Le singole ipotesi di cessazione del contratto di locazione ammissive e preclusive dell’indennità per l’avviamento commerciale

13 Maggio 2024

La l. n. 392/1978, per le locazioni ad uso non abitativo, stabilisce una particolare tutela per il conduttore, proprio in relazione all'attività espletata nell'immobile locato: le norme relative alla durata si preoccupano di assicurare allo stesso conduttore una stabile disponibilità locativa, mentre, con particolare riguardo alle attività che comportino contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori, si prevede che spetti al conduttore, a titolo lato sensu compensatorio, un'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale. Uno dei presupposti per percepire tale indennità è, dunque, la cessazione del contratto di locazione, poiché quest'ultima costituisce un evento che mette a repentaglio la tutela dell'attività imprenditoriale del conduttore, atteso che, per i fruitori finali dei suoi beni/servizi, si rivela importante l'ubicazione del luogo in cui tale attività viene svolta, provocando, in caso di spostamento, la perdita della clientela e, di conseguenza, dell'avviamento, imputabile a “quell'immobile”. Tuttavia, non sempre la cessazione del contratto comporta il sorgere del diritto all'indennità de qua: alcune ipotesi preclusive sono elencate espressamente dal legislatore, mentre altre sono state individuate (non sempre concordemente) dalla giurisprudenza, registrandosi, sul punto, anche interessanti interventi da parte dei giudici della Consulta.

Introduzione. Il quadro normativo

L'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale matura in conseguenza della cessazione del rapporto locativo, ma non in ogni ipotesi di scioglimento del vincolo contrattuale: stabilisce, infatti, l'art. 34, comma 1, della l. n. 392/1978 che il diritto del conduttore si configura solo ove la cessazione del contratto “non sia dovuta a risoluzione per inadempimento o disdetta o recesso del conduttore o a una delle procedure previste dal r.d. 16 marzo 1942, n. 267” (per la nuova disciplina, v. il d.lgs. 14 gennaio 2019, n. 14, recante “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza”, in attuazione della l. 19 ottobre 2017, n. 155, e ss.mm.ii.).

La ratio della disposizione è abbastanza intuitiva: qualora sia il conduttore ad assumere l'iniziativa di rilasciare i locali, viene meno la ragione della tutela dell'avviamento, atteso che è lo stesso interessato a volersi privare della redditività dell'azienda che è connaturata all'ubicazione dell'immobile; nell'ipotesi di risoluzione per inadempimento, poi, la mancata conservazione dell'impresa all'interno dei locali è imputabile al conduttore che, quindi, non è meritevole di tutela alcuna; nell'eventualità di fallimento (o di altra procedura concorsale), infine, si è in presenza di un operatore economico in crisi e, pertanto, non vi è avviamento da salvaguardare.

Comunque, grava sul conduttore, il quale richieda l'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, la prova che il rapporto di locazione è cessato per disdetta o recesso del locatore o per altre cause diverse da quelle menzionate dal citato art. 34, venendo particolarmente in considerazione un fatto costitutivo del diritto (v., per tutte, Cass. civ., sez. III, 18 novembre 1994, n. 9757).

L'eventuale rilascio spontaneo dell'immobile locato

Se, dunque, il rapporto viene a cessare per disdetta o diniego di rinnovo del locatore, il conduttore ha diritto alla corresponsione dell'indennità, non rilevando, però, la circostanza che il conduttore abbia provveduto a rilasciare spontaneamente l'immobile.

Invero, l'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale compete al conduttore, ricorrendone gli altri presupposti, per il solo fatto che il locatore abbia assunto l'iniziativa di non proseguire la locazione, mentre risulta del tutto ultronea la circostanza che il conduttore, successivamente alla disdetta o al recesso, abbia cessato di svolgere la sua attività ancorché prima della scadenza contrattuale (Cass. civ., sez. III, 23 settembre 2015, n. 18812).

Parimenti, il diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale sorge a condizione che il rapporto sia sciolto per volontà unilaterale del locatore e il conduttore non sia inadempiente, a tal fine non rilevando il ritardo nella riconsegna dell'immobile dopo la cessazione del rapporto, in quanto l'obbligazione del conduttore al rilascio dell'immobile e quella del locatore alla corresponsione dell'indennità di avviamento, pur dipendenti e reciprocamente esigibili, sorgono quando il rapporto è già cessato e si collocano, dunque, fuori dal sinallagma contrattuale (Cass. civ., sez. III, 5 dicembre 2014, n. 25736).

Ai fini della spettanza dell'indennità è, infatti, ininfluente che l'iniziativa del locatore non sia stata contrastata dal conduttore, oppure che quest'ultimo abbia rilasciato l'immobile aderendo alla richiesta della controparte senza provocare in merito alcun accertamento giudiziale, in quanto, in tali comportamenti passivi, non possono essere ravvisati, per via presuntiva, gli estremi di un concorso volitivo allo scioglimento del rapporto per mutuo dissenso, e tanto meno le manifestazioni di un'autonoma volontà del conduttore di dismettere l'utilizzazione a fini lavorativi dell'immobile, indipendentemente dalla richiesta del suo rilascio proveniente dal locatore ed in esercizio di una propria facoltà di recesso (Cass. civ., sez. III, 9 novembre 1991, n. 11974).

