e il potere organizzativo imprenditoriale".
Per lungo tempo, giurisprudenza e dottrina si sono interrogate sulla portata effettiva del presupposto organizzativo e produttivo alla base delle motivazioni del recesso per giustificato motivo oggettivo. Secondo l'orientamento prevalente, non è sufficiente qualsiasi motivo organizzativo “capace di determinare la soppressione del posto di lavoro” per giustificare il licenziamento, ma sarà necessario verificare che le motivazioni siano meritevoli e basate su un interesse oggettivo dell'impresa, come una difficoltà economica non temporanea che potrebbe causare perdite significative (cfr. Cass., sez. lav., 15 maggio 2021, n. 7515).
Secondo un orientamento che ha iniziato ad affacciarsi in giurisprudenza negli ultimi anni, possono rientrare nella nozione di giustificato motivo oggettivo le situazioni in cui vi è un riassetto organizzativo dell'azienda volto a una gestione più economica, deciso dall'imprenditore per far fronte a situazioni sfavorevoli idonee ad influenzare in modo decisivo l'attività produttiva, richiedendo una reale riduzione dei costi.
La nozione di giustificato motivo oggettivo ha negli anni suscitato un ampio dibattito interpretativo che ha prodotto da ultimo l'indicato orientamento minoritario incentrato, appunto, sulla salvaguardia della competitività aziendale.
La giurisprudenza ha fornito sul punto un contributo determinante, con un chiaro orientamento che, sebbene possa non essere universalmente riconosciuto come orientamento dominante, rappresenta ormai una parte integrante del diritto vivente.
Partendo dalla nota sentenza della Cassazione, sezione lavoro del 7 dicembre 2016, n. 25201, dove viene stabilito che obiettivi come la riduzione dei costi, l'aumento dei profitti o la presenza di una crisi economica congiunturale possono giustificare la soppressione di un posto di lavoro, secondo la più recente giurisprudenza tale circostanza è da sola sufficiente a motivare adeguatamente la fattispecie del giustificato motivo oggettivo e, quindi, a giustificare il licenziamento per motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 l. n. 604/1966 anche al di fuori della logica della extrema ratio (cfr. Cass., 22 novembre 2018, n. 30259).
La Cassazione sostiene questo principio basandosi sull'implicito nell'articolo 41 della Costituzione e sull'esplicito negli articoli 30, comma 1, della l. n. 183/2010 e 1, comma 43, della l. n. 92/2012, che limitano il controllo giudiziale sottraendovi la discrezionalità organizzativa dell'imprenditore e il merito delle sue decisioni.
Anche una parte della dottrina concorda su questo punto, sottolineando che la normativa non vieta il licenziamento basato sull'aumento dei profitti e non richiede che ciò avvenga solo in caso di crisi aziendale. Questa interpretazione tiene conto del valore della concorrenza, alla luce dell'ordinamento europeo, il quale sottolinea che la nostra normativa mira a garantire l'esistenza e la competitività dell'impresa sul mercato ben prima che essa si trovi in difficoltà economica.
Successivamente, sempre la Corte di Cassazione, ha affermato nuovamente l'indicato principio confermando che “ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa, non aderendo dunque alla censura avanzata dal ricorrente, secondo la quale il licenziamento sarebbe stato illegittimo perché giustificato soltanto dalla ricerca di una maggiore redditività da parte dell'impresa (Cass., sez. lav., ord. 26 maggio 2022, n. 17173).
Il nesso di causalità e l'obbligo di repêchage
Il nesso causale rappresenta il legame tra il lavoratore licenziato e la decisione imprenditoriale che ha portato al licenziamento.
Dal punto di vista causale, la decisione organizzativa rappresenta l'evento che precede, mentre la soppressione del posto rappresenta la conseguenza diretta di tale decisione.
Il datore di lavoro è tenuto a specificare le motivazioni del licenziamento nell'atto stesso del licenziamento, non limitandosi a menzionare semplicemente la soppressione del posto e le ragioni alla base del recesso, ma indicando esplicitamente le ragioni organizzative o produttive alla base di tale decisione.
È quindi fondamentale che esista un collegamento diretto e immediato tra le decisioni economiche dell'imprenditore e il licenziamento del lavoratore. Il giustificato motivo oggettivo sussiste ogni volta che esiste un'oggettiva coerenza strumentale tra tali due elementi.
Il giudice, inoltre, ha il compito di valutare la legittimità del licenziamento, ma senza poter interferire nelle motivazioni strategiche che hanno portato a tale decisione (si v. l'art. 30, c. 1, l. n. 183/2010).
