Brevi profili ricostruttivi e dogmatici in tema di opzione put: tra divieto di patto leonino, patto commissorio e meritevolezza

08 Maggio 2024

La Cassazione torna ad occuparsi della compatibilità dell'opzione put, attribuita ad un socio finanziatore all'interno di operazioni di finanziamenti in forma partecipativa, con il divieto di patto leonino.

Massima

L'assunto dell'illiceità, per contrarietà al divieto del patto leonino, della cd. opzione put si scontra con l'affermazione per cui “è lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l'uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l'altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (cd. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell'acquisto, pur con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società”. Non può dibattersi di violazione del patto commissorio ove il diritto di riscatto sia attribuito al venditore, non già all'acquirente. Se è pur vero che il divieto di patto commissorio si estende a qualsiasi negozio che venga utilizzato per conseguire il risultato concreto vietato dall'ordinamento, un problema di compatibilità dell'opzione put col divieto di patto commissorio può porsi in una prospettiva per così dire rovesciata rispetto a quella comunemente assunta per valutare la conciliabilità della stessa col divieto del patto leonino. Tale prospettiva è segnata dalla concreta presenza di una volontà negoziale diretta a impiegare il patto parasociale per accordare al socio finanziatore una garanzia atipica, consistente nel consolidamento dell'effetto dell'acquisto della partecipazione azionaria: volontà che potrebbe ipotizzarsi muovendo dalla considerazione che al titolare dell'opzione put è sostanzialmente accordato il diritto di valersi, ma anche di non valersi, del diritto di uscita.

Il caso

La fattispecie sottoposta all'attenzione della Suprema Corte ha riguardato una s.p.a., Alfa. che ha proposto, avanti al Tribunale di Roma, una domanda basata su di una convenzione parasociale conclusa con Go.Ce., Di.Ro. e Fr.Ba. Precipuamente, essa prevedeva l'obbligazione solidale dei medesimi quanto al rilievo dell'intera partecipazione detenuta dall'attrice in altra s.p.a., Beta, di cui erano soci, e all'acquisto di un correlato prestito obbligazionario convertibile sottoscritto da Alfa. Quest'ultima ha in particolare domandato che fosse trasferita a Gamma, S.p.A., ultima cessionaria delle partecipazioni di Go.Ce. e Di.Ro. in Beta, l'intera quota azionaria da essa detenuta in quest'ultima società e il prestito obbligazionario convertibile: ciò, dietro il corrispettivo delle somme di euro 134.685,61 e di euro 203.594,93; in via subordinata, ha proposto una domanda risarcitoria: domanda basata sul mancato acquisto della partecipazione azionaria e del prestito obbligazionario convertibile di cui si è detto.

Il Tribunale ha accolto le domande risarcitorie per gli importi sopraindicati.

In sede di gravame la Corte di appello di Roma, tuttavia, ha riformato la sentenza impugnata con riguardo a una domanda di regresso spiegata da Fr.Ba. nei confronti di Go.Ce.: domanda che è stata accolta per l'importo di euro 104.398,18. Ha confermato per il resto la sentenza di primo grado.

Ricorre per cassazione, con tre motivi, Fr. Ba.; resistono con controricorso Lazio Innova Società per Azioni, la S.p.A. incorporante Alfa, e Go.Ce.

Le questioni e le soluzioni giuridiche

La pronuncia in analisi ripropone l'annosa querelle in tema di applicabilità del divieto del patto leonino ex art. 2265 c.c. alle cc.dd. “partecipazioni a scopo di finanziamento” (ovvero anche “finanziamenti in forma partecipativa”) con patto di retrocessione.

In particolare, nella prassi operativa si riscontra frequentemente il ricorso a operazioni di finanziamento tramite la partecipazione del finanziatore al capitale di rischio delle imprese finanziate. In particolare, esse si caratterizzano per l'attribuzione al socio “finanziatore” del diritto di rivendere (c.d. opzione put) le azioni al socio “imprenditore” a un prezzo non inferiore a quello dell'investimento iniziale, a prescindere dal valore reale delle azioni al tempo di esercizio dell'opzione stessa.

In tal caso, posto che l'opzione put attribuita al socio finanziatore comporterebbe un'esenzione di quest'ultimo dalla partecipazione ai risultati (attivi e passivi) della gestione sociale, la giurisprudenza ha elaborato diversi principi al fine precipuo di delineare i complessi confini dell'operatività del divieto di cui all'art. 2265 c.c.