Si è precisato, altresì, che il conduttore non perde il diritto all'indennità neppure qualora il rilascio spontaneo si attui prima della scadenza (Cass. civ., sez. III, 6 marzo 1998, n. 2485); ciò non significa che il conduttore, ricevuta la disdetta, possa decidere unilateralmente di far cessare il rapporto prima della scadenza, sottraendosi alle proprie obbligazioni: anzi, tale condotta integra inadempimento e, in tal caso, il conduttore non può vantare, in dipendenza della disciplina dettata dall'art. 34 della l. n. 392/1978, alcun diritto all'indennità di avviamento, essendosi il contratto risolto, a seguito di una condotta a lui addebitabile, prima di quella data (Cass. 6 ottobre 2005, n. 19478).

Il rilascio dell'immobile da parte del conduttore non impedisce il sorgere del diritto all'indennità de qua nemmeno nel caso di nullità o inefficacia del diniego di rinnovazione, come accade nel caso di mancata enunciazione dei motivi di cui all'art. 29 della l. n. 392/1978 e nell'ipotesi di intempestiva comunicazione (Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 2009, n. 454; Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2007, n. 15590; Cass. civ., sez. III, 28 novembre 2001, n. 15091); d'altronde, la disdetta, anche se nulla o inefficace, costituisce l'estrinsecazione di un'iniziativa unilaterale del locatore, al quale soltanto è imputabile la cessazione del rapporto.

In proposito, si è puntualizzato (Cass. 21 novembre 2001, n. 14728) che la disdetta del contratto di locazione, quale atto di natura negoziale, ha la funzione di impedire, se non opposta, la rinnovazione del contratto, per cui, ancorché detto atto sia inefficace per mancanza di valido motivo di diniego, il rilascio non può essere ricondotto alla volontà del conduttore in ordine alla cessazione del rapporto o al mutuo consenso delle parti, non venendo meno il diritto del medesimo all'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale; per poter contestare validamente la spettanza dell'indennità al conduttore, occorre, infatti, che la cessazione del rapporto sia dovuta all'iniziativa del medesimo conduttore oppure alla sua partecipazione ad una convenzione risolutoria (scioglimento per mutuo consenso ex art. 1372, comma 1, c.c.), mentre è assolutamente irrilevante la circostanza che il conduttore abbia rilasciato l'immobile senza contestazioni in sede giudiziale o stragiudiziale, prestando adesione, espressa o tacita, alla richiesta del locatore, poiché, in tal caso, la genesi della cessazione del rapporto si identifica pur sempre nella condotta del locatore, che abbia manifestato la volontà di porre termine alla locazione.

La disdetta o il recesso da parte del conduttore

Se il rapporto cessa per recesso o disdetta del conduttore - come si è sopra rilevato - il diritto all'indennità non viene ad esistenza.

Ci si è interrogati sulle conseguenze del concorso, per la medesima scadenza, di due distinte disdette, l'una proveniente dal conduttore e l'altra posta in essere dal locatore.

La soluzione suggerita è stata nel senso di dare prevalenza a quella delle due disdette che sia stata comunicata per prima, poiché la disdetta recapitata in un momento successivo non potrebbe produrre l'effetto risolutorio, già irreversibilmente prodottosi in forza della disdetta inviata precedentemente.

Si è, in proposito, precisato che, alla prima scadenza, dovrebbe comunque attribuirsi prevalenza alla disdetta del conduttore, atteso che, in vista dello spirare del primo sessennio, il locatore ha il potere di denegare il rinnovo, e perciò la disdetta del conduttore, anche se posteriore alla comunicazione di quel diniego, aggiunge, in realtà, non foss'altro che sotto il profilo della rinuncia al rinnovo medesimo, un quid pluris alla fattispecie.

Si è, però, obiettato che l'attitudine del diniego di rinnovo a determinare l'estinzione del rapporto alla prima scadenza passa attraverso la mancata contestazione della serietà dell'intenzione o, in caso di contestazione, attraverso la verifica giudiziale della suddetta serietà, sicché, salvo che non si voglia attribuire alle due manifestazioni di volontà convergenti il significato proprio di un mutuo consenso alla risoluzione del vincolo, il diniego di rinnovo comunicato prima della disdetta, e fondato su di un proposito serio - e da ritenersi tale sia perché pacifico, sia accertato dal giudice - dà diritto al compenso.

Comunque, la legge espressamente include la disdetta del conduttore nel novero delle fattispecie estintive dei rapporti di locazione da cui non discende il diritto all'indennità (sulla non spettanza dell'indennità in caso di recesso del conduttore, v., ex multis, Cass. 24 febbraio 1993, n. 2284; sul versante della giurisprudenza di merito, v. Trib. Trieste 26 aprile 2004, confermata da App. Trieste 25 novembre 2004).

Nondimeno, va segnalato che la Suprema Corte (Cass. civ., sez. un., 27 febbraio 1995, n. 2231) attribuisce al termine “recesso” un significato più ampio di quello che gli è proprio: si afferma, infatti, che per recesso non deve intendersi soltanto quello regolato dall'art. 27, comma 7, della l. n. 392/1978, in quanto, nella norma in questione, il termine è usato in un'accezione ampia, comprensiva di ogni risoluzione anticipata del contratto che, anche se formalmente consensuale per adesione del locatore, possa farsi risalire ad una manifestazione di volontà del conduttore che non abbia più interesse alla continuazione della locazione.