Al fine di attenuare il rigore della sequenza causale, la giurisprudenza ha sviluppato il già enunciato principio dell'“extrema-ratio”, che – seppure oggetto di attenuazione come appena visto laddove sussistano reali motivazioni di natura economica – impone sempre al datore di lavoro di dimostrare l'impossibilità di impiegare diversamente il lavoratore licenziato. Principio meglio noto come “obbligo di repêchage” (Cass., sez. lav., 13 novembre 2023, n. 31409).
Il controllo del giudice in questo ambito è limitato alla verifica della stretta correlazione tra la decisione organizzativa e la posizione del lavoratore licenziato. Questa valutazione rappresenta un bilanciamento degli interessi coinvolti, senza però interferire nelle scelte imprenditoriali.
Il repêchage, dunque, rappresenta un obbligo di costruzione giurisprudenziale. Ciò comporta che tale istituto è ed è stato soggetto ad una vera e propria evoluzione negli anni.
Tra le costruzioni giurisprudenziali degli ultimi anni, possiamo evidenziare un'ordinanza della Cassazione (Cass., sez. lav., ord. 24 gennaio 2020, n. 1656), nella quale viene affermato che nell'ambito dei gruppi societari, se il dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo non chiama in causa tutte le imprese per cui sostiene di aver prestato la propria attività, soltanto l'azienda titolare del rapporto di lavoro è tenuta ad assolvere all'obbligo di repêchage.
Nel caso esaminato dalla Corte, viene stabilito che in presenza di un insieme di imprese, i rapporti di lavoro dei dipendenti devono essere attribuiti rispettivamente alle società che ne sono titolari, a meno che non si riscontri un abuso del modello societario.
Circostanza questa che si verifica quando, nonostante esista effettivamente un'unica fonte di responsabilità datoriale, essa appare solo perché ripartita tra più aziende. Non è sufficiente che ci sia un rapporto economico-funzionale tra le società; è necessario piuttosto che la divisione tra le imprese sia fittizia o sia il risultato di una frode alla legge.
Secondo la decisione giudiziaria, l'identificazione di un'unica fonte di responsabilità lavorativa deve sempre essere valutata dal giudice.
Di conseguenza, essa deve essere esclusa se non sono coinvolte tutte le aziende per le quali il dipendente afferma di aver lavorato.
Nel caso specifico, dove la lavoratrice aveva menzionato solo l'impresa datrice di lavoro, l'obbligo di ricostituzione doveva quindi essere limitato ai dipendenti di quest'ultima e non poteva essere esteso alle altre società del gruppo.
Sempre in merito al c.d. obbligo di repêchage, la Corte di Cassazione ha fornito un'innovativa interpretazione di tale obbligo, ampliandone la portata anche a circostanze financo future, purché prevedibili al momento dell'intimazione del recesso, specificando che “il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, è tenuto a prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso. Quando, come nel caso in esame, tale circostanza sia ben nota al datore di lavoro questi ne deve tenere conto diversamente risultando il suo comportamento pur formalisticamente corretto in contrasto con i principi di correttezza e buona fede” (Cass., sez. lav., 8 maggio 2023, n. 12132).
Sulla scorta di tale orientamento possiamo constatare che, se da un lato l'ordinamento giuridico ha negli ultimi anni aperto la strada ad orientamenti finalizzati ad evitare un penetrante e inciso controllo su scelte organizzative che possono avere come base (insindacabili) valutazioni in merito ad una maggiore efficienza gestionale e produttiva dell'impresa.
Dall'altro, tuttavia, la giurisprudenza relativa all'obbligo di repêchage resta ancorata ad un controllo eccessivamente penetrante e invadente della libera iniziativa economica dell'imprenditore che, ad oggi, prima di intimare un licenziamento dovrà accertare oltre la mancata assunzione di nuovo personale anche l'impossibilità oggettiva di ricollocare il lavoratore oggetto del recesso, anche in presenza di posizioni, di livello inferiore, che possano essere in tempi brevi liberate per ragioni organizzative.
Non sempre una prova agevole da offrire il che comporta, in difetto, la statuizione di illegittimità del recesso datoriale per insussistenza delle ragioni che ne sono alla base (si v. Cass., sez. lav., 4 marzo 2021, n. 6084).
Si ringrazia per la collaborazione nella stesura del presente contributo il dott. Carlo De Leo.
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Sommario
Le ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro ed alla redditività