Segnatamente, l'opportunità di una riflessione sul tema appare di particolare interesse alla luce dell'ulteriore restrizione dei limiti di applicazione del divieto di cui si discorre, alla stregua della pronuncia annotata. È stata infatti, talvolta, riconosciuta la validità di un « finanziamento partecipativo » accompagnato dal patto di put, anche là dove esso insista su una partecipazione maggioritaria nella società conferitaria (e senza che rilevi la circostanza che l'ente partecipato sia una societas unius negotii, nonché che il finanziamento partecipativo venga concretamente configurato in collegamento con il valore del bene immobile in proprietà della società partecipata). Si tratta di una posizione che si innesta evidentemente nell'ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale in tema di opzione di vendita delle partecipazioni sociali e divieto di patto leonino, dibattito che, come noto, ha riacquistato vivacità soprattutto in ragione di alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione sul punto 

Può ricordarsi, così, che nell'ipotesi in commento si discute comunemente di «partecipazioni a scopo di finanziamento» , quali oggetto di contratti con cui viene previsto che il soggetto «finanziatore» assuma una partecipazione diretta nella societ à e ne divenga quindi socio, pattuendo tuttavia, al fine di sottrarsi dal rischio di impresa, alcuni accorgimenti negoziali, tipicamente rappresentati da clausole di put option contenute negli accordi all'uopo stipulati. Incidendo sui diritti di socio, le clausole put e call possono essere dunque definite dal punto di vista societario come clausole parasociali; mentre sul piano negoziale le stesse si inquadrano nella fattispecie dell'opzione, in quanto consentono di mantenere ferma una proposta contrattuale di acquisto (call) a prezzo predeterminato, o di vendita (put) per un periodo di tempo prefissato (In effetti, sebbene la maggior parte delle pronunce giurisprudenziali in argomento arrivino a riconoscere la validità dell'accordo potenzialmente in grado di esonerare il socio finanziatore da perdite (non mancano, tuttavia significative eccezioni: v. Trib. Milano, 30 dicembre 2011, cit.; App. Milano, 20 ottobre 2014, cit.; App. Milano, 19 febbraio 2016, cit.; App. Milano 13 febbraio 2020, cit.; Trib. Milano, 23 luglio 2020, cit.), quasi tutte — con l'eccezione di Trib. Milano, 13 settembre 2011, cit. — muovono dalla premessa, consacrata da Cass., 29 ottobre 1994, n. 8927, che le opzioni put a prezzo predefinito, indipendentemente dalla loro collocazione nello statuto o in accordi parasociali, astrattamente rientrino nell'ambito di applicazione dell'art. 2265 c.c. e possano, pertanto, ritenersi valide solo al ricorrere di determinate condizioni (carenza dei requisiti negativi dell'assolutezza e della costanza dell'esclusione da utili o perdite ovvero, in caso di pattuizione parasociale, presenza del requisito positivo della meritevolezza dell'interesse perseguito dalle parti attraverso l'accordo complessivamente considerato).

Per adeguatamente apprezzare la posizione della Cassazione, è necessario ripercorrere, seppur brevemente, l'evoluzione che la ricostruzione della ratio del divieto di cui all'art. 2265 c.c. ha subito nel corso del tempo. A tale proposito, sembra potersi dire superata la tesi secondo cui si debba riconoscere al divieto natura antiusuraria. in contrasto con tale ricostruzione ermeneutica si è posta del resto anche la Cassazione. Più specificamente, se in passato si distingueva tra esclusione del socio dagli utili, la quale si diceva viziare la sua partecipazione alla società, e esclusione dalle perdite, la quale, contrariamente, si riteneva corrispondere ad un intento legislativo anti-usurario, in occasione della pronuncia appena menzionata, la Suprema Corte si è appunto discostata da tale orientamento, conformandosi alla corrente di pensiero che attribuisce ai due divieti contenuti nell'art. 2265 c.c. un fondamento unitario. Non mancano, tuttavia, orientamenti minoritari che richiamano l'origine storica del divieto di patto leonino, quindi che leggono la previsione alla luce di una logica prettamente anti sopraffattoria, al fine di ravvisare nello stesso un limite posto a tutela dell'interesse facente capo al socio che si trova in una posizione di debolezza e negare conseguentemente il carattere transtipico della norma. La Cassazione ha ritenuto, però, che la norma, nello stabilire che tutti i soci siano partecipi del rischio di impresa, è rivolta a garantire un esercizio avveduto e corretto dei poteri di gestione: possono richiamarsi al riguardo le incisive parole della Suprema Corte, secondo cui con la disposizione in esame « assume rilievo l'individuazione dell'eliminazione del rischio di impresa, nella duplice, ed alternativa, previsione della esclusione “da ogni partecipazione agli utili o alle perdite” ».