Anche alla disdetta ed al recesso del conduttore va applicata, infine, la regola, fatta propria dalla giurisprudenza in tema di disdetta del locatore, per cui quel che rileva è l'iniziativa assunta dalla parte per provocare la cessazione del rapporto, sicché non interessa se il recesso o la disdetta siano tardivi o se i gravi motivi posti a fondamento del recesso siano insussistenti o non enunciati nel preavviso.

In quest'ordine di concetti, qualora il conduttore si limiti a non opporsi ad un'iniziativa risolutiva del locatore (ancorché infondata) o non aderisca alle nuove condizioni economiche cui quest'ultimo condiziona la prosecuzione del rapporto, non ricorre un'ipotesi di disdetta o recesso del conduttore, che, per essere tale ed escludere il diritto a percepire la suddetta indennità ai sensi dell'art. 34 della l. n. 392/1978, deve prescindere da qualunque iniziativa del locatore, volta a far cessare il rapporto o a subordinarne la prosecuzione al mutamento delle condizioni economiche (Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2016, n. 22976).

Ad ogni buon conto, la cessazione deve essere riferibile alla volontà del conduttore, che può essere espressa o chiaramente desumibile da comportamenti idonei a manifestare disinteresse alla prosecuzione del rapporto, tra i quali, tuttavia, non può includersi il mero silenzio (Cass. civ., sez. III, 20 giugno 2022, n. 20892).

Il mutuo consenso delle parti

L'art. 34 della l. n. 392/1978 non contempla espressamente, tra le ipotesi di esclusione del diritto all'indennità di avviamento, la cessazione del contratto per mutuo consenso.

Sollevata in proposito la questione di costituzionalità, i giudici della Consulta (Corte Cost. 20 dicembre 1989, n. 565) l'hanno ritenuta manifestamente infondata con una sentenza interpretativa di rigetto, rilevando che l'ipotesi all'esame del giudice a quo rientrasse nella previsione dell'art. 34 della l. n. 392/1978, in quanto assimilabile al recesso ad nutum oppure alla disdetta del conduttore.

Riguardo a quest'ultimo soggetto, quindi, ciò che rileva, ai fini dell'esclusione del diritto all'indennità, è l'intento di non proseguire il rapporto alla scadenza o di interromperlo, intento sussistente anche nel caso dello scioglimento del rapporto per mutuo consenso.

La transazione e la novazione

Riguardo agli accordi transattivi intercorsi tra le parti con riferimento al rilascio dell'immobile, la Cassazione (Cass. civ., sez. III, 1° giugno 1995, n. 6133; Cass. civ., sez. III, 8 gennaio 1987, n. 26) ha affermato che l'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale deve essere riconosciuta al conduttore, nel concorso dei presupposti di legge, in presenza di un accordo transattivo vertente anche sulla data di rilascio dell'immobile locato, dovendo ricondursi il rilascio all'esclusiva iniziativa del locatore, pure se il conduttore si sia limitato ad aderire alla richiesta stragiudiziale del locatore, essendo rilevante - non l'oggetto iniziale della controversia transatta, bensì - il conseguimento in sede conciliativa da parte del locatore di un rilascio a lui favorevole.

Conclusioni diverse si prospettano qualora la transazione contempli la prosecuzione del rapporto, perché, in tal caso, deve attribuirsi rilievo decisivo alla mancata cessazione di questo.

Si è, inoltre, esaminato il caso della convenzione novativa che preveda il rilascio dell'immobile locato e la concessione in locazione di altro immobile, ritenendo, in proposito, che l'indennità non spetti, atteso che, in tale ipotesi, continua ad essere assicurata al conduttore la stabilità della locazione, sia pure in altro immobile, e che, nell'evenienza specifica in cui la nuova locazione abbia ad oggetto un locale contiguo, è radicalmente escluso che il conduttore abbia dalla novazione alcuna perdita dell'avviamento in ipotesi già conseguito nell'originario immobile.

In quest'ottica, di recente, si è statuito (Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 2023, n. 4947) che l'eventuale rinuncia all'indennità di avviamento contenuta in un accordo, trasfuso nel verbale di conciliazione concluso tra le parti a definizione di un precedente contenzioso tra le stesse, sia sottratta alla sanzione della nullità ex art. 79 della l. n. 392/1978: invero, qualora le parti del contratto di locazione di un immobile urbano definiscano transattivamente le liti giudiziarie fra loro pendenti circa la durata del rapporto e l'ammontare del canone, stabilendo, fra l'altro, una determinata scadenza per il rilascio dell'immobile ed un certo corrispettivo per il suo ulteriore godimento, questo nuovo rapporto, ancorché di natura locatizia, trova la sua inderogabile regolamentazione nei patti del negozio transattivo e, in via analogica, nella normativa generale delle locazioni urbane, ma si sottrae - data la sua genesi e l'unicità della causa che avvince il complesso rapporto - alla speciale disciplina giuridica che regola la materia delle locazioni - leggi di proroga legale, legge c.d. dell'equo canone e successive modificazioni - cui è assolutamente insensibile; peraltro, il precedente rapporto, che deve ritenersi convenzionalmente estinto alla data della transazione, resta regolato - per quanto riguarda il suo svolgimento e la sua cessazione - dallo stesso negozio transattivo oppure, in mancanza di patti contrari, dalla normativa ordinaria e da quella speciale previgenti.

