Restituzione di finanziamenti al socio, bancarotta fraudolenta preferenziale e dolo specifico

10 Maggio 2024

In tema di bancarotta preferenziale, la S.C. esamina la fattispecie delle restituzioni effettuate al socio dei finanziamenti concessi alla società, in periodo di insolvenza, quando questi ultimi siano stati effettuati per consentire la prosecuzione dell’attività di impresa.

Alla stesura del contributo ha partecipato l'avv. Alice Falconi.

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Massima

Integrano il reato di bancarotta preferenziale le restituzioni effettuate al socio, in periodo di insolvenza, dei finanziamenti concessi alla società, anche quando questi ultimi siano stati effettuati per consentire la prosecuzione dell’attività di impresa, con l’accordo della loro immediata restituzione; considerato che gli stessi costituiscono crediti liquidi ed esigibili e che, quanto alla sussistenza del dolo, non sussistono motivi che giustifichino, in termini di interesse societario, la soddisfazione, prima degli altri creditori, del socio, il quale, a differenza della restante massa creditoria, non ha alcun interesse ad avanzare, in caso di inadempimento, istanza di fallimento verso la società.

Il caso

L’imputato veniva condannato per i reati di bancarotta fraudolenta preferenziale, per i versamenti effettuati, a titolo di rimborso di un finanziamento, al socio, nonché per i pagamenti in favore di sé stesso dei compensi spettanti quale amministratore della fallita, e di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, per aver falsamente appostato crediti inesigibili, occultando in tal modo il valore negativo del patrimonio netto.

Ricorreva per Cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, articolando due motivi di doglianza.

Con il primo motivo, il ricorrente deduceva la violazione di legge nonché la mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in quanto, a suo giudizio, la Corte d’Appello di Torino aveva erroneamente ritenuto sussistente il dolo specifico in relazione al delitto di bancarotta preferenziale.

In particolare, quanto alla prima condotta, l’imputato rappresentava che la somma restituita al socio originava da un finanziamento dallo stesso effettuato senza pattuizione di interessi ed al solo fine di garantire la sopravvivenza della società, a fronte di un impegno alla sua restituzione in tempi brevi.

Pertanto, considerato che le somme erano state erogate in favore della società affinché questa saldasse le cambiali consegnate ai creditori, che il prestito non prevedeva il sorgere di interessi e che lo stesso era stato concesso a condizione di una sua pronta restituzione, non poteva ravvisarsi il dolo specifico della bancarotta preferenziale.

Ciò in quanto l’imputato aveva rimborsato tali somme, non già per privilegiare un creditore rispetto agli altri, bensì per perseguire gli interessi della società, cercando di evitare il suo fallimento.

Infatti, secondo l’assunto difensivo, la società non avrebbe potuto beneficiare di tale finanziamento – e dunque superare la momentanea crisi di liquidità ed onorare i propri debiti - se non impegnandosi a restituire la somma appena cessata la situazione di emergenza; pertanto la restituzione costituiva un atto finalizzato a soddisfare gli interessi della società.

A sostegno della propria tesi, il ricorrente richiamava l’indirizzo ermeneutico secondo cui il dolo specifico della bancarotta preferenziale consiste nella volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, non potendosi dunque ravvisare tale finalità allorché il pagamento sia volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia dell’attività imprenditoriale ed il risultato di evitare il fallimento possa ritenersi più che ragionevolmente perseguibile.

Quanto alla condotta relativa al pagamento del proprio compenso, poi, l’imputato censurava la motivazione della sentenza che, anche in questo caso, aveva ritenuto erroneamente sussistente l’elemento soggettivo della bancarotta preferenziale, atteso che il pagamento era stato effettuato in buona fede, essendo stato preliminarmente deliberato dagli organi della società e risultando congruo rispetto all’attività espletata ed all’impegno profuso dall’imprenditore per il salvataggio della società.

Con il secondo motivo di ricorso, invece, il ricorrente lamentava l’errata ricostruzione dei fatti e valutazione delle emergenze processuali svolte dai giudici di merito; motivo che la Corte dichiarava inammissibile, avendo ad oggetto una doglianza non suscettibile di sindacato dai giudici di legittimità.

La questione

La questione giuridica rimessa all’esame dei giudici di legittimità afferisce alla seguente questione: se il pagamento effettuato a favore di uno dei creditori a titolo di restituzione dei finanziamenti da questi concessi, in periodo di insolvenza, alla società per salvaguardare l’attività imprenditoriale integri, o meno, il dolo specifico della fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale. 