In siffatta visione, entrambi i divieti, rispettivamente riferiti agli utili e alle perdite, vanno considerati in un'ottica unitaria, al fine di garantire il buon funzionamento della società. In tal modo la Corte ha aderito alla dottrina che aveva evidenziato come: da un lato, il socio « leone » tragga beneficio dalla partecipazione sociale senza partecipare al rischio d'impresa, trovandosi così « in un permanente conflitto di interessi rispetto a coloro che possono sia perdere sia guadagnare», data l'inclinazione ad operare in modo rischioso ma speculativo; dall'altro lato, il medesimo socio, ove rispondesse delle perdite senza partecipare agli utili, sarebbe propenso ad un eccesso di cautela, trovandosi in una posizione che può essere definita di «difetto di interesse ».

Approfondendo quanto appena esposto, e conducendo agli estremi il discorso, un socio che fosse escluso dalla partecipazione alle perdite rischierebbe di compiere scelte azzardate, inducendo gli amministratori stessi a prediligere affari più rischiosi e prospetticamente più proficui, in quanto non sarebbe toccato dagli effetti negativi di tali scelte; dalla parte opposta, un socio che non partecipasse agli utili cercherebbe di ridurre al minimo il rischio di perdita e pertanto adotterebbe un atteggiamento estremamente prudente, portando l'attività sociale all'immobilismo, poiché non beneficerebbe dei risultati positivi di una gestione proficua. Ne segue che sottesa all'art. 2265 c.c. viene ritenuta, in tale ragionamento, la sopportazione del c.d. rischio di impresa, così considerata elemento indefettibile di ogni società e che la disposizione in esame mira appunto a proteggere (M. S. Spolidoro, Clausole put e divieto di società leonina, in Riv. soc., 2018, 1285; Id., Ancora una volta a caccia con i leoni. Note critiche sulla recente giurisprudenza di merito su opzioni put e divieto dei patti leonini, in Giur. it., 2021, 632; C. Presciani, Opzione di vendita delle partecipazioni sociali e divieto di patto leonino, in Riv. dir. civ., 2020, 1148 e G. Capelli, sub art. 2265, in Commentario del Codice Civile e dei codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, a cura di De Nova, Bologna, 2021, 224).

Sempre seguendo il ragionamento della Corte di Cassazione del 1994 è peraltro necessario che l'esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante. Si fa così preciso riferimento alla circostanza in cui i soci, da un lato, estromessi totalmente e completamente dai risultati della gestione, non sono più soggetti in modo concreto ed effettivo al rischio d'impresa e conseguentemente non interessati ad un esercizio efficiente dei propri poteri sociali (assolutezza); dall'altro, l'esclusione dagli utili e/o dalle perdite risulti « ragguagliata al periodo di partecipazione del socio » (costanza) 

Occorre, a questo punto, segnalare come il dibattito circa l'applicabilità dell'art. 2265 c.c. alle società di capitali, ossia la sua transtipicità, appare tuttora particolarmente vivace. Infatti, dal punto di vista testuale il divieto è dettato soltanto per le società di persone, mancando richiami diretti o indiretti nella disciplina delle società di capitali a tale previsione.   Questo primo ostacolo testuale è stato superato dai sostenitori dell'applicabilità del divieto alle partecipazioni a scopo di finanziamento sulla base di un duplice ordine di interpretazioni. Partendo dalla prima argomentazione formale, essa legge nel divieto di patto leonino un mero corollario della definizione di contratto di società di cui all' art. 2247 c.c.

La nozione di società comprende principalmente il conferimento, che è l'apporto del socio che per sua natura può essere eroso dalle perdite, e lo scopo sociale, che è l'utile da distribuire ai soci. Ne deriva che la posizione dei soci è quella di rischio. In un'ottica organizzativa, e non contrattuale, il divieto di patto leonino si aggancia a questa norma definitoria prescrivendo il mantenimento costante di questi elementi essenziali, quali la conservazione dello scopo di lucro e l'esposizione alle perdite (M. Torsello, Partecipazione a scopo di finanziamento e patto leonino parasociale, in Contr. imp., 2000, 896; E. Barcellona, Clausole di put & call a prezzo predefinito fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Milano, Giuffrè, 2004; Id, Rischio e potere nel diritto societario riformato fra golden quota di s.r.l. e strumenti finanziari di s.p.a., Torino, 2012).

A questa interpretazione formale parte della dottrina accompagna un ulteriore argomento sostanziale che fa leva, invece, su questioni di politica legislativa. In base a questo secondo ordine di ragionamento il divieto di patto leonino, imponendo la necessaria partecipazione di ciascun socio ai risultati positivi o negativi dell'attività imprenditoriale, sarebbe volto, per l'appunto, a tutelare l'interesse al buon andamento delle imprese societarie in genere, quindi sarebbe applicabile a tutti i tipi societari. Tuttavia, il punto, ossia la configurabilità del divieto di patto leonino quale norma di ordine-pubblico, non è pacifico in dottrina, e non mancano orientamenti di segno contrastante e quindi opinioni che negano l'esistenza di un principio di “correlazione rischio-potere”, inteso come inscindibilità dal punto di vista soggettivo fra titolarità del potere a concorrere agli indirizzi gestionali e titolarità del rischio di impresa, sia esso rappresentato da una responsabilità patrimoniale limitata ovvero illimitata.