La risoluzione per inadempimento

La risoluzione per inadempimento del conduttore è espressamente considerata dal comma 1 dell'art. 34 della l. n. 392/1978 quale causa di esclusione dell'obbligo del locatore di corrispondere l'indennità.

Al fine di perimetrare correttamente l'ipotesi contemplata dalla norma, in una particolare fattispecie analizzata dai magistrati di Piazza Cavour (Cass. civ., sez. III, 21 settembre 2017, n. 21917), si è statuito che, qualora il locatore abbia comunicato di non voler rinnovare il contratto alla prima scadenza - nella specie, con raccomandata spedita almeno dodici mesi prima, ai sensi dell'art. 29 della l. n. 392/1978 - non può riconoscersi al conduttore la facoltà di far cessare il rapporto anticipatamente, sottraendosi, senza il consenso del locatore, alle proprie obbligazioni; in tal caso, il suo interesse a non perdere le occasioni che gli fossero date in epoca anteriore alla scadenza non potrà essere perseguito addossandone il costo al locatore, ma potrà essere soddisfatto, in base alle valutazioni di convenienza dello stesso conduttore, con la “perdita” costituita dall'immanenza dell'obbligazione del medesimo conduttore di pagare il canone fino alla scadenza (o fino alla data anteriore in cui vi sia stata restituzione accettata dal locatore), alla quale maturerà, peraltro, il suo diritto alla corresponsione dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, con il relativo onere a carico del locatore; ne consegue - per quel che qui interessa - che la diversa scelta del conduttore di non versare più il canone locativo integra inadempimento e comporta la perdita del diritto alla corresponsione dell'indennità di avviamento, essendosi il contratto risolto, in dipendenza di una condotta a lui addebitabile, prima della scadenza (v., in senso conforme, Cass. civ., sez. III, 29 agosto 2011, n. 17681).

Si è, altresì, evidenziato che la risoluzione, pur dovendo tradursi in una pronuncia giudiziale, potrebbe essere oggetto di un accertamento incidenter tantum: ipotesi, questa, che si verificherebbe allorché essa venga opposta in via di eccezione al fine di paralizzare la pretesa del conduttore al pagamento dell'indennità de qua.

Proprio perché correlato al dato della mancata spettanza dell'indennità, l'interesse del locatore ad una statuizione in punto di risoluzione per inadempimento del conduttore non viene, poi, meno nel caso di intervenuta riconsegna dell'immobile locato per scadenza del termine.

Invero, nell'ipotesi in cui, nel corso del procedimento instaurato dal locatore per ottenere la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, intervenga la restituzione dell'immobile per finita locazione, non viene meno l'interesse (ed il diritto) del locatore ad ottenere l'accertamento dell'operatività di una pregressa causa di risoluzione del contratto per grave inadempimento del conduttore, potendo da tale accertamento derivare effetti a lui favorevoli come, appunto, in caso di immobile non abitativo, la non debenza dell'indennità di avviamento (Cass. civ., sez. III, 22 dicembre 2015, n. 25740; Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2012, n. 2082; Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2002, n. 8435).

L'impossibilità sopravvenuta del contratto

La risoluzione per impossibilità sopravvenuta del contratto di locazione non rientra, invece, tra le ipotesi espressamente escluse dall'art. 34, comma 1, della l. n. 392/1978 (si pensi al perimento dell'immobile a seguito di incendio).

I giudici della Consulta (Corte Cost. 23 dicembre 1987, n. 576) hanno, tuttavia, negato che l'indennità spetti nella particolare ipotesi di distruzione dell'immobile locato: si è rilevato, in proposito, che l'interpretazione della norma impugnata prospettata dal giudice a quo era inaccettabile, giacché, nell'ipotesi considerata, con l'estinzione degli obblighi delle parti della locazione relativi alle reciproche prestazioni, veniva meno anche la causa dell'obbligazione accessoria concernente l'indennità di avviamento.

Inoltre, con riferimento all'ipotesi di sopravvenuta inagibilità dei locali, si è stabilito (Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 1992, n. 11091) che la cessazione dell'attività all'interno dell'immobile non determina la perdita del diritto del conduttore all'indennità di avviamento qualora, non avendo il locatore fatto valere la risoluzione del contratto per l'impossibilità sopravvenuta della prestazione, il rapporto sia venuto a cessare, per iniziativa del locatore stesso, solo in ragione della scadenza (legale o convenzionale) del contratto.