Le soluzioni giuridiche

Il Supremo Consesso dichiarava il primo motivo di ricorso manifestamente infondato e per farlo prendeva le mosse dal principio di diritto, già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui integrano il reato in parola le restituzioni ai soci – effettuate in periodo di insolvenza – dei finanziamenti concessi alla società, sulla base di due ordini di ragioni.

In primo luogo, tali finanziamenti costituiscono crediti liquidi ed esigibili e, in secondo luogo, non sussistono ragioni per soddisfare prioritariamente il socio rispetto agli altri creditori, poiché quest'ultimo, a differenza della restante massa creditoria, non ha alcun interesse ad avanzare, in caso di inadempimento, istanza di fallimento della società.

Più nello specifico, i giudici respingevano la deduzione del ricorrente, secondo cui tali restituzioni non integrerebbero l'illecito in esame in quanto i finanziamenti erano stati effettuati al solo fine di consentire alla società di saldare i creditori e dunque di proseguire l'attività di impresa, evitando il fallimento, e che tali finanziamenti erano stati possibili in quanto la società si era impegnata ad una immediata restituzione degli stessi.

Ciò in quanto, proprio la pattuizione da ultimo citata, volta a far ottenere al socio la restituzione della somma in via privilegiata rispetto agli altri creditori, in assenza di titoli legittimi di prelazione, è affetta da nullità ai sensi dell'art. 1418 c.c., per illiceità della causa.

Tale accordo si sostanzia, invero, a giudizio della Corte, in un patto illecito diretto a commettere proprio il delitto oggetto di contestazione, ovverosia il pagamento di un credito in violazione dell'ordine di soddisfazione dei creditori stabilito dalla legge sulla base delle cause di prelazione, con la volontà precisa di recare un vantaggio al creditore soddisfatto e con l'accettazione dell'eventuale danno altrui.

Nel merito, la Corte osservava, poi, che la finalità di evitare il protesto delle cambiali e conseguentemente il fallimento poteva giustificare il ricorso al finanziamento del socio ma non la sua restituzione.

Stessa sorte è toccata anche alla censura del ricorrente afferente all'erogazione del compenso effettuato a favore di sé stesso, atteso che, secondo quanto statuito dalla Corte di Cassazione, non rileva la circostanza che il compenso fosse stato deliberato dall'assemblea e fosse congruo rispetto all'attività espletata.

Tali elementi, invero, possono valere, semmai, ad escludere la più grave fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ma non anche ad elidere l'illiceità della condotta.

Nel caso di specie, la situazione di insolvenza in cui versava la società si era già palesata ed era conosciuta dall'imputato; pertanto l'aver estinto il proprio credito chirografario, prima di quelli muniti di privilegio, aveva comportato la violazione della par condicio creditorum, integrando il reato de quo.

Osservazioni e conclusioni

Il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento è piuttosto consolidato e statuisce, ancora una volta, che la bancarotta preferenziale è un reato a dolo specifico e richiede, per la sua configurazione, che l'amministratore agisca al fine di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi.

Ciò che invece resta estraneo al dolo specifico è il pregiudizio procurato agli altri creditori, che non deve necessariamente essere collegato alla finalità dell'agire, non costituendo oggetto del dolo ed essendo sufficiente che il reo si rappresenti la possibilità di ledere i creditori non favoriti, secondo lo schema tipico del dolo eventuale.

Sulla scorta di tale assunto, la giurisprudenza è giunta ad escludere il reato, difettando l'intenzione di favorire uno dei creditori, nelle ipotesi in cui l'imprenditore era spinto ad adempiere al pagamento al solo fine di evitare il pericolo della presentazione di istanze di fallimento o, comunque, nella fondata convinzione di riuscire a far fronte, anche se in un secondo momento, a tutte le posizioni debitorie, sulla base di un criterio di verosimiglianza e ragionevolezza.

In tali casi, la finalizzazione dell'azione dell'imprenditore, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia dell'attività sociale, fa venire meno l'elemento soggettivo richiesto dalla norma; che sussiste, invece, quando tale finalizzazione si aggiunge a quella di avvantaggiare alcuni creditori.

Ciò in quanto la norma richiede il dolo specifico ma non anche quello esclusivo.