Osservazioni

La sentenza de qua ha il pregio di ripercorrere l'annoso dibattito dottrinale e giurisprudenziale in merito alla liceità di un patto parasociale avente ad oggetto un'opzione c.d. put. 

Secondo un consolidato orientamento della Corte, infatti, è lecito e meritevole di tutela (ovvero non viola il divieto di patto leonino) l'accordo negoziale (l'opzione put nel caso di specie) concluso tra i soci di una società, con il quale l'uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l'altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l‘attribuzione del diritto di vendita  (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell'acquisto, pur con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società.

Inoltre, secondo la Corte, se è pur vero che il divieto di patto commissorio si estende a qualsiasi negozio che venga utilizzato per conseguire il risultato concreto vietato dall'ordinamento, un problema di compatibilità dell'opzione put col divieto di patto commissorio potrebbe porsi eventualmente in relazione alla concreta presenza di una volontà negoziale diretta a impiegare il patto parasociale per accordare al socio finanziatore una garanzia atipica, consistente nel consolidamento dell'effetto dell'acquisto della partecipazione azionaria: volontà che potrebbe ipotizzarsi muovendo dalla considerazione che al titolare dell'opzione put è sostanzialmente accordato il diritto di valersi, ma anche di non valersi, del diritto di uscita (Nell'ambito di una letteratura ben più vasta, si vedano in particolare N. Piazza, voce “Patto leonino”, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 1982, 526; F. Sbisà, Circolazione delle azioni e patto leonino, in Contr. imp., 1988, 816; G. Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contr. imp., 1988, 771).

Tuttavia, secondo la Corte, tale profilo fattuale, coerente con tale impostazione, non è stato però allegato nel corso del giudizio, ove il tema della compatibilità dell'opzione put col divieto di cui all'art. 2744 c.c. è stato declinato in termini astratti.

Conclusioni

Pienamente condivisibile, dunque, sembra il principio affermato nella pronuncia qui commentata, a soluzione di un problema affrontato ex professo dalla giurisprudenza pratica e da quella di legittimità. La decisione pare essere, peraltro, allineata al filone ermeneutico che valorizza la meritevolezza del patto medesimo, delimitando il perimetro operativo dell'autonomia privata in ragione del divieto pubblicistico ed inderogabile di patto leonino (al fine di limitare, peraltro, fenomeni di moral hazard e allocazione inefficiente delle risorse).

Al fine di dichiarare nullo un patto leonino «esterno» al contratto sociale, la Suprema Corte reputa perciò necessario e sufficiente indagare la meritevolezza del l'opzione put, a norma dell'art. 1322, comma 2, c.c., ancorando tale valutazione ad un parametro differente. Siffatta indagine di meritevolezza viene infatti definita quale «giudizio di diritto» ed essa avrebbe ad oggetto la «agiuridicit à» della pattuizione atipica, ossia un'« ipotesi di difetto di una ragione giustificativa plausibile del vincolo, il quale non merita allora tutela e non è coercibile, restando indifferente per l'ordinamento »: con tale giudizio pertanto si vuole indagare l'interesse di chi quel patto conclude (M. Cian, La liquidazione della quota del socio recedente al valore nominale (in margine ad una clausola statutaria in deroga ai criteri legali di valutazione delle azioni), in Riv. dir. soc., 2010, I, 303).

Con tale nuova posizione, bisogna, tuttavia, constatare come la Corte di legittimità abbia ampliato il perimetro operativo del concetto di « meritevolezza » prima preso in considerazione in relazione alla questione qui in esame, ritenendo sufficiente ai fini della sussistenza della stessa la presenza nel patto di una qualsiasi «causa in concreto» meritevole di tutela dal sistema giuridico. Affinché l'accordo non contrasti col divieto di patto leonino basta che si ritenga sussistere un interesse non incompatibile con la sana amministrazione societaria (M.L. Vitali, Le azioni riscattabili, Milano, Giuffrè, 2013). Esso è il medesimo interesse che la Corte ritiene essere rappresentato dalla possibilità per le società di accedere a innovative forme di finanziamento alternative al tradizionale canale bancario e, dunque, nello scopo di incentivazione, tramite finanziamento, dell'impresa economica: la Suprema Corte qualifica, in particolare, in tali operazioni complesse una causa concreta «mista» , in quanto associativa e di finanziamento (A proposito delle origini del divieto di società leonina nel diritto romano, della sua commistione con l'etica cristiana in età medievale, nonché del suo ruolo nelle codificazioni moderne, cfr. N. Abriani, Il divieto del patto leonino. Vicende storiche e prospettive applicative, Milano, Giuffrè, 1994).

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