Differisce, invece, dall'ipotesi di perimento dell'edificio, ove è esercitata l'attività del conduttore, l'espropriazione da parte della Pubblica Amministrazione dell'immobile stesso; in proposito, si è avuto modo di precisare (Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2005, n. 15936) , che, in tema di determinazione dell'indennità di espropriazione, il diritto del conduttore, che nell'immobile eserciti un'attività economica, ad un'indennità aggiuntiva è riconosciuto solo nelle ipotesi, previste dall'art. 17, comma 2, della l. 22 ottobre 1971 n. 865, del “fittavolo, mezzadro, colono o compartecipante costretto ad abbandonare il terreno”, mentre, nelle altre ipotesi, riprendono vigore i principi generali in tema di espropriazione per causa di pubblica utilità, quali si traggono dalla legge fondamentale 25 giugno 1865, n. 2359 - cui già faceva rinvio, prima delle innovazioni introdotte in materia dagli art. 34 e 35 della l. n. 392/1978, il combinato disposto degli artt. 4 e 6 della previgente l. n. 19/1963 sulla tutela giuridica dell'avviamento commerciale - secondo cui (art. 27, comma 3, l. n. 2359/1865), lungi dal riconoscersi ai conduttori un ulteriore, autonomo indennizzo volto a compensare il pregiudizio per le attività di fatto espletate sull'immobile ed interrotte dall'espropriazione, è attribuito, piuttosto, agli stessi il diritto di pretendere dal proprietario già indennizzato la corresponsione della parte di indennità loro spettante (come previsto, peraltro, anche dall'art. 1638 c.c.), nonché il diritto, in via alternativa, sulla base del disposto degli artt. 52-56 della citata l. n. 2359/1865, di agire con opposizione avverso la stima dell'indennità medesima - qualora ritengano che l'indennità come determinata in sede amministrativa non comprenda l'intero ammontare dovuto - oppure di intervenire nell'analogo giudizio promosso dal proprietario espropriato, qualificandosi tale intervento come intervento autonomo e restando esclusivo legittimato passivo l'espropriante, ancorché la sua eventuale responsabilità verso i medesimi conduttori, in base al principio dell'unicità dell'indennità nella disciplina di cui alla menzionata l. n. 2359/1865, possa solo esplicarsi nell'adempimento dell'obbligo di depositare, a favore del proprietario, anche quella somma che risulti destinata a soddisfare le ragioni del conduttore stesso.

Il divieto amministrativo di uso dell'immobile

Il giudice delle leggi (Corte Cost. 14 dicembre 1989, n. 542) ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l'art. 34, comma 1, della l. n. 392/1978, nella parte in cui non considera i provvedimenti della Pubblica Amministrazione tra le cause di cessazione del rapporto di locazione che escludono il diritto del conduttore all'indennità per la perdita dell'avviamento.

In particolare, si è evidenziato che il provvedimento amministrativo, che vieti sine die l'utilizzazione dell'immobile locato da parte non solo del conduttore, ma anche del locatore, determina la cessazione del rapporto locatizio, e non può non produrre effetti anche sull'obbligazione avente ad oggetto la corresponsione dell'indennità per la perdita dell'avviamento, analogamente a quanto è espressamente contemplato in caso di cessazione del rapporto di locazione per risoluzione da inadempimento o disdetta o recesso del conduttore o per una delle procedure previste dalla legge fallimentare.

Sull'abbrivio della decisione della Corte Costituzionale, si colloca la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2012, n. 13194; Cass. civ., sez. III, 28 ottobre 2009, n. 22810), secondo la quale, in tema di locazioni ad uso diverso da quello abitativo, la funzione dell'indennità dovuta dal locatore al conduttore per la perdita dell'avviamento commerciale è quella di riequilibrare la posizione delle parti, onde evitare che il locatore possa realizzare un arricchimento senza causa per effetto dell'incremento di valore dell'immobile dovuto all'attività del conduttore; ne consegue che tale funzione riequilibratrice viene meno quando il rapporto di locazione cessi per effetto di un provvedimento autoritativo della Pubblica Amministrazione che determini l'inutilizzabilità sine die del bene locato - nella specie, ordinanza di sgombero a causa del pericolo di crollo - sicché, in tale ultima ipotesi, non è dovuta la suddetta indennità, a meno che il conduttore non deduca e dimostri che l'immobile, venuta meno la causa di inutilizzabilità, sia tornato ad essere suscettibile di sfruttamento commerciale.

La morte del conduttore

Si discute se gli eredi del conduttore possano pretendere la corresponsione dell'indennità nel caso in cui il rapporto si sia estinto per morte di quel soggetto: ciò, ovviamente, nel caso in cui non si attui la successione nel contratto di cui all'art. 37 della l. n. 392/1978.

Alcuni hanno risposto al quesito in senso affermativo, sostenendo, in proposito, che il decesso del conduttore determinerebbe, comunque, la risoluzione del contratto.

Il che è senz'altro vero, ma non è sembrato sufficiente ad esaurire l'argomento: è stato rilevato, infatti, che, in caso di morte del conduttore, non vi è alcun interesse da tutelare circa la stabilità e la continuità del rapporto, essendo venuto meno, per morte, il titolare del suddetto interesse e non essendovi altri soggetti in grado di continuarne l'attività.