In effetti, se così non fosse, in concreto la fattispecie in parola risulterebbe di difficile configurazione, dovendola escludere in tutte quelle ipotesi in cui l'apparente scopo di evitare il fallimento nasconda invece un'ulteriore finalità concorrente, ancorché non prevalente, di favorire alcuni creditori in danno di altri.

Nel caso posto all'esame della Cassazione, il ricorrente ha tentato di estendere la portata applicativa dei principi ermeneutici sopra citati, che escludono il dolo specifico della fattispecie in parola, adducendo che la condotta dallo stesso posta in essere non fosse animata dalla volontà di preferire taluni creditori rispetto ad altri, bensì da quella di consentire la prosecuzione dell'attività sociale ed evitare il fallimento.

Tuttavia, i giudici hanno correttamente riportato l'attenzione sul vero nodo interpretativo, osservando che la necessità di evitare il protesto delle cambiali poteva, semmai, giustificare il ricorso al finanziamento del socio, ma non anche la sua restituzione.

Del resto, si trattava di un credito chirografario, la cui restituzione è avvenuta quando le cambiali erano state pagate ed il pericolo imminente di fallimento era cessato.

La pronuncia in oggetto offre, peraltro, un interessante spunto per una più ampia riflessione sul tema degli apporti effettuati dai soci in un periodo di insolvenza o di forte difficoltà dell'impresa.

Invero, la sentenza in esame si colloca sulla scia di quella giurisprudenza secondo la quale il rimborso dei finanziamenti ai soci, effettuato in violazione della disciplina sulla postergazione di cui all'art. 2467 c.c., è da intendersi criminoso, integrando la fattispecie di bancarotta preferenziale.

La ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci posto dall'art. 2467 c.c., per le società a responsabilità limitata, è quella di contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in società "chiuse", determinati dalla convenienza dei soci a ridurre l'esposizione al rischio d'impresa, preferendo la forma del finanziamento, anziché quella del conferimento.

A tal fine, è bene distinguere tra gli apporti di denaro aventi natura di finanziamenti e quelli aventi natura di conferimenti, che aumentano, in altre parole, il capitale sociale, in quanto solo i primi fanno sorgere un credito effettivo ed esigibile in capo ai soci.

Diversamente, i conferimenti non danno luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'eventuale attivo del bilancio di liquidazione, avendo la natura di capitale di rischio, anziché di credito, e connotandosi proprio per la postergazione della loro restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale “residual claimant”.

In forza di tale distinzione, è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità che le somme erogate dai soci a titolo di conferimenti o anticipazioni devono essere destinate al perseguimento dell'oggetto sociale e possono essere restituite solo quando tutti gli altri creditori siano stati soddisfatti.

Per queste ragioni, la restituzione di tali somme, effettuata poco prima del fallimento della società e fuori dai casi di legittima riduzione del capitale, è stata inquadrata nel reato di bancarotta fraudolenta impropria, previsto dall'art. 329 comma 2, n. 1, CCII, in relazione al reato di indebita restituzione dei conferimenti ex art. 2626 c.c., e non in quello di bancarotta preferenziale.

Ciò in quanto i predetti pagamenti integrano una condotta in contrasto con gli interessi della società e della intera massa dei creditori, consistendo nella appropriazione di parte delle risorse sociali, distolte dalla loro naturale destinazione a garanzia dei creditori.

Di diversa natura, devono, poi, considerarsi i cosiddetti versamenti fuori capitale, ovvero quei conferimenti “atipici” che aumentano il patrimonio netto della società, senza tuttavia incrementare il valore nominale del capitale sociale, per i quali le conseguenze, in caso di loro indebita restituzione, divergono ulteriormente.

Invero, in tutte le ipotesi di rimborso di versamenti a fondo perduto, versamenti in conto capitale (o conto aumento capitale o, ancora, futuro aumento capitale), infatti, si versa nell'ipotesi di bancarotta fraudolenta per distrazione.   

Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, appare evidente come sia indispensabile indagare sulla corretta qualificazione delle erogazioni dei soci, non solo da un punto di vista formale, ma anche attraverso un'indagine circa la reale volontà delle parti nel caso concreto.

Sarà, allora, fondamentale accertare se tali erogazioni di denaro siano state effettuate dai soci con l'intento di finanziare la società, oppure di rafforzare in modo permanente la struttura patrimoniale e finanziaria della stessa, con o senza un aumento del capitale sociale, poiché le ricadute sul piano sanzionatorio, in caso di loro illegittima restituzione, differiscono in misura significativa.

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