Merita, peraltro, aggiungere che, riguardo alla materia dell'affitto agrario, è stato stabilito che l'indennità prevista dall'art. 43 della l. n. 203/1982 in favore degli affittuari coltivatori diretti, degli affittuari coltivatori non diretti, dei mezzadri, dei coloni, dei compartecipanti e dei soccidari, in ogni caso di risoluzione incolpevole del contratto, ha la funzione di compensare il pregiudizio economico derivante dalla cessazione del rapporto di lavoro e l'avviamento produttivo realizzato nel fondo dallo affittuario e del quale il locatore si avvantaggia all'atto della risoluzione anticipata del rapporto; pertanto, tale indennità spetta anche nel caso di risoluzione per morte del coltivatore, come risulta confermato dal fatto che tale evento non è considerato tra le cause di esclusione dell'indennizzo espressamente previste dalla citata l. n. 203/1982 (Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 1993, n. 1835).

La conservazione del godimento dell'immobile per un diverso titolo

In diverse ipotesi, può accadere che, cessato il rapporto di locazione, l'ex conduttore mantenga il godimento del bene per un diverso titolo (si pensi al caso in cui egli acquisti la proprietà dell'immobile locato, a seguito dell'esercizio della prelazione).

Ci si è soffermati, in particolare, sul caso dell'esercizio della prelazione o del riscatto, concludendo nel senso che la confusione, nella stessa persona dell'acquirente, delle due qualità di locatore e conduttore escluderebbe che il problema possa porsi.

Merita, in proposito, rammentare che la Corte Costituzionale (Corte Cost. 5 maggio 1983, n. 128) ha avuto modo di soffermarsi sul tema del possibile cumulo dei rimedi dell'indennità di avviamento e della prelazione, rilevando che i due benefici non si sommano, in quanto, in caso di vendita dell'immobile, opera la prelazione ma non l'indennità di avviamento, dovuta per l'art. 34 in caso di cessazione del rapporto locativo per cause diverse dalla vendita dell'immobile.

Nella stessa prospettiva, è stato esaminato (da parte di Cass. civ., sez. III, 26 settembre 1995, n. 10155) il caso della costituzione, in favore del conduttore, di un diritto reale limitato di godimento (nella fattispecie, diritto d'uso) sull'immobile locato: anche se l'indennità copre presuntivamente la perdita del bene-avviamento, tale perdita ricorre soltanto quando il conduttore è costretto a cessare lo svolgimento della propria attività nell'immobile locato, e non, invece, quando - continuando la stessa ubicazione dell'attività, sia pure ad altro titolo, dopo la cessazione del rapporto locativo - non si può presumere nessuna dispersione o perdita del bene-avviamento.

Può, dunque, affermarsi, in generale, che l'indennità di avviamento non può essere mai riconosciuta al conduttore in mancanza del rilascio dell'immobile dopo la cessazione de iure del rapporto locatizio; così, nella fattispecie in cui il conduttore era rimasto nella detenzione dei locali dopo la scadenza del contratto, e solo a distanza di mesi aveva ceduto la propria azienda ad un terzo, dal quale aveva ricevuto un prezzo dichiarato dalle parti comprensivo anche dell'avviamento commerciale, la Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 6 novembre 2009, n. 23558) ha ulteriormente ribadito che, affinchè sorga il diritto all'indennità, occorre che vi sia il rilascio dell'immobile locato, il quale è il fatto causativo della perdita dell'avviamento.

Ne consegue che, se alla cessazione del rapporto locatizio non si accompagna il rilascio del locale e l'attività economica ivi svolta continua ad esservi esercitata, non vi può essere perdita di avviamento e, quindi, pregiudizio economico da compensare, sia pure con quel particolare meccanismo automatico introdotto dalla suddetta norma (Cass. civ., sez. III, 11 gennaio 2001, n. 339).

L'esercizio della prelazione su immobile di interesse storico o artistico

In caso di esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato, avente ad oggetto un immobile di interesse artistico o storico, l'esercizio del potere ablatorio da parte della Pubblica Amministrazione determina l'acquisizione dell'immobile al regime del demanio pubblico e l'automatica cessazione del rapporto di locazione concluso dal precedente proprietario, onde l'Amministrazione non acquista la qualità di locatore, conseguendone l'insussistenza del diritto all'indennità (Cass. civ., sez. III, 21 giugno 1995, n. 7020).

Si è chiarito, sul punto, che l'esercizio da parte della P.A. del diritto di prelazione previsto dall'art. 31 della l. 1° giugno 1939 n. 1089, riguardo alle alienazioni fra privati di beni con valore artistico o storico, comporta l'acquisizione coattiva del bene ed il suo assoggettamento al regime del demanio pubblico, ai sensi degli artt. 822 e 824 c.c., sicché il suo godimento da parte di terzi non può più avvenire in base a contratti di diritto privato, ma soltanto mediante un atto avente natura di concessione.

Ne discende che il rapporto di locazione concluso dal precedente proprietario dell'immobile con un terzo cessa automaticamente per effetto dell'esercizio del potere ablatorio della P.A. e che l'ex conduttore non può vantare nei confronti della P.A., la quale non ha mai assunto la qualità di locatore, alcun diritto che sia dipendente o collegato a tale qualità e, in particolare, non può esercitare ex art. 34 della l. n. 392/1978 l'azione diretta ad ottenere il compenso per la perdita dell'avviamento commerciale, operando tale normativa nei rapporti fra conduttore e locatore.

La nullità, l'annullamento e la rescissione del contratto

È indubbio che l'indennità non competa in caso di nullità del contratto, mentre si è, invece, sostenuto che la contraria conclusione varrebbe nel caso in cui il contratto sia annullato o rescisso.

Al riguardo, si è affermato che, nel caso di annullamento, il contratto viene in effetti ad esistenza ed è soltanto rimosso ex post: l'ipotesi sarebbe riconducibile, quindi, alla nozione di cessazione del rapporto di locazione; del resto - si è aggiunto - l'assimilazione delle due ipotesi troverebbe fondamento nel rilievo per cui, essendo la locazione un contratto a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata, la pronuncia di annullamento non consentirebbe di ripetere quanto dalle parti prestato nel periodo intercorrente tra la stipula del negozio ed il suo annullamento.

Tale soluzione non è stata condivisa da alcuni, atteso che un contratto annullato (o rescisso) è un negozio giuridico radicalmente privo di effetti, e lo è anche se ad essere invalido sia un contratto di durata, atteso che, per quest'ultima fattispecie, la limitazione dell'effetto retroattivo della pronuncia opera nella sola ipotesi di risoluzione.

Quanto, poi, all'argomento fondato sull'irripetibilità delle prestazioni eseguite, esso prova troppo, visto che è spendibile anche in caso di nullità (v., ad esempio, Cass. civ., sez. III, 3 maggio 1991, n. 4849).

In conclusione

La previsione secondo cui l'indennità per la perdita dell'avviamento non spetti al conduttore sottoposto al fallimento, ai sensi del comma 1 dell'art. 34 della l. n. 392/1978, è stata oggetto di una lettura non sempre collimante, restando inteso che il termine “procedure concorsuali” comprende, unitamente al suddetto fallimento, il concordato preventivo, l'amministrazione controllata, l'amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa.

L'esclusione dell'indennità dovrebbe valere nella sola ipotesi in cui la cessazione del contratto discenda dall'esercizio della facoltà del recesso da parte del curatore, a norma dell'art. 80 della l. fallim., secondo il quale, infatti, fallito il conduttore, non opera automaticamente lo scioglimento del contratto, che, appunto, prosegue, salva la facoltà del curatore di esercitare il recesso ed il diritto del locatore ad un equo compenso liquidato dal giudice delegato.

Nel caso, invece, di cessazione del contratto per altra causa, il diritto all'indennità non sarebbe escluso, ancorché il fatto estintivo del rapporto sia intervenuto dopo l'apertura della procedura concorsuale; in particolare, ove la locazione sia cessata prima della dichiarazione di fallimento, la prosecuzione del rapporto non potrebbe giuridicamente sussistere, ma il diritto all'indennità, se ne ricorrevano i presupposti e non sia stato già liquidato al fallito, costituisce un credito di questi nei confronti del locatore e, di conseguenza, l'indennità dovrebbe essere corrisposta alla massa.

Sussiste, quindi, il diritto all'indennità in favore della curatela qualora l'esercizio dell'impresa continui anche dopo il fallimento - il che presuppone il subentro del curatore nel contratto - e la locazione, giunta alla sua naturale scadenza, venga a cessare per iniziativa del locatore.

In questo caso, infatti, può configurarsi un avviamento commerciale, ove si consideri che l'azienda può essere venduta dal fallimento a terzi, nel suo complesso, e che la locazione può essere parimenti ceduta insieme a quell'elemento patrimoniale costituito dal diritto all'indennità, e ciò starebbe a dimostrare che l'impresa fallita, la quale continui la sua attività in pendenza del procedimento concorsuale, è un'entità economica evidentemente munita di un avviamento commerciale.

Su questa linea interpretativa, si pone anche chi evidenzia come il collegamento con la cessazione del rapporto permette di chiarire che il riferimento (generico) del legislatore alle procedure concorsuali deve essere inteso nel senso che esse rilevino soltanto quando, secondo le scelte effettuate dagli organi ad esse preposte, abbiano dato causa alla risoluzione della locazione.

In fondo, anche in base al dato testuale dell'art. 80, comma 2, della l. fallim., se la locazione “continua”, malgrado il fallimento del conduttore, non si può sostenere che essa sia “cessata” e, quindi, difetta il motivo per negare la corresponsione dell'indennità, che spetta, invece, se il rapporto di locazione venga a cessare a seguito di disdetta del locatore alla sua naturale scadenza, salvo che, prima di essa, il curatore receda.

Secondo un'altra lettura, dovrebbe escludersi in radice l'esistenza di un avviamento commerciale riguardo all'impresa fallita, sicché l'indennità dovrebbe essere negata anche ove il rapporto si protragga nel corso della procedura e cessi per una ragione diversa dal recesso del curatore; tale contraria opinione si basa sul rilievo che, onde pervenire all'affermazione che l'indennità spetti al curatore, si dovrebbe necessariamente presupporre, da parte di questi, l'esercizio di un'attività imprenditoriale, il che, invece, non è, pur se, ai sensi dell'art. 90 della l. fallim., il Tribunale abbia disposto la continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa del fallito,

Il subentro del curatore nel rapporto locatizio avviene, infatti, esclusivamente in funzione della gestione delle attività fallimentari ed esula, per la sua specialità, dal concetto di successione, come si configura ai sensi della l. n. 392/1978; in buona sostanza, stante la previsione dell'art. 36, comma 2, riguardo alla diversa ipotesi di successione per titolo negoziale, non sarebbe giuridicamente concepibile attribuire al curatore la qualifica di successore nel rapporto ai fini della maturazione del diritto all'indennità, né tantomeno potrebbe affermarsi che il curatore rivesta la qualità di titolare di un'impresa che è fallita.

In tal senso, la Cassazione (Cass. civ., sez. III, 9 maggio 2002, n. 6650) ha affermato che l'indennità non è dovuta in tutti i casi in cui il conduttore abbia cessato l'esercizio della sua impresa - non in conseguenza della fine del rapporto locativo, bensì - per effetto del fallimento, a nulla rilevando che il curatore, per realizzare le ragioni del fallimento, abbia continuato, nell'immobile locato, e fino alla naturale scadenza del contratto, l'attività di vendita precedentemente svolta dal conduttore fallito.

Nella stessa prospettiva, si colloca la giurisprudenza di merito (Trib. Foggia 19 dicembre 1983), secondo cui, pronunciata sentenza di rilascio per necessità abitativa del locatore nei confronti del conduttore di immobile ad uso commerciale, qualora, nel corso del giudizio di liquidazione dell'indennità per perdita dell'avviamento, sopravvenga il fallimento del conduttore, non si configura un'interruzione del nesso di causalità tra recesso e danno per la perdita dell'avviamento, non versandosi, nella specie, in ipotesi di perdita del relativo diritto.

Secondo il parere di altra pronuncia di merito (Trib. Messina 4 novembre 1989), la semplice pendenza della procedura fallimentare, al momento della cessazione del rapporto locatizio per finita locazione, esonera il locatore dall'obbligo di corrispondere l'indennità per l'avviamento commerciale, in quanto il fallimento del conduttore, quale mera situazione concomitante con la cessazione della locazione, costituisce un evento che sacrifica le aspettative di indennizzo di una parte attiva e, quindi, non è meritevole di tutela, non potendo più sussistere l'esigenza della conservazione dell'impresa frustrata dall'intervenuto dissesto, né la compressione dell'iniziativa commerciale del conduttore, quali presupposti del diritto all'indennità.

Nell'ipotesi di revoca del fallimento, si è esclusa (secondo Pret. Napoli 25 novembre 1985) la spettanza dell'indennità, ormai non dovuta per effetto del recesso esercitato dal curatore del fallimento del conduttore.

Approfondendo la questione, innanzitutto, ci si è chiesti se la disposizione dell'art. 34 della l. n. 392/1978 sia volta a tutela il soggetto conduttore-imprenditore oppure l'azienda da questi gestita, e la risposta è stata nel senso che il soggetto direttamente tutelato sia il primo, essendo del tutto indifferente l'effettivo pregiudizio subìto dalla seconda a seguito della cessazione del rapporto, e dovendosi, comunque, riconoscere il diritto all'indennità ancorché l'attività imprenditoriale sia cessata ancor prima della locazione con la definitiva dissoluzione dell'azienda.

Il fallimento del conduttore, quindi, pur potendo non determinare la dissoluzione dell'azienda, per effetto dell'autorizzazione al curatore alla gestione provvisoria, viene a configurarsi come causa di cessazione dell'attività d'impresa del conduttore fallito e, correlativamente, del contratto di locazione con lui stipulato dal locatore.

E' evidente, a questo punto, lo sforzo interpretativo per negare che il subentro del curatore, che non è receduto dal contratto di locazione, sia, comunque, causa di cessazione del contratto medesimo; ciò tanto più qualora - sia stata o meno autorizzata la gestione provvisoria dell'azienda - il curatore, rimasto ad ogni effetto titolare del rapporto locatizio, cedi o affitti a terzi l'azienda, cedendo o sublocando l'immobile.

Nemmeno si può escludere a priori che l'attività d'impresa continui, dopo una temporanea quiescenza, non solo a seguito di esercizio provvisorio, o di una cessione in blocco dell'azienda, ma anche di una ripresa dell'amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato (Cass. civ., sez. III, 3 febbraio 2003, n. 3129).

Pure la giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Toscana 10 maggio 1997) ritiene che, anche dopo la dichiarazione di fallimento, l'azienda del fallito continua a sussistere, indipendentemente dalla circostanza che si sia provveduto o meno all'esercizio provvisorio dell'impresa, stante che è riconosciuta, in ogni caso, al fallimento la possibilità di trasferire l'azienda medesima entro un arco temporale definito.

Secondo i giudici ordinari (v., tra le altre, Cass. civ., sez. III, 9 gennaio 1987, n. 71), invece, l'esercizio provvisorio dell'impresa del fallito configura una mera fase della procedura concorsuale e non implica trasferimento dell'azienda al curatore, sicché, quand'anche il curatore non receda dal rapporto di locazione, egli, in realtà, mantiene in vita un rapporto, senza però subentrarvi come conduttore, ma semplicemente come organo fallimentare posto alla realizzazione dell'attivo (resta fermo, tuttavia, che il curatore, se può cedere a terzi l'azienda al fine di liquidare un'attività acquisita al fallimento, non avrebbe la facoltà di cedere anche il contratto di locazione all'acquirente dell'azienda).

Riferimenti

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